Croazia, 8 anni dopo

In questi mesi ho pensato a cosa potesse essere degno di nota per tornare a scrivere.

In primavera, ho sperato che una seconda stella fosse il gusto appiglio, dopo ho puntato sul rinnovo di contratto – che rispetto alla stella almeno è andato in porto – ma i troppi impegni mi hanno tenuto alla larga.

Ad un punto il grande evento del World Meeting of Families, con rievocazioni ma anche diversi aspetti unici, sembrava essere l’input perfetto, se non fosse che gli orari improbabili ed il lavoro no-stop mi hanno spento ogni tipo di velleità.

Alla fine, le ferie ed un viaggio imminente hanno ottenuto la patente di argomento per un post e a poche ore dal salire finalmente su un aereo che valicherà i confini nazionali, mi ritrovo a scrivere qualcosa.

Andare in ferie realmente dopo 3 anni con nel mezzo un licenziamento, una pandemia e una assunzione estiva ha un bel sapore. Quella sensazione di pausa meritata, di riposo inevitabile e necessario per recuperare e svagarsi soprattutto. Vivo esattamente quello con l’aggiunta del piacere di una vacanza itinerante in un posto che per me ha sempre avuto un suo fascino.

Sarà stata l’infanzia a vedere il TG1 distrattamente con Pino Scaccia che parlava dalla Jugoslavia, sarà il mio viaggio in solitaria nei Balcani del 2014, ma anche il mito del grande Sasha Danilovic e la luna di miele dei miei, eppure a me la Jugoslavia ha sempre evocato un fascino molto particolare.

Di conseguenza, essere in ferie e andare in Croazia, risulta una combinazione magica.

Zara, Spalato e poi Dubrovnik, un bel pezzo di costa attraversando le tre città principali, in pullman come nel 2014 ma non da solo come quella volta.

Anche questo aspetto conta tantissimo e vale l’emozione, finalmente un viaggio all’estero dopo quello ormai lontano del 2017 in Colombia quando io raggiunsi lei. Stavolta sarà ben diverso, un’ora di volo attraversando Italia e Adriatico ma soprattutto insieme e oltre i confini.

Era saltata Londa a marzo per un visto, Malta a fine maggio per un cambio volo inatteso della compagnia, stavolta scioperi permettendo ce la dovremmo fare a raggiungere quella parte di Europa che non è una area geografica, bensì “uno stato d’animo” come sostiene il mitico Sergio Tavcar parlando dei Balcani.

È tempo di chiudere le valigie, si torna a viaggiare. Si va in Croazia!

Compleanno 14

Ci sono e non me ne sono mai andato via, tanto per chiarire.

Ci sono stato meno: per ritmi, un po’ per scelta e forse anche per colpa della pigrizia. Non si può certamente dire che sia mancato il materiale a disposizione, ci eravamo lasciati con uno scudetto ed in mezzo c’è stato anche un Europeo, il famoso trofeo “che mi mancava” e che ho vissuto sulle tribune. Un giorno potrò dire, io c’ero, almeno qui a Roma, quando la favola iniziava a raccontarsi.

Tanto lavoro, e quello non si può mai commentare in senso negativo dopo un 2020 del genere. Lavoro sì, ma anche altri colloqui, distrazioni e rivisitazioni varie di contratti.

Soldi nuovi e altri sottratti come l’ultima sciagura della carta clonata che sembra aver trovato un lieto fine, un epilogo che di certo non elimina la sensazioni di aver messo in mano a dei dilettanti i miei risparmi.

C’è stata tanta Italia in questi mesi. Bari, Catania, Siena, Pescara e Terni. A breve anche Trento e Bolzano, un 2021 alla scoperta di quelle parti di Italia meno da copertina. Ma tanto, ogni luogo, ogni città, nasconde una sua anima, meno autentica di un tempo forse, ma sempre affascinante anche solo da percepire.

Sono stati mesi di corsa, anche nel senso più ginnico, mesi non banali. Un tempo di rinnovate convinzioni e scoperte. Un tempo in cui ripeto che mi sto invecchiando, perché ho sempre meno pazienza e ho un calante interesse verso persone e cose.

Un tempo in cui ho dato più valore alla mia attenzione, che va conservata e protetta, ma soprattutto devoluta a chi se la sa guadagnare.

Quattordici anni fa iniziavo a scrivere qua, avevo 20 anni e qualche mese. Mai avrei immaginato di essere da queste parti dopo tutta questa strada, anche se ultimamente meno presente. Ad un compleanno però non si dice mai di no, e allora oggi, più che mai, bisognava esserci.

O semplicemente, tornare.

16 volte Campioni

Siamo campioni d’Italia per la 16esima volta e l’importanza, così come l’unicità del momento, mi riportano sul blog a scrivere.

Sì, l’inizio è identico al precedente post, eccetto per il numero, ma la sostanza è quella, anzi, l’evento è  unico perché per la prima volta in 34 anni entrambe le mie squadre hanno vinto lo scudetto lo stesso anno.

Era il 2 maggio per l’Inter, l’11 giugno per la Virtus, 7292 giorni dopo l’ultima volta, 20 anni fa, mentre preparavo i miei esami di licenzia media e la grande Kinder di Ettore Messina, oggi avversario sconfitto, completava il grande slam nella stagione 2000-2001.

È stato un mese di rarissima intensità quello che sta per finire, alcune situazioni me le aspettavo, altre meno, questo scudetto rientra assolutamente nell’ultima categoria.

Un playoff netto, senza sconfitte, con mezza difficoltà, a Treviso in gara-3, che dicono essere stata la svolta.

Lezione a Brindisi, la squadra rivelazione e poi Milano, la corazzata, il compito impossibile, il potere costituito, aiutata il più possibile dagli arbitri, l’avversario che sogni di battere.

È stata una serie intensa emotivamente, fra il senso di sorpresa, l’attesa, il timore di vivere una illusione e il sogno di compiere l’impresa con tanto di cappotto.

In tutto ciò, avendo ripreso a lavorare con orari non proprio comodi, il mio viaggio di ritorno a casa diventava quello verso la palla a 2 delle ore 20:45.

Poco prima della semifinale con Kazan in EuroCup mi domandai se avrei accettato di uscire ma di vincere lo scudetto, un bivio che nemmeno un pazzo si sarebbe posto vista la forza di Milano. Con i russi sappiamo come è finita, ma con Milano davanti mi è tornata quella folle scelta alla quale avevo risposto senza esitazioni con il tricolore.

È stata una impresa che racconteremo per anni. Forse una delle più grandi della storia della V nera,

contro ogni pronostico, con il fattore-campo contro in semifinale e finale, da terza in campionato, con un arbitraggio indescrivibile in finale, il 4-0 a Milano è roba da tramandare come vittoria di cuore e voglia.

Una squadra con 3 americani, tanti italiani, due giocatori del settore giovanile fra cui un bolognese ed un coach troppo bistratto, in sostanza una squadra di altri tempi, un po’ favola e un po’ film con i rivali che sembrano insuperabili.

Impossibile non farsi trascinare, non rivolgere il pensiero alla partita ogni 10 minuti, non contare i minuti e guardare l’orologio con ansia.

Una serie col groppo in gola, a caricarmi mentre salivo o scendevo le scale della stazione Termini, soprattutto venerdì 11 giugno, mentre tutti pensavano all’apertura dell’Europeo e io correvo per andare a casa e non perdere niente della gara che poteva darci lo scudetto numero 16.

Tante emozioni, anche un filo di commozione ed il pensiero a Djordjevic che non ho mai realmente saputo criticare, forse per il troppo rispetto e l’ammirazione che ho di lui da giocatore. È stato anche il suo scudetto, una rivincita e sono felice umanamente per lui, così come mi è dispiaciuto per il suo addio da fresco campione, un fastidioso parallelismo con Conte.

Abbiamo vinto, è stato splendido tornare a vivere certe sensazioni, a soli 4 anni dal ritorno in A1. Un urlo forte, il pensiero di cosa sarebbe stato con il palazzo pieno, una valanga di ricordi di questi 20 anni, roba grossa, roba difficile da spiegare per chi non sa cosa sia vivere momenti così…giorni da bi-campione d’Italia.

19 volte Campioni

Siamo campioni d’Italia per la 19esima volta e l’importanza, così come l’unicità del momento, mi riportano sul blog a scrivere.

A fine 2020 mi ero intimamente ripromesso che sarei tornato a pubblicare un post solo in caso di buone notizie, esclusivamente per qualcosa di bello e quindi meritevole di essere appuntato qua.

Ho sfiorato questa possibilità a metà marzo per motivi di lavoro, ma nel bel mezzo di questa primavera inoltrata e mai veramente sbocciata, è arrivato il tricolore a riportare il sorriso.

Campioni d’Italia con 4 partite di anticipo, una trionfo che è una via di mezzo fra quello del 2007 e quello del 2009, con tanto di festa non in campo ma sul divano, con tanto di distanziamento per ciò che riguarda i giocatori.

Sapevo che avremmo vinto a causa dell’Atalanta, ne ero così consapevole che la bandiera preparata per l’occasione volevo che fosse pronta per questo weekend. La speranza era una festa sabato prossimo, occasione per la quale sarei partito anche alla volta di Milano, ma la mia maledizione scudetto, puntuale e mai sopita, è si è ripresentata in modo inevitabile.

Per la quinta volta in vita mia infatti, con l’Inter campione d’Italia, io non ero ne allo stadio e nemmeno in piazza a Milano a festeggiare. Dopo le 4 volte di fila fra il 2007 ed il 2010, è successo ancora.

Una sortilegio che dura e va oltre il tempo, un qualcosa che da anni mi strozza sempre un po’ il grido di gioia, di certo mi annacqua quelle emozioni che si vanno ad accumulare nel corso di una stagione. In sostanza: sono felice ma sarei potuto esserlo molto di più.

Ognuno di noi mette dentro a certe vicende qualcosa di profondamente proprio, impossibile da spiegare se non lo si vive in modo diretto, per questo ho grande rispetto delle reazioni ed emozioni altrui.

È stato uno scudetto celebrato per la prima volta non a casa mia, il primo senza mio padre, il primo oltre i 30 anni e da sposato. Diverso senza dubbio, in tempo di pandemia, senza pubblico, con mascherine e coprifuoco, roba difficile da ipotizzare e immaginare l’ultima volta che ci eravamo cuciti qualcosa sul petto.

Speravo di godermi un po’ di sana caciara, quella in cui si canta e si festeggia alla faccia di tutti, ma vincere un campionato significa anche aver vissuto tanti bei momenti nel corso dell’annata, vittorie ed imprese che un turno alla volta ti hanno regalato quel pizzico di gioia speciale.

Uno scudetto in rimonta sul Milan non lo avevo mai vissuto, e questo lo ha reso profondamente intenso. Senza dubbio la metà di febbraio è stato il turning-point stagionale. Sorpasso e vittoria schiacciante nel derby, lì si è aperto il solco, in quei 7 giorni  si sono rovesciate tutte le gerarchie in modo irreversibile.

Se devo trovare una vittoria in cui ho capito che era l’anno buono, torno a Torino-Inter. Una partita giocata male e sbloccata, ma soprattutto rivinta quando sembrava ormai compromessa. Una vittoria da campionato in cui porterai a casa lo scudetto, quei successi che in altri anni non ottieni mai.

Non ho mai pensato che fosse una passeggiata, ho sempre temuto la Juve più del Milan, così come il rischio implosione in autunno con l’eliminazione totale dall’Europa. Ho avuto vari timori quando le vicende finanziarie sembravano essere una seria minaccia per la stabilità della squadra, un gruppo che invece si è compattato per non fermarsi più.

È banale dire come sia lo scudetto di Conte, uno che ho anche criticato ma sul quale sono stato felice di ricredermi per scelte e capacità di tenere tutti in piedi. Il 19esimo della nostra storia ha la sua firma, senza di lui nulla sarebbe stato possibile, e lui è la garanzia per un futuro luminoso, così come la possibilità di continuare a vincere.

Siamo campioni d’Italia, a me fa sempre uno strano effetto, mi sembra sempre impossibile, ma è successo ed il regno bianconero è finalmente terminato. Godiamoci la “festicciola”, magari la prossima, per la seconda stella, sarà più grande e chissà che io non sia pure in grado finalmente di spezzare la mia personale maledizione tricolore.