Chissà…

Non so per quale ragione ma giorni fa il pensiero di me seduto sul 18 che da Crumlin mi portava in redazione a Dublino mi ha attraversato la mente. Senza un motivo valido e razionale al mondo, per più di qualche secondo avrei voluto rivivere quella malinconia, quella solitudine, quel costante amaro che provavo in quelle settimane.

Pochi giorni dopo, una conversazione su Whatsapp con Dublino si è tramutata in una sorta di chiacchierata lavorativa ed è terminata con tanto di bozza di proposta per un clamoroso ritorno.

Oggi, a chiudere questo trittico tanto assurdo quanto inatteso, dopo quasi tre anni, mi sono ritrovato a digitare su Google “rent apartment Dublin” e pochi secondi dopo ero di nuovo là, come un tempo a spulciare siti (alla fine sono sempre e ancora quei tre) per vedere che aria tira, e che prezzi ci sono.

Mai avrei pensato di ritrovarmi in un frangente del genere, o almeno non ora e certamente non così all’improvviso. Eppure eccoci qua.

Non avrei mai scelto Dublino ad inizio autunno del 2012, quando la mia vita sembrava molto serena, equilibrata e mi piaceva un sacco, mai avrei pensato di tornarci cinque mesi più tardi dopo essere rientrato a Roma a fine maggio 2013.

Mai avrei creduto che ci potessero essere anche lontanamente i presupposti per un eventuale terzo ritorno, oltretutto in tempi ristretti. La vita è circolare d’altra parte, e le esperienze di vita sono circolari. L’ho detto e ripetuto decine di volte, eppure, è cosi. Ma soprattutto, se oggi scrivo da qui, da Toronto, da questa casa che si affaccia su una stradina che collega Gerrard st con Dundas st mentre il pollo e le patate sono al forno, è proprio perché il pomeriggio del 7 gennaio del 2013 decisi di andare a ESL, il primo step che mi portò a Dublino 9 settimane più tardi.

In Irlanda mi ci ha portato il destino due volte, dovevo passare lì per arrivare qua, è evidente, non credevo che da qui avrei potuto magari rifare il viaggio in senso opposto.

Ho passato mesi difficili a Dublino, sia la prima volta che la seconda, per motivi molti diversi fra loro, ho dei ricordi piacevoli, conservo frammenti importanti, perché entrambe le esperienze furono talmente ricche di insegnamenti che farei fatica ad elencarli.

A Toronto ci vivo da oltre un anno e mezzo, con comodità importanti che in Irlanda non avevo, uno stipendio, e il fatto di vivere da solo, eppure continuo a pensare che Dublino sarà sempre la mia seconda casa e non Toronto. Non lo so perché, è assolutamente un sensazione che avverto e che va oltre ogni logica, qualunque bilancia penderebbe sul lato canadese, ma per me c’è qualcosa in più. Toronto dopo tanto tempo la vedo come una matrigna perfida, che non ti regala mai un sorriso o una gioia, mai una soddisfazione, anzi magari ti illude e ti beffa. Ripetutamente.

Dublino rimane una zia vecchia e malandata, rattoppata nel suo modo di essere ma che ti vuole bene e non ti lascia mai, anzi ti riaccoglie e ti attende sempre.

Le luci, i grattacieli, il modo newyorkeggiante di Toronto ha 20 volte un appeal superiore a Dublino che rimane una delle capitali più brutte d’Europa, ma forse mi trasmette una nostalgia che mi fa stare male e mi dà qualcosa, senza trascendere in qualsivoglia forma di masochismo.

È così, non tutto si può spiegare nella vita, soprattutto le sensazioni. Toronto è meglio di Dublino sotto ogni aspetto, però c’è un qualcosa di altro che mi solletica.

Ho sempre più la sensazione che questo posto si sia messo per traverso e non lo si possa smuovere più, e dico tutto ciò mentre una splendida estate impazza, mi sono comprato la bici e ho vissuto belle serate ultimamente, però è un posto che mi negherà sempre qualcosa, un senso di benessere di fondo.

Oggi ero in spiaggia e pensavo che Toronto è la finale di coppa Uefa Ajax – Torino del 1992. Ti basta un gol per vincere il trofeo nella partita di ritorno e prendi 3 pali, finisce 0-0 e in mano ti rimane niente, dentro invece un senso di beffa e di rimpianto e l’idea che se non deve andare, non andrà, non ci sono storie, è scritto.

Toronto mi dà questa sensazione, e lo dico nel momento in cui sto compiendo anche il mio massimo sforzo fisico, mentale ed economico di sempre qui, proprio per cercare di invertire la tendenza, eppure sembra non bastare mai. Sembra impossibile, appunto, come quando devi fare un gol ma continui a sbattere su pali e traverse, tu prendi la medaglia d’argento e gli altri alzano la coppa.

Questo posto mi pare un po’ così, Dublino invece è tutta altra roba, quanto di peggio apparentemente, ma nemmeno tanto, però è un pezzo di cuore, e 5 mesi possono valere più di due anni. La vita è anche qualità, emozione, sentimenti, sorpresa, soprattutto questo ultimo aspetto, Dublino mi ha saputo sorprendere, Toronto sembra essere di una idea ben diversa e bisogna prenderne atto alla fine della storia.

Mi piacerebbe fare pace con questo posto, o almeno andarmene in maniera piacevole, con qualcosa di bello a livello emozionale, al di là della visita di David.

Però chissà, magari è anche scritto che qui le cose debbano andare in un certo senso affinché io vada, perché qualcosa altro mi attende e non può proprio aspettare. Chissà…

17 novembre 2015: la storia continua

Gennaio. Ho 6 anni.

Esco prima io, poi mia nonna chiude la porta di casa. Fa freddo, mi copro per bene, il rischio di ammalarmi in questo periodo per me è troppo elevato per non prestare attenzione a ogni minimo dettaglio. Nonostante questo, lei sostiene che imbacuccarmi tutto, o vestirmi come un palombaro non abbia senso, anzi è forse più rischioso. Forse ha ragione lei. Intanto mi tiene per mano, cammino sui sassi del cortile e andiamo verso scuola. Giriamo subito a destra, e poi tutta una salita fino all’ingresso. L’edificio è l’ultimo giù in fondo, per arrivarci dobbiamo passare in mezzo al campo da basket e poi costeggiare quello da calcio, è grande, di terra e ci si gioca in undici. Per me è come uno stadio. Ho la riga da una parte malgrado i capelli non stiano in quel verso ma a casa si ostinano a metterceli. A loro va bene così, a me cambia poco. Si entra a scuola, la prima elementare è sempre un anno speciale e io ho il grembiule blu con il colletto bianco più bello di tutti.

Febbraio. Ho 9 anni.

Chiudo la porta di casa per recarmi in palestra. Dopo un anno di pausa ho ricominciato ad andarci, vado alla Junior 88, i giorni dispari alle 16 sono lì, il giovedì facciamo tempo pieno a scuola e alle 17 ho catechismo. Il martedì invece mi riposo e guardo i ragazzi della 3C in replica su Italia Uno intorno le 18. La raccolta delle figurine va bene, a giugno ci saranno anche gli Europei, quelli del 1992 non li ricordo troppo, mente i mondiali americani di due anni fa li ho stampati drammaticamente nella mia anima. Andremo al mare ancora a Torvajanica, per il settimo anno di fila questa estate, per la prima volta sarà solo per due settimane, le ultime due giugno.

D’altra parte, la terza elementare è importante e non si possono più saltare gli ultimi giorni di scuola.

Marzo. Ho 13 anni.

Chiudo la porta di casa per uscire con i miei compagni di scuola, vedrò Andrea, l’appuntamento è al solito posto alla solita ora. Fra poche settimane andremo in gita all’Isola d’Elba, la prima gita fuori di casa, due notti tutti insieme. Chissà cosa succederà. A me piace Veronica che però è fidanzata con Emiliano. Ovviamente sarei molto meglio io, ma questo lo confido a pochi pur essendone particolarmente convinto. È stato da poco il mio compleanno. Tutto sembra andare per il verso giusto. Gioco a calcio, indosso il mio numero 6, l’unico guaio è che Vieri continua a stirarsi alla coscia.

Aprile. Ho 15 anni.

Chiudo la porta di casa per andare a scuola. Il liceo non mi piace, il primo anno è quasi finito ma dopo diversi mesi continua a non piacermi nulla. Sono un corpo estraneo a tutto questo nuovo mondo onestamente per niente esaltante. Spero finisca presto, il secondo anno sarà meglio. Almeno spero. Poche volte in vita mia, forse mai, mi sono sentito così alienato in un luogo in cui vado oltretutto ogni giorno. Mi fa tutto abbastanza cagare, ma non vedo alternative per migliorare questa sensazione, questo fastidio che mi abita dentro.

Forse vinciamo lo scudetto. Almeno quello. L’ultima giornata giochiamo a Roma con la Lazio, vincerlo a casa mia sarebbe magnifico. La data è il 5 maggio.

Maggio. Ho 19 anni.

Chiudo la porta di casa mentre rientro da scuola. Manca poco, il momento della maturità è quasi arrivato ma l’appuntamento mi tocca molto poco. Sono sereno, almeno per questo discorso. Il mondiale ed Elena della 3°A mi coinvolgono di più. Il resto sono chiacchiere. Porto la macchina, vado in giro, mi sento molto più padrone di quanto dovrei. Sento che si sta per chiudere una fase della mia vita, un periodo tutt’altro che entusiasmante, una nuova parentesi mi attende e sto per cambiare vita veramente. Dopo tanti anni.

Giugno. Ho 21 anni.

Chiudo la porta per andare a Tor Vergata. Non devo fare nulla ma dopo che Fermata verbalizzerà il suo esame andremo con il suo ragazzo e la coinquilina all’Hydromania. Lui mi sta sui coglioni, lei mi piace e malgrado questo impedimento mi sono infilato in un tunnel che non so dove mi porterà. Forse da nessuna parte. Sicuramente da nessuna parte.  Il secondo anno d’università è quasi finito. Il prossimo anno accademico dovrà essere quello della svolta. Inevitabilmente.

Luglio. Ho 23 anni.

Chiudo la porta di casa e salgo in macchina. Sto andando alla festa di laurea della Bionda. Sono campione di tutto da alcune settimane e l’effetto ancora non mi è passato. È un anno diverso, speciale. L’ho capito, l’ho sentito passo dopo passo nell’aria e in fondo lo percepisci quando il corso degli eventi ti sta spingendo, quando il vento soffia dalla tua parte. La Bionda mi terrà il gioco, Antonio anche, nonostante questo mi catechizza da bravo (e vero) amico e mi dice appena arrivato: “Regà ma che cazzo state a ffa?”. Quello che ci sentiamo, penso.

Dormiremo insieme stanotte, tutto il resto non conta. Lo penso anche quando ci chiudiamo la porta alle spalle e le due sono da poco passate.

Agosto. Ho 24 anni.

Chiudo la porta di un ufficio di un palazzone a vetri su Viale Regina Margherita. Sono andato a ritirare il visto per la Cina. Fra un mese sarò dall’altra parte del mondo e riabbraccerò Gabriele dopo sei mesi. Mi chiamano dall’ufficio eventi mentre cerco di guadagnare uno spazio umano sull’autobus. A breve ricomincerò a studiare, lo farò dopo Ferragosto, all’indomani dell’abbuffata che ci attende nel centro di Spoleto. Studio per l’ultimo esame, ossia Storia della Gran Bretagna, ma il testo mi servirà anche per la tesi, il carro da parata per la passerella finale a Tor Vergata è pronto. L’estate è stata piuttosto e inaspettatamente turbolenta, ma le cose si stanno ricomponendo. Fortunatamente.

Settembre. Ho 25 anni.

Chiudo la porta di casa mentre mio papà chiama l’ascensore. Siamo tornati da Parigi da poco ma stiamo ripartendo per Budapest. Poi ci sarà da trovare qualcosa. Lo stage è finito ad agosto, ma sono stranamente fiducioso e ottimista. Di certo ho avuto la conferma di quello che voglio fare nella vita come mestiere e per quello mi adopererò. Sembra tutto andare nel verso giusto. Sembra. Sì perché quando varcheremo la soglia di casa 4 giorni dopo e ci chiuderemo la porta alle spalle di nuovo, sarà l’inizio della fine, o comunque inizierà tutta un’altra storia. Peggiore.

Ottobre. Ho 26 anni.

Chiudo il portone di legno della redazione e mi incammino verso Appian Way, da lì poi prenderò la LUAS per Ranelagh e scenderò a Dundrum. Vado da Giorgia a cena. Sto facendo questo stage, è una bella cosa certo, ma ho la sensazione che troppe situazione grandi tutte insieme non sia ancora pronto a gestirle in maniera adatta. Lo penso perché ne ho avuto già la riprova. Ormai però sono a Dublino, ancora una volta dopo alcuni mesi e tanto è cambiato dall’ultima volta che avevo lasciato Ballymoss Road. È dura, molto dura, ma arriverò fino in fondo. Me lo dico prima che l’altoparlante della LUAS mi avverte che è ora di scendere.

Novembre. Ho 28 anni.

Mi chiudo la porta di un’altra redazione alle spalle, ma questa sta a Toronto e non in Irlanda. Ho registrato e montato il programma per oggi. È 17 novembre e questo blog festeggia i suoi 8 anni. Ha raccontato molte delle storie citate sopra, tutto il possibile nei limiti della decenza e della privacy di questo scorcio di vita, dal 2007 a oggi. Forse viene dall’anno più ricco dal punto di vista dei fatti e dei temi, forse, penso, ha smarrito qualche vibrazione ma rimane sempre vivo, irrinunciabile e libero, banca dati infinita e scrigno di ricordi.

17 novembre 2015, la storia continua… 

Liberamente ispirato ad un post di Alberto Sorge

E pure febbraio…

Hai capito il Catto…e insomma Davidì, la settimana l’abbiamo archiviata ma soprattutto anche febbraio ce lo siamo tolti dalle scatole per parafrasare in maniera più educata Garrone in Vacanze di Natale.

Certo Gallo, la domanda del giorno è la seguente: ma se tre anni fa, mentre mi accingevo ad assaporare l’ultima ondata di brividi universitari con la laurea magistrale, m’avessero detto che tre anni dopo sarei andato tagliere i capelli da una parrucchiera nella Chinatown di Toronto, ma io c’avrei creduto? Beh, penso proprio di no.

Alla fine da oggi posso dire di vivere qui, o meglio di abitare in questa città seguendo la mia bizzarra teoria secondo la quale per dire che hai vissuto in un posto devi aver avuto la necessità di tagliarti i capelli lì. Elaborai questa opinione quando ero a Dublino, e dopo un mese dal mio arrivo andai a Balally dal barbiere del Manchester United che con 10 euro faceva il dry-cut. La seconda volta, a dicembre, invece andai da un mezzo indiano che aveva un buco davanti Deals affianco la fermata della Luas di Dundrum. E quindi, da stasera sono uno di loro, certo, se mi avesse sfumato un po’ dietro la mia acconciatura sarebbe migliore, ma nel giro di dieci giorni il problema sarà del tutto risolto.

Domani è marzo quindi, martedì abbiamo la cena tutti insieme al ristorante messicano per il compleanno del nostro CEO, venerdì svolto a 28 e mi intristirò un po’ forse per la prima volta, non tanto per il compleanno ma quanto per il fatto di non poterlo festeggiare con la mia famiglia o miei amici, insomma, con qualche caro. Il prossimo week-end invece ci sarà il passaggio all’ora legale e quindi guadagniamo questa ora di sole che può far solo comodo e poi accorciamo a meno 5 su di voi, magari vinciamo pure lo scontro diretto e vi abbiamo ripreso. Sta frase mi sembra molto familiare, peccato che non succeda mai, o almeno nemmeno quest’anno mi sa che avrà senso. Strano.

Poi Galluccio che altro? Sì, il sabato Pasqua tutti all’Air Canada Centre per vedere il basket vero, quello della NBA, il top del mondo, per Toronto Raptors-Boston Celtics, con un entusiasmo personale già a livelli sensazionali dopo aver comprato il biglietto ieri sera. Per il resto ti saluto calorosamente con le tre dita alzate, ci sentiamo presto Gaucho, stammi bene e riguardati.

P.S. Ah dimenticavo, ma è vera la storia che per mangiarti un pacchetto di Pavesini hai perso la paperella al lago di Canterno mandando all’aria la tua giornata di pesca?

 

Differenze

Dai su, lasciatemelo scrivere un post così, uno di quelli fastidiosi, o meglio infastiditi, di condanna, di disapprovazione, quei post normalizzatori che richiamano un po’ tutti all’ordine e alla calma, ma soprattutto al non esagerare, al non parlare sempre con superlativi e a non lamentarsi in continuazione.

Dai dai, ormai ho cominciato e lo scrivo, sì dai, perché ci tengo subito a spiegare una cosa, magari banale, forse per me, ma non per tutti, o comunque per tanti. Studiare all’estero è una cosa, fare uno stage è un’altra, lavorare un altro livello ancora. Personalmente ho avuto la fortuna, il privilegio e il merito di poter sperimentare tutti e tre questi step e di conseguenza posso parlare con piena consapevolezza delle esperienze, ma ancor di più mi rendo conto di quanto siano lontane fra loro.

Studiare, amici miei, è uno spettacolo. Una passeggiata di salute, un piacere, un divertimento. Se poi è all’interno di un contesto Erasmus, be, allora è la fine dei giochi. Anzi, è un parco giochi. Tuttavia, lo studio e il suo contesto permettono una vita magnifica, conoscenze illimitate, spasso, pause, giri e spensieratezza. Se poi non si ha un minimo di buon senso e si sperperano tutti i denari di mamma e papà, diventa festa grande. Delirio. Per quanto difficile e impegnativo, stiamo pur sempre parlando di libri, magari di voti e di esercizi. Insomma, ci siamo capiti. Diverso ovviamente è quando lasci l’aspetto didattico e sali al livello successivo, in quel limbo in cui non sei un lavoratore ma nemmeno uno studente, sei un apprendista, un pendolo che oscilla in cerca di stabilità.

Uno stage è un altro discorso, non si avranno decine di responsabilità, ma si sta in un ufficio, in un posto di lavoro. Si sta nel mondo degli adulti, non in una scuola e nemmeno in una facoltà. Cambiano gli orari, le mansioni, magari cominciano a esserci obblighi veri e soldi in ballo. La fatica è diversa, l’impegno aumenta. Quando tornai a Dublino per la seconda volta fu la prima cosa che capii, e l’effetto fu maggiore perché nello stesso posto pochi mesi prima avevo vissuto il magnifico status di studente. Cambiando quell’etichetta anche il modo di vivere la città si diversificò, meno Gardaland e più luogo di vita reale. Mentre lo capivo e cercavo di spiegarlo, oltre a non essere compreso del tutto, speravo di poter vivere presto il terzo e ultimo step, quello di lavoratore, di dipendente, pagato e autosufficiente.

Tredici mesi dopo sono stato accontentato, ho cambiato città e ho iniziato questa attuale avventura. Ho cercato di trovare dei punti di contatto con esperienze di altri conoscenti ma non le ho trovate. Nemmeno Gabriele che va in Cina nel marzo del 2011 è paragonabile, anche perché ad attenderlo c’erano due amici non qualunque, come se qui a Toronto avessi ritrovato Antonio e Ilaria. Insomma essere dall’altra parte del mondo, da solo, e per solo dico veramente da solo, a lavorare in un clima atmosferico tutt’altro che amichevole non è una passeggiata di salute.

Eppure, malgrado tutto, mi sto calando sempre più in questa storia. E più lo faccio e meno noto problemi, più tutto mi sembra ormai abbastanza normale e più mi dico che oggettivamente non lo è. Poi penso a quelli che si lamentano per il “troppo lavoro”, che fanno tutto loro, che sono iper-stressati, che sembra lavorino in miniera, sì quelli là insomma, quelli che però la sera tornano a casa e trovano tutto pronto. Spesa, cucinare, lavare, pulire, lavatrici, stirare, no-problem, ci pensa qualcun altro, loro devono solo lavorare per dire poi che sono indaffarati.

Quelli mi stanno sui coglioni. Non sono bravo io, sono una persona normale che si rimbocca le maniche ed è felice di farlo perché sa il valore di tutto questo, sono ridicoli loro, quelli che ingigantiscono tutto, quelli che quando escono dall’ufficio possono staccare completamente mentre per altri finita la giornata lavorativa inizia quella domestica con le numerose cose da fare, a meno che non si voglia campare nello sporco, comprarsi le magliette piuttosto che lavare quelle usate e mangiare panini.

Ecco allora, venite qui, uscite la mattina con -19 e la neve ovunque per andare a lavoro e trovate il tempo per far tutto uguale, invece che esagerare sempre e comunque per essere compatiti o per beccarvi qualche complimento gratuito.

Siate cortesi, fate i bravi su.