La fine dell’esilio. Per me, per noi

Domenica sera è terminato il mio esilio dallo stadio e dall’Inter, così come quello di questa banda di pazzi che tornano in Champions dopo sei anni.

Era dicembre del 2012, un altro Lazio-Inter, e inconsapevolmente per l’ultima volta vedevo una partita della mia squadra dal vivo, in un sabato sera che ricordo ancora con grande desolazione. Sono passati cinque anni e mezzo da quella volta, più di sei invece dall’ultima nottata europea fra i grandi, datata 13 marzo 2012.

Mi ero laureato da due settimane e per una beffa del destino mi piazzarono il concerto di Noel Gallagher a Roma in concomitanza di Inter – O. Marsiglia ritorno degli ottavi. Vidi la partita rientrato a casa, senza sapere il risultato, una enorme delusione culminata con un gol sciocco e sfortunato preso ovviamente nel finale.

È passato tanto tempo da questi due eventi, ma finalmente domenica ho potuto ricongiungere i punti e rimettere tutto a posto. Io allo stadio, a vedere Lazio-Inter, e l’Inter nuovamente nell’Europa che conta.

È stata una di quelle serate che conosciamo bene, quelle che ci appartengono. Randomiche, insensate, fuori ogni logica, schizofreniche, palpitanti, travolgenti e inattese. Insomma, una serata da Inter che tradotto significa soavemente folle.

Ho di fondo vissuto solo gli ultimi 15 minuti, dal 2-2 in poi. Prima di quel momento, fra consapevolezza e oggettiva onestà intellettuale, non riuscivo a farmi coinvolgere più di tanto da una partita giocata male e non come avremmo dovuto e da un risultato quasi sempre in salita.

Nel finale però, tutto è cambiato. L’inerzia si è spostata completamente in pochi secondi: un gol, un rosso, e tutto ancora in gioco. Stavolta davvero.

È stato bello riassaporare certe emozioni, rivedere un settore ospiti stracolmo e di fondo allargato, considerando che c’erano interisti ovunque nel resto dello stadio. È stato emozionante tornare a soffrire, cantare e gioire. Vivere il recupero quasi con la convinzione – a causa di drammatiche esperienza passate – che qualche disastro potesse comunque succedere.

È stata una notte che ci ha riportati indietro nel tempo. Ma io sapevo che sarebbe stata una partita-romanzo come le altre due volte in cui avevamo acciuffato l’Europa che conta passando per il quarto posto. Chi ha buona memoria sa come nel 2000 e quattro anni dopo riuscimmo a centrare l’obiettivo fra atroci sofferenze.

Ma l’Inter è questa roba qua e solo chi c’è dentro può capire. Può sapere.

Tutto è sembrato esagerato, anche le celebrazioni, ma in questi 6 anni ne abbiamo viste di tutti i colori, sei anni che fanno parte del periodo meno vittorioso della nostra storia, un letargo emotivo e di successi che il prossimo anno toccherà l’ottavo anno.

È stata una liberazione. Una roba così. Non a caso, al fischio finale, avrò gridato senza pause almeno 30 volte “Siamo tornati a casa!” perché quella è la nostra dimensione, lo dice la storia, lo ribadisce l’albo d’oro.

Niente è come esserci, diceva lo slogan della campagna abbonamenti 2015-16 e nella sua semplicità questa frase dice praticamente tutto. Perché essere lì, al fianco della vetrata del settore ospiti, dopo anni, in una serata così, è un qualcosa di inesplicabile in fondo.

È finito l’esilio per me e per noi. Siamo tornati a casa.

P.S. Ah dimenticavo, buon 22 maggio a tutti. Il nostro sogno, la loro ossessione.

“Ma c’è il contrattacco di Milito…”

“E’ tutto da Formello, a voi la linea”

Tornando dalla redazione pensavo che il giornalista, di fondo, è uno dei mestieri più belli del mondo per una ragione: si è sempre testimoni di qualcosa, si racconta sempre un evento, un qualcosa che interessa a qualcuno, a volte anche a molte persone. Essere in un posto, vedere con i propri occhi e raccontare è bello, non mi vengono altri termini o pensieri più profondi, fare tutto ciò ti regala delle soddisfazioni, ed è appunto bello. È stato un lunedì segnato dall’esterna a Formello per la presentazione delle nuove divise della Lazio: io, Paolo e Renzo ci siamo diretti nel centro sportivo per assistere a questo appuntamento insieme a molti altri giornalisti oltre ad una cornice di pubblico nutrito e coraggioso per aver sfidato il caldo torrido del pomeriggio romano. La scaletta della giornata è stata cambiata almeno 70 volte, io avevo un collegamento telefonico con il telegiornale in diretta considerando che Renzo era impegnato nella presentazione delle maglie e dei giocatori, e così, l’uomo che doveva fare il giornalista per la nostra televisione sono diventato di conseguenza io. Alle 17, dopo un leggera sgambata sul campo centrale di Formello la squadra è rientrata negli spogliatoi, noi invece ci siamo involati verso la sala stampa. Per i tifosi è iniziata una micidiale attesa di quasi due ore mentre noi eletti pasteggiavamo dinnanzi al buffet sotto i portici. Slittata la conferenza stampa anche noi ci siamo ritrovati in balia del destino, senza certezze sugli sviluppi successivi. Timoroso di non riuscire a vedere le maglie in tempo per la telefonica con il tg, mi sono fatto svelare da Renzo in anteprima le nuove divise. Prima dell’inizio della conferenza stampa, con un Lotito ancora disperso, ho fatto il mio collegamento in cui ho raccontato le novità da Formello, e poi sono entrato in sala stampa in cui i vertici della Macron (neo sponsor tecnico laziale) hanno presentato le maglie senza farcele vedere. Terminata la stranissima conferenza ci siamo rispostati sul campo d’allenamento, il pubblico sempre più numeroso e accaldato era ormai inferocito, gli altoparlanti non funzionavamo, il povero Renzo ha dovuto presentare le maglie con il volume vicino allo zero. Finita la sfilata, siamo tornati alla macchina dopo essere passati all’interno del parcheggio privato dei calciatori della Lazio, uno spazio in cui la somma delle vetture superava di gran lunga i milioni di euro. Chiusa la giornata laziale, caratterizzata da ritardi e disorganizzazione, un pomeriggio in cui ancora una volta i tifosi sono stati trattati in maniera pessima (parlo sempre come uno che sta da quella parte ovviamente) ci siamo diretti verso redazione. Domattina si parte alla volta di Fiuggi sempre al seguito dei biancocelesti. Se penso che per fare sta vita teoricamente si viene anche pagati, per parlare di calcio e di una squadra, mi viene un desiderio di fare sto lavoro che voi umani non potete nemmeno immaginare.

 

 

Frase della giornata

 

“Ammazza che bel buffet, lo avrà sicuramente offerto la Macron, Lotito non lo farebbe mai”.

La “Formellata”

Dopo quasi due mesi di stage, è arrivato finalmente il momento dello sport, ed in particolare del calcio. È stato il giovedì della celebre “Formellata”, così l’aveva definita Renzo a metà giugno quando mi disse che alla prima occasione valida sarei andato con lui. La presentazione di Ederson, nuovo acquisto biancoceleste, mi ha condotto nella sala stampa del centro sportivo laziale, insieme a Paolo l’operatore e a Renzo stesso. Poco dopo mezzogiorno ci siamo ritrovati un po’ tutti alla stazione di servizio dell’Agip all’inizio di Formello. Nel bar adiacente alla pompa di benzina, c’era già Daniele Garbo di Mediaset e a distanza di qualche minuto è giunto anche Enrico Sarzanini di Dimensione Suono Roma e Leggo. Ho capito insomma che l’area di servizio Agip è un ritrovo prima delle conferenze per chi segue la Lazio. Dentro Formello ho preso contatto con la realtà biancazzurra: Paolo ha posizionato la sua telecamera, Renzo fraternizzava e salutava i ritrovati colleghi, io invece scrutavo ogni dettaglio. Verso le 13 ho occupato un posto all’ultima fila, vicino a me c’era Caliendo, il procuratore di Ederson, in seguito è arrivato Tare e subito dopo è partita la presentazione del centrocampista. Poche domande, risposte scontate e ovvie, ma grandissimo italiano sfornato dal sudamericano, una sorpresa che ha lasciato di stucco un po’ tutti. Terminato il turno del neo arrivato, ha preso la parola Lotito che ha dato il meglio di se, anzi, il peggio di se, attaccando un po’ tutti, sfoderando delle contraddizioni uniche, affermando cose insensate e leggendo un proprio editoriale di qualche mese fa tratto dalla rivista ufficiale della società. Alle 2 tutto era finito, l’operatore Mediaset cercava di mettersi in mostra ad ogni modo con una delle hostess ma senza grande fortuna, io e Paolo ci involavamo verso l’altra parte di Roma. Mezz’ora più tardi sono rientrato in redazione per preparare la diretta, terminata la trasmissione ci siamo adoperati per sistemare quella di domani. Alle 7 però, prima di andarmene, ho incrociato nuovamente Renzo, qualche commento sulla conferenza e poi l’ho salutato e ringraziato per avermi regalato questo brivido. Dopo due mesi, era il momento di vivere una mattinata da addetto ai lavori anche per il calcio.

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Vincenzo Paparelli

Hanno messo uno striscione stanotte, lo hanno appeso su un muro che si allunga sotto casa mia per ricordare chi non c’è più perché se ne è andato in modo inspiegabile. Questa mattina, mentre mi dirigevo verso la macchina, l’ho letto, ma in fondo non mi ha ricordato nulla perché già mi era venuto in mente, già ci avevo pensato. Oggi è San Simone, è 28 ottobre e quindi anche l’anniversario di Vincenzo Paparelli, tifoso laziale ucciso una domenica di 32 anni fa durante un derby Roma-Lazio. L’aspetto più assurdo dell’uccisione di quest’uomo rimane il modo, drammatico, crudo, violento e soprattutto inatteso. Paparelli è morto in un attimo, mentre mangiava un panino seduto sui gradoni della Curva Nord in attesa che iniziasse la partita, vicino a sua moglie. Paparelli è morto per un razzo che gli si è conficcato in un occhio, un razzo sparato da oltre 150 metri, dalla curva dei tifosi romanisti. Soltanto pochi minuti prima aveva visto due razzi volare, due traiettorie strane e imprevedibili che avevano terminato la loro pericolosa corsa lontano, addirittura all’esterno dello stadio. Testimone dei suoi carnefici era ignaro che poco dopo un terzo razzo lo avrebbe ucciso strappandolo per sempre ai suoi cari, ad una partita, ma non dalla memoria di chi lo ricorda dopo oltre trent’anni. La scia del razzo sparato termina sul volto di Paparelli, una maschera di sangue, un momento di silenzio e poi una disperata corsa verso l’ospedale Santo Spirito dove l’uomo giungerà già privo di vita. Cala il gelo sullo stadio e su una partita maledetta che viene fatta disputare lo stesso per evitare ulteriori incidenti, una giustificazione drammatica che verrà utilizzata anche nella tragica notte dell’Heysel sei anni più tardi. In Italia è il primo caso di morto ammazzato durante un incontro di calcio, la caccia all’assassino parte immediatamente, dopo una breve indagine, viene indicato in Giovanni Fiorillo l’autore materiale del gesto criminale. Fiorillo ha 18 anni ed è un pittore edile disoccupato. Già la sera dell’omicidio si dà alla latitanza fuggendo senza una meta ben precisa in giro per l’Italia riuscendo anche ad espatriare in Svizzera. Dopo quattordici mesi si costituisce e nel 1987 viene condannato dalla Cassazione a sei anni e dieci mesi di reclusione per omicidio preterintenzionale. Muore pochi anni dopo a causa di un male incurabile. Sono passati trentadue anni ormai ma il ricordo di Vincenzo Paparelli non si è affievolito, soprattutto nei tifosi laziali i quali lo ricordano sempre con affetto e dolore. È trascorso molto tempo, non ho vissuto quella giornata ma ogni 28 ottobre il mio pensiero vola a Vincenzo, morto prima di una partita di calcio per colpa di un razzo nautico per segnalazioni luminose sparato da 150 metri.

 

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