Inter Legends: la mia web serie

Queste settimane di ricerca lavorativa più intensa mi hanno confermato un timore che mi aveva sempre accompagnato in passato: ho l’odore di acquasantiera addosso.

Con massimo rispetto per l’oggetto e soprattutto per ciò che ho fatto in questi anni, sono sempre stato consapevole che se mi fossi dovuto mettere alla ricerca di una nuova mansione nel giornalismo, ma anche in quello più ampio della comunicazione, avrei pagato a caro prezzo questo mio ambito di competenza: quello del Papa, del Vaticano e della religione declinata in mille modi.

O si rimane nella cerchia ristretta oppure non ci si può permettere di allungare troppo lo sguardo visto che si è etichettati dal cv in un certo modo, e il mondo dei media cattolici risulta poco cool e non al passo con i tempi.

Il mio profilo è chiaramente poco giocabile e quindi poco attraente. I numerosi no incassati in questi mesi sono una conferma di ciò che sostengo, con la inevitabile aggiunta dell’unicità del tempo che stiamo vivendo e la crisi economica che non induce nessuno a investire o assumere.

Nei vari no ricevuti c’è stato anche quello riguardante una candidatura per una app di calcio in quel di Berlino. Questa è stata la spinta a pensare ad una serie sul calcio, sull’Inter, sui personaggi della mia infanzia.

Creare una serie ben fatta e realizzata in toto dal sottoscritto per avere un archivio personale, dei contenuti da far vedere a qualcuno se mai mi verrà richiesto di mostrare competenza nel calcio o nello storytelling sportivo.

La serie nasce in un certo senso come reazione. Come a voler dire che posso parlare della catechesi di oggi del Papa ma anche di tattica, gol e mercato e lo posso fare senza dubbio molto meglio di tanti ciarlatani che conoscono il vice allenatore del Reading ma non comprendono il gioco. Non capiscono il pallone.

Cinque episodi per cinque giocatori che ho visto e hanno avuto un loro ruolo nella mia infanzia. Legends perché sono state leggende a modo loro e perché dietro ad una storia risiede sempre quel mondo di aneddoti che talvolta sfociano nella leggenda.

Un po’ retrò e un po’ buffiana, fatta in due settimane con il desiderio di parlare non di qualcosa che mi piace ma di quello che mi viene più naturale.

Al di là dell’odore di acquasantiera che per qualcuno sembra essere un limite.

Episodio uno: Paul Ince

https://www.youtube.com/watch?v=OiPzENl-Adk&ab_channel=MatteoCiofi

 

Il Muro di Berlino e Karol Wojtyła

Cinque anni fa, il 9 novembre del 2014, affacciato dalla finestra del Palazzo Apostolico per il consueto Angelus domenicale, Papa Francesco ricordava il 25esimo anniversario dalla caduta del Muro di Berlino sottolineando il ruolo fondamentale di San Giovanni Paolo II.

“La caduta avvenne all’improvviso, ma fu resa possibile dal lungo e faticoso impegno di tante persone che per questo hanno lottato, pregato e sofferto, alcuni fino al sacrificio della vita. Tra questi, un ruolo di protagonista ha avuto il santo Papa Giovanni Paolo II. Preghiamo perché, con l’aiuto del Signore e la collaborazione di tutti gli uomini di buona volontà, si diffonda sempre più una cultura dell’incontro, capace di far cadere tutti i muri che ancora dividono il mondo, e non accada più che persone innocenti siano perseguitate e perfino uccise a causa del loro credo e della loro religione. Dove c’è un muro, c’è chiusura di cuore. Servono ponti, non muri!”

Sono passati cinque anni e Berlino si appresta a celebrare il 30esimo anniversario dalla caduta del Muro avvenuta un giovedì sera, una notte nella quale a tutto il mondo fu evidente come la gente avesse perso la paura. Questo il pensiero di Navarro-Valls, a lungo direttore della Sala Stampa della Santa Sede e portavoce di Karol Wojtyła.

Non era sorpreso il pontefice di quello che stava succedendo, era in fondo il compimento di un processo che durava da dieci anni.

Solo 22 giorni più tardi infatti, Papa Giovanni Paolo II ricevette Mikhail Gorbaciov in Vaticano, un incontro nato in realtà un anno prima, quando fu il Cardinal Casaroli a consegnare al presidente sovietico una lettera personale da parte del pontefice.

“Dite al Papa di Roma che andrò a trovarlo”. Questa fu la risposta di Gorbaciov il quale presentò come “Più alta autorità morale della Terra” ma anche come “slavo” il pontefice alla moglie, secondo i racconti su quell’incontro di Navarro-Valls.

Il muro crolla proprio il giorno della dedicazione della Basilica di San Giovanni in Laterano, la cattedrale del Papa, vescovo di Roma. Due anni più tardi, la bandiera rossa viene ammainata il 25 dicembre 1991 dal Cremlino.

Date e momenti che segnano la storia, rendendo alcune giornate semplicemente periodizzanti.

Qualche anno dopo, in un libro-intervista con Vittorio Messori, intitolato «Varcare la soglia della speranza», il pontefice affermava:

“Il comunismo come sistema è, in un certo senso, caduto da solo. È caduto in conseguenza dei propri errori e abusi. Ha dimostrato di essere una medicina più pericolosa e, all’atto pratico, più dannosa della malattia stessa. Non ha attuato una vera riforma sociale, anche se era diventato in tutto il mondo una potente minaccia e una sfida. Ma è caduto da solo, per la propria immanente debolezza”.

Sono passati 30 anni da quella notte, da quando quei 155 chilometri di cemento armato che dividevano una città e per estensione il mondo, furono assaltati. Trent’anni in cui l’Europa ha vissuto diverse fasi: si è interrogata su se stessa, ha adottato una moneta unica, ha scelto e ha lasciato scegliere. Trent’anni che hanno dimostrato una verità innegabile che ci è stata consegnata da quel giovedì sera di inizio novembre: “non sempre le grandi tragedie umane si risolvono con la violenza, perché si possono risolvere con le idee che riempiono di senso la vita delle persone”.

Pensieri e parole di Navarro-Valls, l’uomo più vicino al principale protagonista della caduta del Muro.

“E pure sto Sinodo…”

“E pure sto Sinodo se lo semo torto de mezzo…”

Per la terza volta alla fine di ottobre mi sono ritrovato a ripetere questa frase ormai proverbiale, pronunciata una sabato sera di ottobre del 2015 al termine del primo Sinodo seguito, quello da insider e indubbiamente il più faticoso.

Tre anni dopo, ossia lo scorso ottobre, ho vissuto il primo Sinodo da corrispondente a Roma, lunghissimo e ricco di insidie, 33 giorni di lavoro senza pausa.

Domenica invece è terminato l’ultimo, quello più breve dei tre e certamente più leggero per quanto mi riguarda in termini di lavoro e impegni.

È finita quindi anche questa avventura, e allora è bene dare una occhiata a ciò che dice questo documento finale approvato e votato dai presenti in aula.

Qui di seguito il mio articolo.

Il concetto di conversione è l’elemento che accompagna il testo finale del Sinodo che si è concluso domenica mattina con la messa nella Basilica di San Pietro.

Nel tardo pomeriggio di sabato, come tradizione ormai del Sinodo, è stato votato il documento finale che racchiude questi 21 giorni di Assemblea, un testo approvato a larga maggioranza dai 181 presenti in aula.

Cinque capitoli e 120 paragrafi, questa l’ossatura del documento. Nel primo capitolo c’è un invito ad una “vera conversione integrale”, con una vita semplice e sobria, sullo stile di San Francesco d’Assisi. I dolori dell’Amazzonia sono il grido della terra e al tempo stesso il grido dei poveri, un concetto ribadito dal Santo Padre nella sua omelia di domenica quando ha sottolineato che:

“anche nella Chiesa, le voci dei poveri non sono ascoltate e magari vengono derise o messe a tacere perché scomode. Preghiamo per chiedere la grazia di saper ascoltare il grido dei poveri: è il grido di speranza della Chiesa. Il grido dei poveri è il grido di speranza della Chiesa. Facendo nostro il loro grido, anche la nostra preghiera, siamo sicuri, attraverserà le nubi”.

Il documento evidenzia anche i tanti dolori e le numerose violenze che feriscono l’Amazzonia minacciandone la vita. Problemi come la privatizzazione di beni naturali; i modelli produttivi predatori; la deforestazione che sfiora il 17% dell’intera regione; l’inquinamento delle industrie estrattive; il cambiamento climatico; il narcotraffico; l’alcolismo; la tratta; la criminalizzazione di leader e difensori del territorio; i gruppi armati illegali, tutti problemi che attanagliano l’Amazzonia.

Nel secondo capitolo il concetto di conversione viene declinato a livello pastorale: la missione della Chiesa in Amazzonia dovrà essere “samaritana”, ossia andare incontro a tutti, altro tema ribadito dal Papa nelle ultime settimane, in un mese di ottobre che ha coinciso anche con quello missionario straordinario.

L’urgenza di una pastorale indigena e di un ministero giovanile sono i temi centrali di questo capitolo. Si trova anche l’invito a promuovere nuove forme di evangelizzazione attraverso i social media e ad aiutare i giovani indigeni a raggiungere una sana interculturalità.

Il terzo capitolo parte da un presupposto: la necessità di avere una inculturazione e una interculturalità per raggiungere una conversione culturale che porti il cristiano ad andare incontro all’altro per imparare da lui. Proprio i popoli amazzonici sono in grado di offrire insegnamenti di vita e sono coloro i quali possono spiegare concretamente che tutto il creato è connesso, essi sono infatti i migliori guardiani dell’Amazzonia. Anche perché, “La difesa della terra – si legge nel testo – non ha altro scopo che la difesa della vita”.

L’annuncio del Vangelo deve essere quindi il più distante possibile da “un’evangelizzazione in stile colonialista” e dal “proselitismo”, ma un messaggio che promuova una Chiesa dal volto amazzonico, rispettando storia, cultura e tradizione dei popoli indigeni.

La conversione ecologia è il tema principale del quarto capitolo. L’ecologia integrale non deve essere considerata però come un percorso alternativo che la Chiesa può scegliere per il futuro, bensì come l’unico cammino possibile per salvare la regione.

Tra le proposte del documento c’è anche quella della creazione di un fondo mondiale per le comunità amazzoniche, una azione per proteggerle dal desiderio predatorio di aziende nazionali e multinazionali.

L’ultimo capitolo, il quinto, torna sul concetto di sinodalità, affermando che: “in tale orizzonte di comunione e partecipazione cerchiamo i nuovi cammini ecclesiali, soprattutto, nella ministeralità e nella sacramentalità della Chiesa con volto amazzonico”. La sinodalità, in continuità con il Concilio Vaticano II, va letta come corresponsabilità e ministerialità di tutti, partecipazione dei laici, uomini e donne, ritenuti “attori privilegiati”.

Il paragrafo 103 spiega come nel corso dell’Assemblea siano emerse voci a favore del diaconato femminile. A questo proposito si chiede di poter condividere esperienze e riflessioni con la Commissione di studio convocata dal Papa nel 2016 e “attenderne i risultati”.

In conclusione, il paragrafo 111 apre alla possibilità “nelle zone più remote” di “ordinare sacerdoti uomini idonei e riconosciuti dalla comunità, che abbiano un diaconato permanente fecondo” pur avendo una famiglia legittimamente costituita e stabile.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Chiudete le valigie, si va a Panama!

Ero in camera dei miei quando a “Studio Sport”, Angelo Peruzzi, numero 1 della Nazionale, spiegava che aveva sentito un dolore al polpaccio, come se uno gli avesse tirato un sasso all’improvviso. La notizia non era tanto l’infortunio, quanto la conseguenza: avrebbe saltato il Mondiale di Francia e al suo posto avrebbe giocato Gianluca Pagliuca.

Due anni dopo, camminavo per via del Corso con alcuni compagni di classe, quando nel frattempo si giocava Italia-Norvegia, amichevole di preparazione a Euro 2000. Durante la partita Buffon si ruppe il polso e quindi fu costretto a saltare la rassegna continentale sostituito da Toldo che da lì a poco avrebbe vissuto un mese straordinario.

Questo doppio incipit che significa? Personalmente ha un valore. Sì, perché nel giugno del 2016 mi sono sentito come Peruzzi e Buffon, vicino ad un appuntamento atteso, certo di andare e poi quando ero lì, quasi sulle scalette dell’aereo, la sorte beffarda mi ha tirato giù.

Dovevo andare a quella GMG di Cracovia, e poi non sono più potuto andare. Da quel momento in poi ho aspettato quella successiva, quella di Panama che inizia martedì prossimo, ma stavolta salirò sull’aereo e mi giocherò il mio mondiale. Finalmente.

Poche ore e poi sarà la volta di Parigi (di passaggio) e di Toronto, per due notti prima di Panama. È tutto quasi pronto, la valigia da finire, il check-in online fatto, il briefing in sala stampa seguito per le ultime indicazioni prima di osservare il Papa in questo altro evento mondiale, dopo quello di fine agosto a Dublino.

Si riparte ancora una volta, un altro giro da inviato, pur non essendo sul volo papale, un’altra storia da vivere e soprattutto raccontare, con il clima che mi farà sognare in faccia all’Oceano.

Solo il triplo volo mi preoccupa un po’: soprattutto la tante volte battuta tratta Roma – Toronto, anche se il pezzo finale Toronto – Panama non può essere del tutto sottovalutato.

Tuttavia ci siamo, seguire eventi mondiali ha sempre un fascino unico, l’ho capito a in Irlanda e tornando a casa mi auguravo solo di rivivere qualcosa di analogo molto presto.

L’ho detto e ripetuto mille volte: se avessi dovuto scegliere fra la GMG di Cracovia e quella di Panama avrei scelto indubbiamente quest’ultima e adesso è il momento di andarci e allora…

Chiudete le valigie, si va a Panama!