Toronto, nove mesi dopo

So soltanto che ero partito per il visto, e poi mi sono ritrovato a camminare per Times Square, con 28 gradi e il rischio di non rientrare a Roma come stabilito il 7 maggio.

Certo, bisogna riannodare il filo per bene per spiegare tutto questo, e un’ora di pausa vale la pena impiegarla in questo modo.

Ritrovarsi a Toronto dopo nove mesi mi ha permesso di fare una serie di valide riflessioni, la prima, e la più immediata, è stata quella del profondo senso di familiarità che ho percepito subito. Tutto ho avvertito tranne che da 9 mesi ero fuori dal Canada. Camminare lungo Sherbourne o ritrovarmi a Dundas Square mi ha trasmesso quella sensazione di compiere una azione fatta per l’ultima volta poco prima, roba di settimane, non certamente di mesi.

È stato strano ritrovarmi davanti il palazzo in cui ho abitato per oltre un anno e mezzo e vedere la finestra del mio appartamento aperta, consapevole che non ero stato io a lasciarla così, per far cambiare un po’ l’aria mentre ero a fare la spesa da Metro.

È sempre particolare ritrovarsi in un luogo che ti è appartenuto così profondamente e non aver modo di poterci accedere, fortunatamente, e per ovvi motivi, questo è successo solo per ciò che riguardava la casa.

Per il resto Toronto è quella, esattamente come l’avevo lasciata, stesso discorso per le persone. La cosa che mi ha stupito è la velocità con cui hanno tirato su due grattacieli all’incrocio affianco al mio vecchio condominio. Quando sono partito stavano facendo gli scavi, oggi ci sono oltre 30 piani di una costruzione enorme, una roba che in Nord America capita senza troppe storie ma che a me, nonostante tutto, fa ancora effetto.

Toronto dicevo, l’ufficio, il ritorno al caro Crocodile, i profumi di sempre, la TTC, il fuso che ti dà sempre quella stranita nonostante l’abitudine e poi ovviamente i volti delle persone.

Tutto bello, perché la verità è che tornare in un posto così significativo è sempre un rischio, anche per poche settimane, non sai mai dove puoi finire.

Per il resto, ho ripreso la mia vita normale in ufficio, i tempi e le abitudini: la pasta portata da casa, le giacche lasciate in redazione per andare in onda, il panino comprato da Sobeys, insomma una routine alla quale mi sono immediatamente riabituato, come se avessi riacceso l’interruttore dopo alcuni minuti di black-out.

In tutto questo c’è stata ovviamente la gita a Niagara per il visto e proprio come tre anni fa, il primo tentativo è andato male, stavolta per un motivo ancora più sciocco: da alcuni mesi infatti non rilasciano più visti dal venerdì al lunedì. Fossimo andati il giorno prima tutto sarebbe andato liscio, invece no.

Invece, per l’ennesima volta in vita mia, l’intoppo ha bloccato tutto, ha complicato la situazione. Non avrei scommesso su una perfetta e immediata riuscita, ma non per pessimismo, è semplicemente perché è sempre andata così negli ultimi 31 anni. Qualunque cosa, anche la più banale, se ottenuta, è sempre stata agguantata dopo passaggi rocamboleschi, brividi inattesi, complicazioni di vario genere.

L’assalto fallito al primo tentativo ha generato una serie di conseguenze e prospettive, una delle quali era quella di rimanere lì dieci giorni in più per ottenere il visto, andando con il mio capo alla frontiera nuovamente. Alla fine mi sono ritrovato nella situazione ancora più surreale di prendere un volo per NYC alle 7 di mattina e rientrare con l’aereo delle 5. Nel mezzo, un giro inatteso per la mia città preferita, e tornarci dopo solo due anni mi ha agevolato poiché mi sono potuto muovere con destrezza insolita, considerando che avevo ben chiari nella mia mente tutti i punti di riferimento chiave.

Poche ore in giro per Manhattan e poi ancora un volo, la tosse che mi ha scortato fedelmente in questi giorni e una delle file più lunghe che io ricordi all’ufficio di immigrazione dell’aeroporto di Toronto. Tre ore in piedi per un visto, ovviamente strappato con ulteriori peripezie, visto che volevano darmi un solo anno anziché i tre richiesti.

Una giornata infinita, terminata con il risultato desiderato, il motivo che mi aveva appunto spinto a partire per un giorno, rientrando in Canada dalla frontiera aeroportuale.

Come in passato, Toronto non è stata però sinonimo di comodità o di cose facili, lo sapevo in fondo perché troppe volte l’ho sperimentato. Ho dormito sul mio vecchio materassino gonfiabile per otto notti, esperienza non meravigliosa soprattutto se devi recuperare da viaggio e jet-lag, mi è venuta la tosse quasi immediatamente, dopo 9 giorni ho traslocato altrove, tutto il caos per il visto, insomma, non una passeggiata, ma come detto, non mi stupisco di tutto ciò.

È stato bello tornare, è stato utile per capire anche quale risposta dare al grande quesito: ma ho fatto bene a tornare a Roma per lavoro? Sì, è stata l’idea giusta, ma se in Canada mi mancavano le persone dell’Italia, di Toronto mi mancano diverse cose da fare e soprattutto un certo status. È la vita alla fine, va sempre così.

See you soon.

Toronto Atto VII

Qualche ora e poi tornerò a Toronto. Non è certo la fine di ottobre 2015 quando con il Sinodo quasi all’epilogo ero pronto a imbarcarmi nuovamente senza biglietto di ritorno, ma al tempo stesso è pur sempre un qualcosa di importante.

Mi aspettano poco meno di tre settimane canadesi, e fra lavoro e motivi burocratici per sistemare un po’ di faccende, non ci sarà tantissimo tempo per svagarsi considerando le moltissime cose da fare e i tempi serrati.

Il tempo è peggio del solito, la neve sta andando oltre la metà di aprile, cosa piuttosto poco usuale anche a Toronto, arriverò con la neve lungo le strade, come tutte le volte a parte un paio di volte, ottobre 2015 appunto e maggio 2016.

Ci sono ovviamente sensazioni particolari in questo ritorno, molte più di quanto avrei immaginato. Tornare in un posto in cui hai passato due anni e mezzo ha sempre un sapore speciale, è un riappropriarsi di certi immagini che per lungo tempo sono state quotidianità, la normalità.

Fin dalla prima volta che rientrai a Dublino da Liverpool, dopo i primi mesi di Irlanda, rimasi sorpreso da quella sensazione di quando torni in un posto che non è il tuo ma ti senti a casa, perché quella, effettivamente è la tua casa, o almeno lo è diventata. Toronto è proprio questo.

Indubbiamente è il posto in cui ho vissuto più tempo escludendo Roma: la città degli ultimi anni con la quale ho avuto un rapporto altalenante, di profonda incomprensione reciproca, ma che col tempo si è evoluto e gradualmente migliorato, soprattutto negli ultimi 10 mesi.

Volo da Roma e Toronto per la settima volta, tornerò in un luogo che ha segnato veramente un prima e un dopo nella mia vita. Un posto in cui ritroverò facce amiche, colleghi, sguardi e profumi. Il Crocodile, la redazione, Dundas Square e forse anche un pizzico di malinconia, quella però che ti fa sorridere.

È tempo di andare, anzi, di tornare.

Un sacco di cose. Random.

Sono rimasto indietro e lo so bene. A volte mi verrebbe quasi da scusarmi con il blog per essere stato lontano o per non aver marchiato magari una data speciale, come quella recente del 6 marzo, giorno del mio compleanno. In tutto questo però, c’è una vittoria.

Un successo che affronta la pigrizia ed un concetto che per anni ho teorizzato: più non aggiorni, più rinvii e lasci stare, e più poi potresti essere attanagliato dall’angoscia del non sapere da dove cominciare quando vuoi parlare, con il rischio di desistere nuovamente. Ho diverse considerazioni da srotolare ma trovare un senso a tutto è impossibile e quindi vado, un po’ a caso, randomico e riallaccio il filo del discorso.

Cinque anni dopo siamo tornati a votare per il nostro governo e non mi volevano far votare per una svista al seggio. Un errore sciocco, che perdoniamo e che mi ha fatto tornare ai tempi di scuola. Sul registro degli elettori, affianco al mio nome, c’erano già firme e dati, se non fosse che tutte queste informazioni riguardavano mio padre, il quale sull’elenco risulta sopra di me. Dopo momenti concitati, e chiarito il disguido con tanto di domanda che ci ha proiettati nel mondo surreale – “Ma lei è sicuro che questo signore è suo padre?” – ho votato.

A quel punto, dopo aver inserito la schede – anche quella per il Senato – nonostante per tutti i presenti al seggio non potessi essere un over 25 – ho ritirato i miei documenti, mentre sul registro una meravigliosa doppia freccia invertiva di fatto i nomi e i dettagli del sottoscritto con quelli di mio padre. Come si direbbe a Roma, una pecionata in piena regola.

Un po’ come quando a scuola mettevi la freccetta con tanto di dicitura “segue” per far capire al professore di turno che lo svolgimento del compito proseguiva altrove.

Abbiamo votato e anche stavolta nessuno ha vinto. Vinto inteso come successo che ti permette di governare. Via così a consultazioni, impicci, previsioni, lotte e altre sfide dialettiche, un po’ quello che ci attendevamo. Renzi ha perso, il M5S ha trionfato come partito, Salvini ha fatto lo storico sorpasso e ora vediamo quale altra acrobazia bisognerà trovare per formare un governuccio.

Sullo sfondo delle elezioni, c’è stata la morte del povero Astori e una fastidiosa retorica del mondo pallonaro, conosciuto oltretutto come uno degli universi più sporchi, forse anche più della politica. Il derby è così saltato, io invece sono tornato a visitare il Colosseo dopo quasi sei anni mentre ho perso il calcolo dell’ultima volta in cui ero stato anche a passaggio dentro il Foro.

In tutto questo, per un bizzarro e fastidioso scherzo del destino, sto vivendo il mio personale inverno canadese fuori dal Canada.  Forse a molti è sfuggito, ma l’ultima giornata di sole, degna di essere chiamata così, è datata venerdì 16 febbraio, il giorno della mia passeggiata a Villa Pamphilj.

Pioggia in stile dublinese, freddo in salsa torontiana, e neve che dopo sei anni esatti è tornata a imbiancare la città, per la gioia di molti ed il mio profondo fastidio.

Dicono che sia tutta colpa dello stratwarming, uno strano fenomeno che capita ogni tanto, l’ultima volta nel 1985 e quella precedente nel lontano 1963. Resta il fatto che la mia antipatia per la pioggia non è solo roba da metereopatici di bassa lega, visto che a me impone cambi di programma e di registrazione importanti, con soluzioni di ripiego e qualità della luce sempre lontana da ciò che desidero. Questo interminabile maltempo mi perseguita e ripenso a quando lo scorso anno dicevo ripetutamente “A se fossimo a Roma…” Ecco, siamo qui e il risultato è tale che qualcuno potrebbe dire che ho sempre inventato tutto o esagerato ampiamente.

Qui si sono intanto festeggiati due compleanni e il fatto di averli celebrati insieme, a distanza di un anno e in un altro continente, è un risultato vero. Questo avevo sperato lo scorso sei marzo mentre soffiavo sulla candeline e questo è ciò che accaduto con buona pace nostra ed una gioia mista a soddisfazione per avercela fatta malgrado tutto.

Non mi pesavano i 30, non mi pesano ora i 31. Mi dispiace per quelli che provano ancora a mettermi pressione o angosce varie. So bene che il mio 30esimo anno l’ho impiegato e vissuto come meglio non potevo. Fra progetti, traslochi intercontinentali, ricerche di casa, traslochi cittadini, viaggi intercontinentali non previsti come vacanze, investimenti emotivi, economici, impegni seri e condivisione di tutto da un giorno all’altra, di più non potevo.

Di roba ce ne è stata e quindi diventa complicato, se non impossibile, lamentarsi del tempo che è trascorso se sai di averlo utilizzato nel modo migliore. I 31 saranno chiaramente diversi. Certi percorsi iniziati devono ora maturare, e per quanto un inizio abbia sempre un grande fascino, è anche vero che poi è bello mettersi all’opera e dare seguito a ciò che si è cominciato, come il mio ritorno a Roma e le mille cose che ha racchiuso.

C’è stato spazio nel frattempo anche per una polemica a distanza con la vicina di casa e lo scontro crudele con la burocrazia italiana, con la Polizia e quel modo tutto nostro di essere superficiali, impreparati, incompetenti, spocchiosi, velenosi, antipatici, lavativi, sciocchi e menefreghisti.

Due situazioni che mi hanno regalato un profilo nuovo di ciò che è questo paese, aspetti però su cui mi voglio concentrare meglio in un post a parte…

It is time to go

“Se la curiosità è una emozione, allora io sono emozionatissimo”.

Da giorni ho coniato questa espressione e l’ho ripetuta diverse volte per descrivere la situazione e questo ricongiungimento. C’è un grande mix di sensazioni e pensieri naturalmente, anche se penso di aver vissuto l’avvicinamento nel modo più sereno.

Il 27 agosto all’aeroporto di Bogotà sapevo che non era un addio e in questi cinque mesi non ho mai cambiato idea. Era un arrivederci e così è stato, anzi, così siamo riusciti a renderlo.

Certo, raccontata in questi termini sembra facile, ma non lo è stata. Mai ho sottovalutato la distanza, anche se a fine ottobre, dopo due mesi, ho iniziato ad accusare una certa fatica, in quel momento però abbiamo anche cerchiato una nuova data sul calendario, e da lì in poi è iniziato un countdown molto lungo ma che almeno ci ha rianimati, consapevoli di correre verso un obiettivo comune.

Non è stato semplice, ma siamo stati bravi. In un mondo in cui la gente impazzisce per un messaggio visualizzato su Whatsapp al quale non si replica immediatamente, vivere per cinque mesi con 7 (e poi 6) ore di fuso, limitazioni lavorative, orari scomodi e mai sovrapposti in qualche modo, è davvero dura, ma noi siamo andati oltre.

Rispetto, fiducia, forza. Le energie mentali spese sono state naturalmente tantissime, mai siamo stati determinati a venirne fuori nel modo migliore, insistendo sempre.

Un traguardo è stato raggiunto, un traguardo che però dall’altro lato recita la scritta “Start”, un nuovo inizio, un altro inizio direi. Ci sarà molto da scoprire e questa è la meraviglia che genera la mia curiosità menzionata all’inizio. Comincia veramente un nuovo campionato che ad oggi, biglietti alla mano, sarà di tre mesi, un campionato che dura come quelli di GoalUnited, la speranza non nascosta  però, è che possa essere l’anticamera di qualcosa di altro, possibilmente di più duraturo.

Ricordo ogni momento in cui si è parlato di questa ipotesi, di questo grande piano di riunirci a Roma. Sembrava a suo tempo, febbraio scorso, una cosa molto grande, forse fin troppo, eppure con il tempo l’idea non è mai svanita ma si è solo rafforzata. Abbiamo disegnato le nostre traiettorie anche per arrivare a questo appuntamento.

Ricordo la prima volta che ne parlammo, a casa mia, vicino ai fornelli in attesa di buttare la pasta, o da Burgerator a Kensigton Market un sabato sera.

Ripenso anche alla conversazione a maggio, seduti al Cineplex di Dundas Square guardando Yonge Street, oppure quella volta che a Zipaquira camminavamo per guadagnare la stazione dei pullman per tornare a Bogotà.

Non sono state parole buttate, non sono stati discorsi fatti per fantasticare. Io ci credevo e lei evidentemente pure, forse più di me considerando che è la persona in procinto di muoversi.

“Bisogna crederci e ci dobbiamo provare” ho detto spesso, era doveroso darci una possibilità diversa, su un campo differente e tutto ciò sta per compiersi.

Da domani inizia un altro viaggio, è tempo di andare.