1 luglio

C’è indubbiamente una notevole circolarità in molte cose che mi capitano nella vita e non perché il fattore routine pesi più di tanto, credo sia proprio un discorso di caso. Oggi è Canada Day, festa in tutto il paese e come lo scorso anno ha piovuto e poi il cielo si è riaperto. Come lo scorso anno non ho fatto nulla di particolare e come lo scorso anno nel pomeriggio sono andato a correre. Una differenza sostanziale però c’è, 12 mesi fa infatti passai a chiedere informazioni nel condominio in cui vivo attualmente per cercare casa.

Sapevo che 11 giorni dopo sarei dovuto tornare a Roma, ma ero altrettanto consapevole che il 28 ottobre sarei tornato qui e quindi, con un certo anticipo iniziai a cercare, ed il primo posto in cui andai fu quello in cui sto attualmente da diversi mesi.

Un Canada Day di venerdì regala un lungo weekend che per quanto mi riguarda ruota intorno solo ed esclusivamente alla partita di domani, quella di Bordeaux fra Italia e Germania. Tutto il resto, onestamente è solo cornice, condimento.

Lo scorso primo luglio sapevo che ne avrei vissuto un altro qui, era facilmente prevedibile, così come allo stesso tempo so bene che non sarò più qui fra altri 12 mesi, come in fondo è giusto che sia.

Stasera fuochi d’artificio in riva al lago, profumo di acqua e vento, bandiere esposte e quel discutibile senso di patriottismo che hanno i canadesi, anni luce lontano dal corrispondente americano, ma comunque ostentato in modo singolare.

Dieci fa invece sostenevo il mio orale di maturità e finivo i gli esami, era un sabato mattina. La sera prima ero stato con Simone a Piazza del Popolo con tanto di tricolore a celebrare il successo sull’Ucraina ai quarti e facevo avanti e indietro dagli archi di Porta Flaminia, fin quando alle 1.30 guardai l’orologio, il mio amico e dissi: “Aho, ma io fra un po’ di ore c’ho l’esame…”

Poi però, continuai a sbandierare felice, facendomi trascinare dal clima di quella meravigliosa estate in attesa della semifinale con la Germania.

Appunto, la Germania, parlavo di ripetizioni e circolarità, eccone un’altra…

Le mie storie mondiali (Parte 3)

Ho due mondiali nel cuore: uno è quello di USA ’94 perché è il primo che ricordo e il secondo, ovviamente, è quello di Germania 2006 con l’Italia campione. Otto anni dopo gli esami delle elementari mi ritrovai a fare quelli della maturità, impegno ben diverso e ostacolo decisamente più complesso. Naturalmente, la mia mente era rivolta solo alla coppa del mondo consapevole che sarei stato promosso con un voto fra il 70 e il 75 e quindi, più di tanto, era inutile affannarsi. Be, se devo essere sincero ero diviso in due perché l’altro interesse si chiamava Elena e stava in 3°A. Andai un giorno in chiesa, entrai a San Romano da solo e chiacchierai con l’Altissimo per una buona mezz’ora. La sostanza fu questa: non ti chiedo nessun aiuto per la maturità, ma fammi vincere il Mondiale o come consolazione regalami Elena. Quest’ultima svanì in una cena di metà giugno a Tivoli e lì capii che avremmo vinto la quarta coppa. Tutto iniziò ancora a casa di Vincenzo come all’esordio nel 2002, mentre con gli Usa soffrii in veranda da solo. L’ultima partita del girone invece si giocò il pomeriggio fra la seconda e terza prova di maturità. Alle 14,30 mollai il mio compito di matematica copiato totalmente e tornai a casa per vedere la partita delle 16,30. Anche stavolta, come nel 1998, vidi il match decisivo per gli ottavi con Paolo e Chicco. Superato lo scoglio Repubblica Ceca (indossavo un t-shirt verde della All-Star e i bermuda neri) tornai a casa per ripassare due cose in vista del quizzone. L’angoscia degli ottavi con l’Australia mi riportò a Italia – Nigeria e ancora un dieci, ancora su rigore e a tempo scaduto, ci liberò da un macigno. A casa, da solo, con mia madre in veranda, mi lasciai andare quasi a un pianto di sollievo al gol di Totti. Nel frattempo erano uscite le date degli orali e io capitai il primo luglio, l’indomani della sfida con l’Ucraina. Invitai Simone che a ogni gol sparava botti dalla mia finestra, vincemmo comodamente e malgrado l’impegno che mi attendeva, alle 2 ero ancora a Piazza del Popolo con la bandiera a cantare. Non studiai nulla, la mattina dopo, entrando in aula, mi guardò la Prof.ssa Vulpiani che sapeva della mia passione sportiva e mi disse: “Ciofi, se mi dici che ieri non hai visto la partita per studiare ti faccio domande facili”. Sicuro che non avrebbe creduto a una versione non da “Matteo Ciofi”, le dissi: “Professoressa, mi conosce, e sa che ieri ho visto la partita…”

Archiviata la pratica esami, mi concentrai finalmente e definitivamente sul mondiale anche perché la storia si faceva interessante e alle porte si intravedeva il duello contro i tedeschi, la Partita per antonomasia. Andai a casa di Gabriele che mi strappò alla concorrenza, soffrimmo e esplodemmo in maniera mostruosa al gol di Grosso, così come al raddoppio immediato di Del Piero, certamente i tre minuti più pericolosi della mia vita a livello cardiaco in seguito a delle urla e dei brividi mai vissuti prima. Festeggiamo ancora a Piazza del Popolo, Gabriele si buttò in fontana, il “Patata” continuava a gridare senza motivo “Oddio l’ItalTrap!” dopo averci deliziato con il suo memorabile “Oddio Tevez, ma che sta a succede?!” al gol di Grosso.

Dei cinque giorni fra semifinale e finale non ho memoria, in trance, inghiottito da tutto, fra paura ed esaltazione e con una frase in testa, una convinzione, un mantra: “Non penso di essere ancora maturo per sopportare un’altra finale persa, e per di più con la Francia. Non sono pronto. Lo so.”

Ricordo quel 9 luglio, l’afa, la tensione e il pranzo da mio zio. Accompagnai mia cugina di 9 anni a prendere il gelato e le dissi: “Non ti invidio perché non puoi capire a cosa stiamo andando incontro…io invece lo so e ti assicuro che è un momento storico”.  Cenai da mia nonna, pollo al forno e patate alle 19, poi impugnai il mio tricolore, mi vestii come in semifinale e andai ovviamente da Gabriele, come nel 1994 non cambiai per scaramanzia il posto in cui vedere la partita decisiva dopo la semifinale.

Camminai su Via Tiburtina e assaporai quell’attesa magica, quell’esaltazione mischiata a paura. Sentivo le persone parlare del 1982, sognavo una serata così. Passeggiai lento per gustarmi ogni centimetro, l’attesa ha un potere magnetico e mi ripetevo: “Vale veramente la pena campare anche solo per momenti così”. Terrore dopo il rigore di Zidane, ossigeno al pari di Materazzi. Fui l’unico a non esultare al gol annullato di Toni, avevo già visto tutto. E poi, poi i rigori, ancora. Sempre loro e in mezzo la Francia, ma il calcio quasi sempre ti restituisce ciò che ti ha tolto in maniera beffarda e quel rigore di Grosso ci ricompensò di anni sprecati e sofferenze illimitate. Io ero sulla poltrona e credo che quell’urlo sia entrato di diritto nella mia personale top five. Che dire di altro? L’inferno, la festa, un paese impazzito, tutti stretti e uniti, tutti italiani avvolti nel tricolore perché quando c’è da celebrare siamo unici. Il centro imbandierato e il ritorno a casa alle 3. Il mio mondiale è stato questo, di Elena me ne sono fatto una ragione, l’Altissimo mi aveva dato retta ed era stato di parola.

L’estate del 2006 è stata quella della maturità e del mondiali, se ci hanno girato un film, “Notte prima degli esami. Oggi” un motivo ci sarà, quel film è nostro perché parla anche di me…

(CONTINUA)

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Elena

Qualche giorno fa, leggendo un’intervista rilasciata da Marcello Lippi ad un giornale, mi è ritornato in mente un fatto, una cosa che penso di non aver mai raccontato a nessuno.

I Mondiali del 2006 l’Italia li vinse per merito mio, di Elena e del Padreterno.

Per spiegare questa frase piuttosto ad effetto devo tornare indietro di qualche anno, esattamente ad aprile 2006. Sono gli ultimi mesi di scuola prima della maturità ed un pomeriggio, dopo pranzo, torno al Plinio per una conferenza alla quale siamo obbligati a presenziare. Mentre salgo la lunga scalinata che dall’ingresso porta alle aule del primo piano mi ritrovo dietro ad una ragazza.

Mi ritrovo in realtà a salire con il suo fondoschiena davanti, a un metro dagli occhi, avendo un ritardo di due gradini da lei.

Rapito dalle sue forme, rispondo ironicamente a Giulio che parla di altro, lei si gira, mi sorride, scambio di sguardi e scintillona che scocca, almeno per me. La ragazza in questione si chiama Elena, fa il terzo e ha quindi 17 anni, due in meno del sottoscritto. Da quel pomeriggio in poi mi porto questa ragazza in testa, e ad ogni ricreazione e a ogni possibile incrocio i nostri sguardi entrano in contatto e non solo per la mia volontà. Ai primi di giugno (ora tutti penserete: “Ma hai fatto passare un mese e mezzo? Che aspettavi?” ricordatevi sempre che sono uno dei fondatori della Società Fabiana…) mi butto. Attraverso amicizie in comune, se così si può dire, mi faccio avanti e l’impatto non è dei migliori, almeno, questo è quello che penso.

Pochi giorni prima della fine della scuola, senza motivi particolari, mentre rincaso da via Tiburtina decido di fermarmi in chiesa. Non prego, non mi affido al Signore, non voglio protezioni per la maturità. Vado a parlare con l’Altissimo così, per fare due chiacchiere e già che ci sono sposto il discorso su Elena. Al Signore chiedo lei. Non mi interessa del diploma, del voto, di queste cose, voglio Elena della 3°A.

Prima di alzarmi dalla panca, la mia follia mi porta a pensare al Mondiale alle porte, e, non so per quale maldestro collegamento, mi fermo e rilancio l’offerta: “Se però Elena non riuscissi a portarmela, fammi vincere il Mondiale”. Esco soddisfatto e non racconto a nessuno il mio dialogo con Dio. Un paio di settimane più tardi, vado con i miei compagni di classe ad una festa vicino a Tivoli ed Elena mi rifiuta, non si può fare nulla. Apre quindi la maledizione femminile che mi porto ancora appresso e che inaugurò due estati prima Milena.

Triste per il NO secco e deciso, entro in una voragine di tristezza. Sostengo nel frattempo le prime tre prove e poi mi gusto Italia-Australia. Quando Grosso cade in area e l’arbitro indica il rigore, mi viene in mente Elena, e ripenso al “patto” con il Signore. Totti la butta dentro e comincio a pensare al mio scambio, all’altare sacrificale sul quale ho messo in qualche modo Elena.

Il resto è storia: a Berlino diventiamo campioni del mondo domenica 9 luglio e rientrando a casa quando le 3 sono trascorse da un po’ passo davanti la chiesa. Penso al mio discorso fatto un mese prima, a Elena, al patto, e al regalo che mi ha fatto il Padreterno e mi rendo conto che, dopo aver vissuto quel genere di emozioni, è stato meglio così.