Colombia 2017 – Il ritorno

Quel posto che era stato teatro di un ricongiungimento tanto atteso, diventa otto giorni dopo il palco su cui si consuma il più classico degli arrivederci strappalacrime. La lunghissima fila per mollare la valigia ci toglie oltretutto del tempo prezioso da condividere insieme come scorcio finale. Il momento dell’abbraccio dura relativamente poco e porta in dote con se tutto un suo dolore molto particolare, che chiunque avrà vissuto almeno una volta nella vita in qualche modo. Il volo verso Miami viene riempito proprio con queste righe, queste pagine, cercando di sfruttare il tempo per ricollegare i pensieri e fare un po’ di ordine, ma anche per riassaporare quanto appena vissuto.

Arrivato a Fort Laurdale, l’altro aeroporto di Miami, condivido un taxi e vado in hotel. Miami è stata inondata, ci sono pozzanghere dappertutto ed è chiaro che il maltempo continui a seguirmi senza tregua. Il breve giro serale termina da “Sbarro” per un pezzo di pizza, e qualche rapida occhiata dalla quale traggo alcune sensazioni iniziali: troppa poca luce per strada, semafori che sembrano dimenticarsi dei pedoni, umidità altissima, tanti italiani, ma soprattutto tendenza da parte di chiunque a parlarti in spagnolo direttamente, come se l’inglese fosse un accessorio.

La seconda giornata in Florida è inaugurata da un check-in online complicato (l’ennesimo) ed un incontro con due italiani di Prato alla fermata del trolley blu, il mini-bus gratuito che copre alcune parti di Miami Beach. Mi suggeriscono di camminare per Ocean Drive e Collins Ave, seguo le loro direttive e abbandono l’idea di un salto anche downtown. Faccio una lunghissima passeggiata costeggiando il mare, fra palme, campi da beach volley e gente che sfreccia con bici e pattini. Arrivo fino alla quinta e poi risalgo mentre il sole esce sorprendentemente e quando lo fa picchia anche per bene. Mi infilo in Lincoln Road che decreto come la mia strada preferita e pranzo qui, in un pub irlandese. Mi prendo tutto il mio tempo, anche se vorrei che fossero già le 6 per dirigermi in hotel. La stanchezza c’è, lo scoglionamento non tarda e soprattutto Miami, senza mare è finita lì, in ciò che ho già visto, considerando anche che entrare nei negozi significa consegnarsi alla bronchite per una aria condizionata a livelli inumani. Un classico nordamericano a cui sono ormai abituato.

È proprio mentre mangio il mio panino che dal pub parte una canzone che mi riporta in un attimo a Dawson’s Creek – essendone parte della storica playlist del telefilm – e mi getta addosso un senso di malinconia inattesa e veramente profonda. Tre minuti in cui penso al viaggio che volge alla fine, a quando ci rivedremo, a tutto un subbuglio di emozioni e a quanto in questi anni “ho vissuto”, una frase e un concetto difficile da spiegare ma che so bene cosa significhi per me.

Questo alone mi accompagna per il resto della giornata prima di raggiungere agevolmente l’aeroporto e partire, in orario e con tanto di compagnia italiana al fianco e Jennifer Lopez come hostess. La pastiglia mi fa effetto intorno metà viaggio e di fatto mi fa dormire fino alla fine. Piove anche a Madrid e chiudo l’en plein in modo perfetto, incrocio le dita e spero che il clima di Roma non mi tradisca. Anche perché, quando avrò raggiunto Fiumicino, il viaggio sarà finito, veramente finito, ma non le emozioni e tutto quello che ho visto, sentito e annusato. Queste cose infatti, sono doni che non svaniscono quando i carelli dell’aereo toccano terra. 

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