Lampedusa fra Acqua e Sangue

C’ho messo un po’ a scriverlo ma valeva la pena aspettare e fare un reportage degno dell’esperienza. Qui il mio racconto sui giorni a Lampedusa mentre eravamo impegnati a registrare parte del prossimo documentario “The Francis Impact”.

“Io racconto quello che vedo”. Dico questa frase e proseguo con passo spedito dopo che un lampedusano di mezza età mi ha detto fra italiano e dialetto che devo essere onesto e raccontare veramente le cose come stanno.

Non so a cosa faccia riferimento, non mi domando quale sia il suo problema ma dico semplicemente la realtà, parlerò di quello che sto per vedere, con i miei occhi, senza filtri.

Pochi metri più avanti la banchina diventa molo e le navi sono pronte a partire, noi, io ed il mio collega cameraman Peter, saliamo per gentile concessione sull’imbarcazione dei Carabinieri che insieme a quella della Guardia Costiera e ad altre, poco dopo, si allontaneranno alcune miglia dal porto per la reale commemorazione.

È il 3 ottobre e sono appena passate le ore 11 quando Lampedusa si appresta a vivere il momento più toccante. Il corteo che ha raggiunto la Porta D’Europa, un’opera di Domenico Palladino, sta scendendo nuovamente, pronto per dirigersi a largo.

Quattro anni dopo, il ricordo dei 368 migranti deceduti è ancora vivo, ma non solo a parole o attraverso celebrazioni, è presente nel senso più concreto del termine. L’imbarcazione con le autorità ed il parroco lascia il molo, i Carabinieri seguono a vista.

Il mare è calmo nonostante il vento e la pioggia della notte prima, le uniche onde sono quelle che si alzano come conseguenza della rotta delle barche.

Quindici minuti di tragitto e poi, nel luogo del naufragio del 3 ottobre 2013, tutte le barche cercano di trovare un equilibrio per creare un circolo. L’operazione richiede alcuni minuti fino a quando, dopo la preghiera ed un breve discorso, viene lanciata in mare una corona di fiori, in memoria delle vittime.

Le sirene delle imbarcazioni iniziano a suonare in contemporanea, il fischio diventa quasi assordante essendo all’unisono ed è indubbiamente il momento più toccante della commemorazione.

Nel suono che si spinge sempre più in alto, immagino il grido di dolore di chi provava a salvarsi o tenta di farlo ancora oggi.

Gli sbarchi infatti non si sono mai arrestati ed una statistica riportata recentemente dal sito de “La Stampa” evidenzia che dal primo gennaio 2017 a fine settembre sono 2.655 i morti e dispersi nel Mediterraneo.

Già nel 2014 l’Unhcr, l’agenzia Onu per i rifugiati, aveva definito la traversata del Mar Mediterraneo la «strada più mortale del mondo».

Acqua e sangue. Questa è l’immagine che mi torna in mente più spesso nei cinque giorni a Lampedusa. È una frase che ho sentito casualmente pochi giorni prima abbinata al Sud America ma mi è rimasta in testa e penso che calzi alle perfezione. Acqua e sangue, infatti, scorrono senza sosta intorno Lampedusa e l’Unhcr e lo Iom confermano questo binomio stimando che dal 3 ottobre 2013 a oggi sono 15.696 i migranti morti, o mai ritrovati, in mare.

Non è facile raccontare Lampedusa, il suo legame con i migranti e questa perpetua emergenza. Il rischio più grande è quello di deragliare nel retorico o nel voler indicare i buoni e i cattivi. L’unica via per capire meglio è quella di parlare con la gente del posto e farsi spiegare cosa significhi per loro tutto questo.

Francesco Tuccio è un falegname, ma definirlo semplicemente così è forse indelicato. Artista-falegname ha più senso, soprattutto se si osservano le opere che produce oltre alla sue celebri croci di legno.

Alla fine di una discesa che esce dal centro storico si trova il suo laboratorio, un capannone dal quale continuano ad uscire oggetti richiesti in ogni angolo del mondo.

Le sue croci, ricavate dal legno dei barconi arrivati a Lampedusa, sono pezzi unici di artigianato e sempre dalle sue mani ha preso vita il pastorale utilizzato da Papa Francesco nella storica visita a Lampedusa datata 8 luglio 2013.

Il Signor Tuccio ci parla di questa sua attività e anche della popolarità che lo ha toccato in maniera inattesa.

“Tutto nasce nell’aprile del 2009, pochi giorni dopo il terribile terremoto a L’Aquila, tantissimi migranti infatti persero la vita a poche miglia da Lampedusa. Giornali e TV diedero pochissimo spazio a questo disastro, l’attenzione era solo per le macerie in Abruzzo, mentre a Lampedusa un’altra tragedia aveva lasciato corpi senza vita in mare”.

Tuccio ci racconta di quei giorni e del suo dolore. Un sentimento stretto fra due tragedie ed accentuato dal poco risalto dato a quello che era avvenuto nel Mediterraneo.

“Era come se ci fossero morti di Serie A e morti di Serie B, questa era la sensazione”: parte da qui la sua riflessione, fra il dolore e la presa di coscienza di un tale sbilanciamento nel raccontare due disastri.

È proprio in quei giorni che camminando lungo una piccola spiaggia non lontana dall’aeroporto, raccoglie quello che il mare aveva portato a riva. Anche pezzi di legno, resti di quella che era una barca.

Creare una croce, l’oggetto più facile da assemblare diventa così il suo modo di reagire a quel tormento. La croce come simbolo di morte ma anche emblema della risurrezione. Due pezzi di legno, nemmeno troppo lavorati e incrociati ad accomunare quello che c’è dopo la vita.

La sua attività inizia ad attirare l’attenzione dei suoi concittadini e non solo, rapidamente gli oggetti di Tuccio diventano celebri e richiesti in tutto il mondo, come dal British Museum di Londra che dal dicembre del 2015 espone una croce alta 35 centimetri creata da Tuccio stesso.

Eppure, quello che percepisco in giro per Lampedusa è l’atmosfera di un posto in pace. Sempre più citato ma ancora un’isola sospesa fra Sicilia e Africa in cui la vita scorre in maniera serena. Dove si respira l’aria del Sud, il profumo di pesce dai ristoranti camminando fra le vie a senso unico, con le gelaterie a cui i turisti sembrano non poter resistere.

Non so quello che si possa aspettare un forestiero qui, ma anche io cado nella tentazione di immaginare extracomunitari in giro per il paese, ma è un pensiero tanto banale quanto facile da smentire perché la realtà è ben diversa. Le uniche persone in cui ci imbattiamo sono quei pochi superstiti o familiari delle vittime giunti a Lampedusa per la commemorazione. Il resto, gente del posto e ancora tanti turisti che  non si lasciano scappare il sole e le spiagge come fosse inizio agosto.

“I lampedusani hanno un rapporto diverso con il migrante, diverso da tutti gli altri italiani”. Anche questa frase la sento in diverse circostanze e cerco di approfondirla per capire le differenze che presumo non debbano essere così sottili.

Sempre il Signor Tuccio, ma anche Paola La Rosa, del Forum Lampedusa Solidale, mi spiegano che vedere arrivare qualcuno stremato dopo giorni in mare, toccare con mano reduci da traversate disumane è una esperienza che cambia inevitabilmente l’approccio. Il contatto diretto azzera le barriere e crea empatia, risveglia l’umanità di ciascuno e crea un rapporto diverso. Un’accoglienza che non si può negare a chi ha rischiato la vita per giorni scappando da persecuzioni e drammi.

Questa è la vera differenza: vedere e toccare. Concetti ben diversi dal leggere dei resoconti o guardare un servizio al telegiornale.

Per questo i lampedusani sottolineano la diversità e spiegano il loro approccio. Paola La Rosa, con la sua associazione, presta accoglienza ai migranti al molo. Generi di prima necessità come the caldo o coperte, ma soprattutto la presenza e la percezione fisica che qualcuno sia dall’altro lato ad aspettare e ricevere chi è appena arrivato.

Un altro aspetto di cui si occupa il Forum Solidale è quello di dare una identità ai corpi senza vita, processo talvolta lungo e quasi impossibile da realizzare per la mancanza di informazioni e la difficoltà nel reperirle in un secondo tempo.

Paola La Rosa racconta però l’impegno in questo lavoro e il desiderio di dare dignità e sepoltura a chi non è riuscito ad arrivare o a salvarsi. Ribadisce infatti che: “Una tomba senza nome non crea nemmeno empatia, nemmeno il dolore si può provare”.

È un concetto sul quale rifletto diverse volte mentre cammino nel cimitero di Lampedusa, a pochi metri dall’aeroporto, dove ogni giorno gli sbarchi sono di ben altro tipo.

Un collegamento che mi viene quasi automatico, pensando a questa isola meravigliosa, dove sul mare sembrano essere proiettate tutte le sfumature di bianco, celeste, azzurro e blu.

Una isola che è il punto più a sud del nostro paese, la porta d’Europa, fra accoglienza e disperazione. Dove la speranza a volte si scontra con la morte e l’acqua si mescola con il sangue. Un posto diverso dal resto dello stivale, dove si può lasciare la macchina aperta e le chiavi inserite perché “Tanto dove vuoi che vadano qui…”

L’isola che nel giugno del 1943 fu teatro dell’operazione Corkscrew, quando gli alleati conquistarono Pantelleria e le Pelagie territori fondamentali in vista del grande sbarco in Sicilia.

Un piccolo mondo a parte, una frontiera continentale dove ho osservato quello che spesso sento in TV, e ho avvertito come non mai quanto il giornalismo sia vedere.

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Lampedusa

Scrivo prima l’articolo “vero” su Lampedusa oppure quello “al volo” per il blog, quello di sensazioni, lasciando libero il flusso? Ho pensato che la seconda opzione fosse quella più giusta perché per l’articolo vero e proprio passerà ancora qualche giorno, merita tempo e ricerche, e quindi, era meglio partire con questo, per evitare di perdere il sapore del viaggio terminato e dell’esperienza appena conclusa.

Lampedusa è stata una pagina preziosa. Con un valore che ho scoperto in corso d’opera, apprezzando ogni lato di questa esperienza, traendone una serie di interessanti spunti di riflessione.

Sud Italia al 100%, case e colori, stradine a griglia e manovre avventate. Bambini che corrono ancora lungo via Roma e gli altri che giocano con il Super Santos sul piazzale davanti la Parrocchia di San Gerlando.

E poi, il profumo di pesce, il mare, tutte le sfumature possibili del blu proiettate sull’acqua in qualunque spiaggia. Il porto, il concerto di Baglioni atteso e osteggiato che è finito spazzato via da una tempesta la sera di martedì.

Uno strano senso di sicurezza per essere Italia, ma anche il sentimento che respiri in paese quando tutti sanno chi è la persona che cerchi e chiunque ti ci sa indirizzare.

Abbiamo girato l’isola e perlustrato tanti angoli, guidando l’enorme Vojager, grande come un elefante in vicoli minuscoli resi ancora più stretti dalle macchine parcheggiate.

Una profonda percezione di un posto in cui la gente sta bene, con un codice di regole “rivisto”, senza semafori e con i marciapiedi a volte troppo alti.

Ti aspetti i migranti e non li vedi, gente di colore e non c’è, gli unici persone legate alla commemorazione. Cammini e vedi le stesse facce, ma ti capita di sentire anche dialetti diversi, gente del nord trasferitasi qui per aprire una attività, e questa inattesa scoperta mi ha stupito.

Pioggia, vento, ma anche sole improvviso e gente in costume al sole come se fosse Ferragosto. Filmare un documentario è altra roba rispetto a news, notiziari o a qualunque contenuto mandato in onda subito. Un documentario è più attenzione, dettagli a non finire, guardare e ricontrollare, ha indubbiamente un taglio più cinematografico. È stato bello essere parte integrante, leader grazie alla lingua, gestire spostamenti, organizzare interviste e farle fra una traduzione e l’altra.

Mettersi al servizio della squadra e dare un contributo a un progetto che quando sarà finito indubbiamente sarà un prodotto di alta qualità, per la passione che tutti noi ci stiamo mettendo quando dobbiamo lavorarci.

Risate e riflessioni, idee sul futuro e ricordi di vicende passate, fra il polpo di Jay, “the way of the road” motto di Peter che è diventato di tutti noi e la professionalità di Sebastian.

Tanto lavoro e la sensazione che quando rivedremo questa specifica parte su uno schermo saremo tutti soddisfatti, forse anche di più dell’aver stretto la mano al Papa il giorno dopo dal nostro rientro da questa splendida isola sospesa nel Mediterraneo.

Chiudete le valigie, si va a Lampedusa!

Tra le centinaia di cose che sapevo avrei dovuto fare tornato a Roma, l’ultimo appuntamento mentale che avevo era quello di Lampedusa ad inizio ottobre.

Poche ore e anche questo impegno inizierà caratterizzando la prima settimana del mese.

Il team di SL che giungerà nell’isola siciliana sarà composto dal sottoscritto, da Sebastian, team leader e vero artefice di questo progetto e documentario, supportato dai cameraman Jay e Peter.

Dopo dieci giorni nelle montagne del Kentucky si ritroveranno con un compagno di viaggio in più, nel bel mezzo del Mediterraneo. È una esperienza in più per me, e quindi un grande piacere far parte di questo documentario in uno dei posti più menzionati e citati negli ultimi anni, soprattutto dall’ottobre del 2013 quando 368 migranti morirono a poche miglia dal porto di Lampedusa.

Due settimane dopo quel disastro scrissi il mio primo articolo in Irlanda in inglese su quel fatto e andare in questo posto, esattamente quattro anni dopo, ha un suo senso di ciclicità, proprio perché martedì prossimo nell’isola si terrà una commemorazione di quel drammatico episodio.

Speranza, traffici, accoglienza e disperazione, a Lampedusa, nel primo ingresso per l’Europa, credo si possa ritrovare un po’ tutto questo, e alla fine credo che soltanto andando lì si possano capire meglio almeno certe dinamiche.

L’impatto visivo e le percezioni sono troppo importanti in questo mestiere, soprattutto in alcuni luoghi.

Mi mancava lavorare su un documentario. Ho contribuito nella pianificazione di questo viaggio, ma da domani, come dicono loro, saremo “on the ground” sperando di portare a casa il più possibile e magari qualche grande storia imprevista. Il Giornalismo è anche questo.