“E pure sto Sinodo…”

“E pure sto Sinodo se lo semo torto de mezzo…”

Per la terza volta alla fine di ottobre mi sono ritrovato a ripetere questa frase ormai proverbiale, pronunciata una sabato sera di ottobre del 2015 al termine del primo Sinodo seguito, quello da insider e indubbiamente il più faticoso.

Tre anni dopo, ossia lo scorso ottobre, ho vissuto il primo Sinodo da corrispondente a Roma, lunghissimo e ricco di insidie, 33 giorni di lavoro senza pausa.

Domenica invece è terminato l’ultimo, quello più breve dei tre e certamente più leggero per quanto mi riguarda in termini di lavoro e impegni.

È finita quindi anche questa avventura, e allora è bene dare una occhiata a ciò che dice questo documento finale approvato e votato dai presenti in aula.

Qui di seguito il mio articolo.

Il concetto di conversione è l’elemento che accompagna il testo finale del Sinodo che si è concluso domenica mattina con la messa nella Basilica di San Pietro.

Nel tardo pomeriggio di sabato, come tradizione ormai del Sinodo, è stato votato il documento finale che racchiude questi 21 giorni di Assemblea, un testo approvato a larga maggioranza dai 181 presenti in aula.

Cinque capitoli e 120 paragrafi, questa l’ossatura del documento. Nel primo capitolo c’è un invito ad una “vera conversione integrale”, con una vita semplice e sobria, sullo stile di San Francesco d’Assisi. I dolori dell’Amazzonia sono il grido della terra e al tempo stesso il grido dei poveri, un concetto ribadito dal Santo Padre nella sua omelia di domenica quando ha sottolineato che:

“anche nella Chiesa, le voci dei poveri non sono ascoltate e magari vengono derise o messe a tacere perché scomode. Preghiamo per chiedere la grazia di saper ascoltare il grido dei poveri: è il grido di speranza della Chiesa. Il grido dei poveri è il grido di speranza della Chiesa. Facendo nostro il loro grido, anche la nostra preghiera, siamo sicuri, attraverserà le nubi”.

Il documento evidenzia anche i tanti dolori e le numerose violenze che feriscono l’Amazzonia minacciandone la vita. Problemi come la privatizzazione di beni naturali; i modelli produttivi predatori; la deforestazione che sfiora il 17% dell’intera regione; l’inquinamento delle industrie estrattive; il cambiamento climatico; il narcotraffico; l’alcolismo; la tratta; la criminalizzazione di leader e difensori del territorio; i gruppi armati illegali, tutti problemi che attanagliano l’Amazzonia.

Nel secondo capitolo il concetto di conversione viene declinato a livello pastorale: la missione della Chiesa in Amazzonia dovrà essere “samaritana”, ossia andare incontro a tutti, altro tema ribadito dal Papa nelle ultime settimane, in un mese di ottobre che ha coinciso anche con quello missionario straordinario.

L’urgenza di una pastorale indigena e di un ministero giovanile sono i temi centrali di questo capitolo. Si trova anche l’invito a promuovere nuove forme di evangelizzazione attraverso i social media e ad aiutare i giovani indigeni a raggiungere una sana interculturalità.

Il terzo capitolo parte da un presupposto: la necessità di avere una inculturazione e una interculturalità per raggiungere una conversione culturale che porti il cristiano ad andare incontro all’altro per imparare da lui. Proprio i popoli amazzonici sono in grado di offrire insegnamenti di vita e sono coloro i quali possono spiegare concretamente che tutto il creato è connesso, essi sono infatti i migliori guardiani dell’Amazzonia. Anche perché, “La difesa della terra – si legge nel testo – non ha altro scopo che la difesa della vita”.

L’annuncio del Vangelo deve essere quindi il più distante possibile da “un’evangelizzazione in stile colonialista” e dal “proselitismo”, ma un messaggio che promuova una Chiesa dal volto amazzonico, rispettando storia, cultura e tradizione dei popoli indigeni.

La conversione ecologia è il tema principale del quarto capitolo. L’ecologia integrale non deve essere considerata però come un percorso alternativo che la Chiesa può scegliere per il futuro, bensì come l’unico cammino possibile per salvare la regione.

Tra le proposte del documento c’è anche quella della creazione di un fondo mondiale per le comunità amazzoniche, una azione per proteggerle dal desiderio predatorio di aziende nazionali e multinazionali.

L’ultimo capitolo, il quinto, torna sul concetto di sinodalità, affermando che: “in tale orizzonte di comunione e partecipazione cerchiamo i nuovi cammini ecclesiali, soprattutto, nella ministeralità e nella sacramentalità della Chiesa con volto amazzonico”. La sinodalità, in continuità con il Concilio Vaticano II, va letta come corresponsabilità e ministerialità di tutti, partecipazione dei laici, uomini e donne, ritenuti “attori privilegiati”.

Il paragrafo 103 spiega come nel corso dell’Assemblea siano emerse voci a favore del diaconato femminile. A questo proposito si chiede di poter condividere esperienze e riflessioni con la Commissione di studio convocata dal Papa nel 2016 e “attenderne i risultati”.

In conclusione, il paragrafo 111 apre alla possibilità “nelle zone più remote” di “ordinare sacerdoti uomini idonei e riconosciuti dalla comunità, che abbiano un diaconato permanente fecondo” pur avendo una famiglia legittimamente costituita e stabile.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il mio Sinodo 2018

Il mio Sinodo è finito oggi, poco prima di pranzo con l’ultima cosa da filmare relativa nello specifico a questo evento. Un’altra maratona è terminata, ma a differenza di tre anni fa, stavolta non ho anche la fretta di riempire la valigia per tornare a Toronto.

Ricordo quando nel 2015, tutti mi chiedevano se ero felice di rientrare in Canada, e la mia risposta era sempre la stessa: “Sì, perché così almeno mi riposo”.

Questa risposta implicava una grande verità, ossia la fatica che genera un Sinodo, che per me è un po’ il Mondiale della Chiesa, soprattutto per tempi e ritmi.

Anche questa è andata alla fine, e stavolta il recupero da 29 giorni di lavoro di fila (saranno 33 alla fine di questa settimana e prima di un vero weekend) sarà probabilmente più facile, considerando appunto che non ci sarà un volo, un fuso da smaltire e nessun momento per rifiatare.

A Dublino avevo riassaporato il piacere di essere dentro un grande evento, nel mese di Sinodo qui a Roma ho sperimentato lo stesso seppur con dinamiche diverse.

Rispetto al 2015 ho lavorato in una posizione diversa: meno insider, ma al tempo stesso ho seguito la conferenza stampa alle 13.30 ogni santo giorno.

Ho lavorato di più, sono stato più al servizio della squadra, ho avuto più responsabilità, un programma settimanale da continuare e fare e soprattutto sono stato il ponte, il tramite che comunicava con l’ufficio di Toronto.

È stata lunga, ma mai come questa volta ho constato il valore dell’esperienza: il sapere già quello che c’è dietro la prossima curva, la conoscenza pregressa che ti viene in soccorso e a volte ti aiuta.

Un mese di Sinodo significa nessun orario, weekend pieni a prescindere, connessioni internet che devono essere stabili, ma anche inconvenienti come il cavalletto che ha pensato bene di implodere o la tastiera del computer che una mattina ha smesso di funzionare, gettandomi nel dramma lavorativo.

Messe dentro San Pietro all’alba, controlli di sicurezza, discussioni con poliziotti a volte in versione sceriffo, gente da coordinare e colleghi mai sul pezzo.

Il Sinodo è un gruppone di gente che pascola con ritmi simili intorno 2-3 luoghi di riferimento, il fermento della Sala Stampa, tutto il mondo che si raccoglie in un’aula. Giornalisti e cameraman a volte un po’ sfasati, ma con i quali non puoi non parlare o solidarizzare.

Questo Sinodo 2018 è stato tante cose, soprattutto a livello personale, è stato un perfetto osservatorio per notare ad esempio la brigata americana carica a pallettoni ad ogni conferenza con domande solo su scandali sessuali e abusi.

Per un mese sono tornato a essere parte di un team nel senso reale, con un capo e dei colleghi affianco, un mese con un nuovo incontro diretto con il Papa e con un derby vinto al 92’.

Un mese lungo che è scappato via senza aver quasi memoria di tutto il resto, novembre è già qui intanto, le scuole chiudono a Roma come mai successo prima, il calendario dice che mancano solo 57 giorni a Natale, e dopo quello, sarà il momento di un’altra storia da raccontare con destinazione Panama.

“Pagine Vaticane” terza stagione

Venerdì ricomincia “Pagine Vaticane” con la terza stagione, la seconda da Piazza San Pietro.

Per curiosità giorni fa ho dato una occhiata a quanti episodi sono stati realizzati e il conto recita 65 che vanno divisi fra i 42 della passata stagione e i 23 della primissima serie.

Il ritorno di “Pagine Vaticane” a metà settembre, un po’ come tutti gli show settimanali di ogni TV, rappresenta per me un impegno importante sotto ogni aspetto. Uno programma così implica infatti ore di ricerca (notizie e video), scrittura, e soprattutto montaggio.

La settimana tornerà ad essere ricca e con scadenze sempre più strette, ma indubbiamente questa sarà la serie che parte con meno interrogativi e più certezze. La prima aveva i dubbi e i crucci del decollo, la seconda includeva timori sulla logistica e il fatto di essere solo a Roma, questa terza stagione si sbarazza delle questioni appena citate e sembra potersi imbarcare in questo nuovo lungo viaggio in modo più sicuro.

Tre puntate e poi sarà tempo di Sinodo. Il secondo che seguirò dopo quello del 2015, anche se questa volta avremo un punto di vista meno privilegiato, meno insider. Sarà un mese di riconcorse e di caccia, fra coffee-break in cui si deve intercettare il vescovo ed esclusive da accordare: sarà un mese nel quale ad un certo punto attendi la fine, senza giri di parole.

Nove mesi davanti con la speranza che il prodotto venga ancora apprezzato e con la sensazione di doversi inventare qualcosa in più, una aggiunta che devo però ancora individuare ma che potrebbe arrivare in corso d’opera e magari qualche sorpresa.

Mi aspettano una quarantina abbondanti di episodi, senza pause e con qualcuno che filmerò magari in studio come lo scorso aprile-maggio.

Si va avanti, si comincia, anzi, si riparte, con il piacere di fare un qualcosa di bello e con la speranza che ci sia meno pioggia della stagione passata.

Insomma, lo stratwarming capita una volta ogni 30/35 anni dicono, ecco, fino alla serie numero 36, più o meno, dovremmo stare a posto.

Gaudete et Exsultate

« Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli. Così infatti perseguitarono i profeti che furono prima di voi. »

«Rallegratevi ed esultate» (Mt 5,12). Inizia così la terza esortazione apostolica di Papa Francesco, presentata questa mattina nella Sala Stampa della Santa Sede, dove sono intervenuti Mons. Angelo De Donatis, Vicario Generale per la Diocesi di Roma; il giornalista Gianni Valente e Paola Bignardi di Azione Cattolica.

Il titolo del testo, “Gaudete et Exsultate”, è un invito a far risuonare nel mondo contemporaneo una vocazione universale, la chiamata a diventare santi. Nei 177 paragrafi del documento, suddiviso in 5 capitoli, il pontefice vuole sottolineare la possibilità della santità per ciascuno di noi, perché la storia della Chiesa racconta infatti di molti santi “della porta accanto”.

Nel primo capitolo, Papa Francesco si sofferma sulla chiamata alla santità e su quei santi che ci incoraggiano ed accompagnano al tempo stesso. Il Santo Padre, a tal proposito, afferma: “Mi piace vedere la santità nel popolo di Dio paziente: nei genitori che crescono con tanto amore i loro figli, negli uomini e nelle donne che lavorano per portare il pane a casa, nei malati, nelle religiose anziane che continuano a sorridere. In questa costanza per andare avanti giorno dopo giorno vedo la santità della Chiesa militante”.

Successivamente, il Santo Padre spiega quale sia il disegno per un credente con queste parole: “Per un cristiano non è possibile pensare alla propria missione sulla terra senza concepirla come un cammino di santità, perché «questa infatti è volontà di Dio, la vostra santificazione» (1 Ts 4,3). Ogni santo è una missione; è un progetto del Padre per riflettere e incarnare, in un momento determinato della storia, un aspetto del Vangelo”.

Andando avanti, nel secondo capitolo, Papa Bergoglio si concentra sui “sottili nemici della santità”: lo gnosticismo attuale ed pelagianesimo. Il primo suppone infatti «una fede rinchiusa nel soggettivismo, dove interessa unicamente una determinata esperienza o una serie di ragionamenti e conoscenze che si ritiene possano confortare e illuminare, ma dove il soggetto in definitiva rimane chiuso nell’immanenza della sua propria ragione o dei suoi sentimenti». Il secondo invece è la conseguenza contemporanea della dottrina di Pelagio, improntata a un moralismo ascetico-stoico. In base a questa teoria infatti, l’uomo con le sue forze può osservare i comandamenti di Dio e salvarsi; la grazia gli è data solo per facilitare l’azione. La conseguenza è la negazione del peccato originale e della necessità del battesimo e della penitenza.

Scorrendo le pagine del testo si arriva al terzo capitolo con il quale il pontefice riprende gli esempi di Gesù, colui che spiegò con grande semplicità il concetto di santità attraverso le Beatitudini (cfr Mt 5,3-12; Lc 6,20-23).

“Esse sono come la carta d’identità del cristiano. Così, se qualcuno di noi si pone la domanda: come si fa per arrivare ad essere un buon cristiano?, la risposta è semplice: è necessario fare, ognuno a suo modo, quello che dice Gesù nel discorso delle Beatitudini. In esse si delinea il volto del Maestro, che siamo chiamati a far trasparire nella quotidianità della nostra vita”.

Nel penultimo capitolo, Papa Bergoglio, parla di alcune caratteristiche della santità nel mondo attuale. Il pontefice menziona aspetti come la sopportazione, la pazienza e la mitezza. Tali caratteristiche vengono supportate anche dalla gioia e dal senso dell’umorismo, così come dall’audacia e dal fervore. Per il Santo Padre la strada della santità deve essere vista come un cammino vissuto “in comunità” e “in preghiera costante”, un percorso che arriva alla “contemplazione”, non intesa però come “un’evasione” dal mondo.

Il capitolo conclusivo serve al pontefice per ricordare un concetto fondamentale: “La vita cristiana è un combattimento permanente. Si richiedono forza e coraggio per resistere alle tentazioni del diavolo e annunciare il Vangelo. Questa lotta è molto bella, perché ci permette di fare festa ogni volta che il Signore vince nella nostra vita”. Non manca l’attenzione al discernimento e ai giovani, spesso “esposti ad uno zapping costante” in mondi virtuali lontani dalla realtà. Un messaggio finale che risuona indubbiamente come un ulteriore richiamo al prossimo Sinodo di ottobre, nel quale proprio i giovani saranno i protagonisti.