Il post-operazione

Non è mai piacevole stare all’ospedale, me lo ripeto mentre cammino per i corridoi del Santo Spirito, ogni tanto mi fermo per guardare dalla finestra il Tevere sotto di me, cerco l’angolatura per osservare Castel Sant’Angelo illuminato, fuori intanto la vita corre, fra chi torna a casa e chi si prepara ad uscire per godere gli ultimi scampoli di estate.

I riti poi sono sempre quelli. La mia fortuna è quella di essere solo in camera, alle sei mi svegliano, non disturbo nessuno e comincio a prepararmi per la sala operatoria. Mi infilo il camice verde, arrivano con il lettino e me ne vado disteso. Quando tornerò, qualche ora dopo, so che starò molto meno bene. Mi preparano, il barelliere mi fa l’occhiolino bonario e mi lascia nelle mani di due infermieri. Si parla di calcio, ovviamente, si cerca di stemperare la tensione che io, onestamente, non avverto. Sono il primo ad essere operato, dentro fa freddo e mi riscaldano in qualche modo con dei tubi di aria calda. Non vedo molto, ho la testa bloccata, la mia visuale è solo il soffitto. Mi saluta il chirurgo, continuano a parlarmi del Canada e ad interessarsi alla mia vita che deve essere molto più spumeggiante e poco ordinaria di quello che penso. Una puntura sulla schiena, perdo la sensibilità su gran parte del corpo, mi coprono gli occhi e intervengono. Non sento nulla e non sentirò le mie gambe per ore. Cercherò di alzarle ma sempre senza successo, un gioco che mi fa pensare a chi non può mai farlo veramente. Terribile.

Passo due ore sotto osservazione e poi torno di sotto.  Continuo a rimanere a digiuno, il tempo passa molto più rapidamente di quanto immaginassi. Rimango solo in attesa di mio padre, finalmente posso cenare e poi inizia una lunga notte insonne, scontata quanto infinita, addolcita solo da una chiamata canadese che quanto meno mi risparmia un paio di ore di nulla.

Controlli, prelievi, visita, scendo e cammino un po’ per andare al bagno. Sento male ma non troppo, antidolorifici e morfina mi stanno sedando notevolmente. Faccio colazione, mi sento discretamente dopo 24 ore dall’intervento, ho solo tanto sonno ma non riesco a dormire perché sono bloccato da due posizioni e dopo un po’ mi sveglio puntualmente.

Posso tornare a casa, ricevo l’ok. Meglio il mio letto, meglio casa che l’ospedale. Sempre, malgrado tutto. Dormo molto, la notte è meno complicata e riposo ma ho un’altra decina di problemi e fastidi. Mi perdo un po’ l’angoscia del pre-derby, sento invece quella della seconda domenica di settembre, quella che conduceva al ritorno a scuola. Ci penso quando rifletto che domani il figlio di mio cugino tornerà sui banchi. Quella sensazione di attesa, di giorno prima, mi spinge a pensare seriamente che sia meglio avere dei punti addosso e una ferita da rimarginare piuttosto che riempire uno zaino.

Intanto domenica sta per scorrere via, fuori il tempo è cambiato, ripenso a domenica 13 settembre 1998. Il tempo era uguale e pareggiammo in rimonta a Cagliari 2-2 con doppietta di Ventola. Il giorno dopo avrei iniziato le medie e il sol pensiero mi angosciava.

Domenica appunto, fra sette giorni anche il concerto sarà un ricordo, ma prima dobbiamo andarci, e allora, una cosa per volta. Godiamoci quello, poi penseremo al resto. Dai.