Quelle domeniche un po’ così, a St Clair (Parte I)

“Che poi io all’estero, mica ci vivo male, anzi.” Penso questo mentre il tram 512 mi trasporta dalla metropolitana a St Clair West Avenue, è una domenica di fine aprile ma non è primavera ancora. Sfodero la giacca leggera, ben abbottonata, ma quando le nuvole coprono il sole e si alza l’aria, un po’ di fresco lo accuso. Taglio un pezzo di città, Toronto non dorme più ma non si è nemmeno svegliata del tutto, o meglio, ancora non è fuori a riempire vie e negozi.

Ho deciso di andare alla scoperta di una Italian Bakery, un forno all’italiana piuttosto noto, in una zona che un tempo era la prima vecchia Little Italy della città. Scendo un po’ prima della mia destinazione per farmi due passi a piedi, per guardarmi la zona meglio e respirare questo posto. Mi fermo a St Clair Church dove c’è la messa domenicale, entro, mi guardo attorno e aspetto la fine dell’omelia. Uscendo mi imbatto poco dopo in un signore di colore che mi ferma e mi mostra una rivista di taglia medio-piccola, leggo solo “Tower”, ma ho capito immediatamente. Lo saluto, lo ringrazio garbatamente ma gli dico che non sono interessato e proseguo.

Sì, proseguo.

Proseguo e dò sfogo ad una serie di improperi a voce alta, tanto sono da solo e non ho nessuno nelle vicinanze. Il turpiloquio non è rivolto a nessuno, men che meno al signore appena incrociato, impreco semplicemente contro il mondo e i sentieri della mia esistenza che si annodano e si stringono sempre più forti, inveisco contro un filo rosso che evidentemente si snoda da tempo.

Mi riviene in mente la chiamata di Antonio del sabato che prima di finire si è chiusa con un suo racconto il quale mi ha occupato testa e immaginazione per il resto della giornata.

Metto in icona un attimo la faccenda, controllo i numeri civici e capisco di essere nei pressi del forno. Vedo davanti ad un bar tre facce da italiani che parlano amorevolmente e mi fermo, li interrompo e gli chiedo informazioni sul forno. Mi dicono che è cento metri più avanti sulla sinistra, mentre l’uomo che mi sta dando le indicazioni, a un punto, rivolgendosi ai suoi due compari esclama: “Ah, abbiamo un toscano qui!” Me lo guardo e gli dico: “No guardi, non sono toscano.”

Il secondo incalza e mi dice, con la classica espressione del romano che la sa lunga (non sapevo fosse romano, l’ho scoperto 30 secondi dopo, ma l’espressione era inconfondibile) “Ma questo è ciociaro!”

A quel punto, mi trovo costretto a intervenire perché ci stanno andando giù pesanti con buona pace del mio vero amico ciociaro. Ribadisco così che non sono ciociario con un triplo no. Un secondo prima che sveli la mia identità, il primo riprende e dice: “Ma no, è napoletano!”

In maniera davvero involontaria, del tutto incontrollata, faccio due passi all’indietro, alzo le mani tirandole un po’ in avanti e mi esce un inappropriato: “Per l’amor di Dio, non scherziamo. Sono romano. Vengo da Roma. Io.” Esce tutto il mio campanilismo che scoppia come un petardo. Mi scappa così e non posso più tornare dietro.

Il punto è che il terzo che non ha ancora parlato, dopo poco capisco che è un figlio di Parthenope. Non l’ha presa bene, presumo. Ma tant’è. Il romano mi chiede la mia zona d’origine che ovviamente strappa l’ironico e immancabile “Bella zona…” con tanto di sorriso. Mi domanda perché non si percepisca il mio accento ed io rispondo che tendenzialmente parlo in italiano ma anche che per motivi professionali ho calibrato mira e dizione. La mia attenzione viene a un punto catturata da un altro tizio, davvero orrendo, che esce dal bar. Non a caso sfodera una giacca falsa del Milan, è molto comico e il vestito gli calza a pennello.

Saluto la combriccola e riprendo la mia passeggiata. Attraverso i binari del tram ed entro nella bakery. Giro di perlustrazione e poi decido che voglio il salame. Assolutamente. Chiedo in italiano alla signora se è possibile avere un panino, lei acconsente, me lo prepara e me lo serve.

A quel punto mi guardo intorno e vedo solo un tavolino libero attaccato a due signore che stanno facendo in realtà colazione. Mi avvicino e poi mi blocco. Guardo la giovane delle due donne, la fisso con sto cazzo de vassoio fra le mani, sto panino tagliato a metà e rimango cinque secondi immobile. Il cervello mi dice semplicemente: “Mattè, sì, è uguale Elena. Ma di una somiglianza spaventosa. Lascia stare, oggi è andata così. Mettiti là e mangiate sto panino, su.”

CONTINUA

Quelle domeniche un po’ così, a St Clair (Parte I)ultima modifica: 2015-04-26T22:35:43+02:00da matteociofi
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