Aggiornamenti di Natale

Il pomeriggio di Santo Stefano corre un attimo in soccorso per farci rifiatare a tutti quanti dopo la maratona: cena del 24, pranzo del 25 e cena sempre del 25.

Riordino le idee visto che jetlag e fuso orario sono discorsi ancora lontani dalla soluzione. Sono tornato a Roma, il viaggio è andato benissimo pur non avendo dormito un minuto come al solito e Fiumicino mi ha accolto con un tiepido ed immancabile sole.

Riposino pomeridiano di tre ore e poi via per cena con Alfredo, Antonio, La Bionda e Fabi, dopo invece coda notturna con Gabriele che sono andato a prelevare dall’altra parte di Roma. Le prime due serate le ho vissute con gli orari del Canada, a dormire alle 5 e sveglia intorno l’ora di pranzo, a parte ieri mattina che mi sono alzato inspiegabilmente alle 8, pagando poi le poche ore di sonno nel pomeriggio.

Comunque sia, il 24 come al solito è stata un serata di ricognizione per me, un warm up mentre guardavo gli altri mangiarsi tutto il pesce delle acque mondiali. Fortunatamente mi sono portato a casa una agenda, un maglione, una camicia di Lambert, una cravatta, un po’ di soldi e un pigiama.

Ieri dai 13 della sera precedente siamo diventati 18 e poi 19, con la sorpresa di Antonio che è sbucato dal nulla. Pranzo di tutto altro lignaggio per quanto mi riguarda, stesso discorso per la cena. Male invece sotto il punto di vista delle carte. La Christmas Call da Woodbridge mi ha salvato da una tombola, mentre il resto della serata l’ho trascorso a pagare. Niente, primi round di carte altamente insufficiente fra 31, cucù e Mercante in fiera.

Ieri sera all’una mi sono addormentato, oggi pausa all’ora di pranzo in cui mi sono finito i cannelloni di ieri, ma il tavolo in veranda è già pronto per la sessione serale, altre 14 persone sono pronte ad arrivare, e la tovaglia è girata sul lato verde, quello da gioco.

Avanti!

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Aggiornamento natalizio

Tiriamo un attimo il fiato prima di ripartire, ancora una volta, per un rush finale in questo Natale nuvolo fuori ma piuttosto caldo all’interno, e non solo perché il termometro sul camino in veranda segnava 34° gradi: benvenuti in un Natale quasi fuori stagione nella bolgia di questo pezzo di casa.

Da allergico al pesce come sempre il 24 è stata una serataccia, a un punto smistavo solo piatti, bicchieri, bottiglie di vino, era tutto un: “Passami questo” “Mi puoi dare quello?” “Ti dispiace darmi il vino”, insomma loro mangiavano, io stavo quasi con le mani in mano e allora sono diventato uno snodo umano. Pesce, antipasti, mille cose e io tagliato fuori, ma il bello di giocare in casa è che almeno tua madre per primo sfodera una pasta al tonno sulla quale puoi avventarti. Chiacchiere, battute, un clima natalizio al 100%, prima di dolci e frutta secca, fra una foto, un messaggio su Whatsapp e qualche regalo scartato, il mio come sempre, dal 1998, è uno, fisso e inderogabile, quest’anno non a righe nero-blu, in uno slancio di boicottaggio.

Carte, niente tombola, spumanti, torroni, pandoro e panettone, giochi interrotti da spuntini insoliti, male a 7 e mezzo, vittoria a Cucù, 12 euro in tasca e all’1.30 il 24 va in archivio quando il calendario dice 25 e devi mettere il bambinello nel presepe. Per giustizia, puntualità e dedizione.

Poche ore di sonno, qualche commento, la notte di Natale è sempre la più veloce anche se pensi sia lunghissima in vista della mattina dopo. Che importa se ti riscopri un po’ bambino, Natale è anche questo, forse, è proprio questo. Colazione, e poi via a pulire con l’orologio che cammina e la veranda da risistemare in tempo, si ricomincia, ancora in 18 attorno al tavolino, meno antipasti ma più primi, 45 cannelloni da sbranare, i miei diventano 4 e non 2 perché baratto l’altro primo (risotto ai funghi) con mia cugina che mi stringe la mano: è fatta. Poi? Beh poi c’è il cappone, la pancetta bruciacchiata che va a ruba, le salsicce, l’insalata, evito bevande gassate, così come i dolci. Si parla, si ride, si gioca a biliardino e quindi sudi prima che finisca la partita. È tutto un via vai: chi si allunga, chi si mette davanti la tv, chi guarda il camino, chi è colpito da un profondo senso di pennica.

Ci si veste e si va via tutti insieme, si attraversa Roma per andare a trovare nonna che invece sta in ospedale. Tre macchine, 13 persone, tutti quasi a salutarla per portarle un sorriso e un pezzo di Natale in una location insolita e che avremmo voluto evitare. Il morale ce lo tiriamo su, in qualche modo, pensando positivo. Ci dividiamo, l’appuntamento è fra un po’, per un altro giro, la festa è ancora lunga, la veranda brilla e Roma, da quassù, sembra finta.

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Il frasario di mia nonna (Parte III)

Terza parte e molto probabilmente ultimo resoconto sul frasario colorito e particolare di mia nonna. Nelle precedenti due puntate ho riportato alcune delle sue tipiche espressioni gergali, fra romanesco e invenzione, genialità e anima verace. Dopo il post dello scorso 4 agosto voglio chiudere la lista con le ultime perle.

 

“Core de nonna, tu nun te sposa’ mai” – Crescendo, inevitabilmente, questa frase me la ripete più spesso e con maggior convinzione. È un suggerimento, un invito, un’esortazione, quasi un augurio che lei mi rivolge. Evidentemente il trend di coppie che saltano con grande facilità non le è indifferente, di conseguenza vede nel matrimonio qualcosa di negativo o rischioso. Per cui, a suo avviso, è meglio lasciar perdere, ovviamente il tutto è anticipato da quel “Core de nonna” classica espressione intramontabile.

 

“La vita è ‘na gran fregatura, ma una de quelle grosse” – Questa espressione a me fa molto ridere, ha quel suo senso di malinconia e amarezza che mi avvolge. Mi piace talmente tanto che sono io spesso a “provocarla”, sono io che pronuncio la frase, almeno la prima parte e lei annuisce con il capo e poi chiude tutto dicendo appunto: “Sì, ma una de quelle grosse”.

 

“C’ho un nipote che è ‘n diavolerio” – Il nipote in questione non sono io bensì il figlio di mio cugino di cui lei è bisnonna. Tralasciando il valore della frase (oltretutto vera) a me affascina questa evoluzione del termine diavolo. So che è un termine regionale il quale significa “scompiglio, trambusto” ma nel caso specifico penso sia una perfetta sintesi di “diavolo” e “diavolerio” inteso nel suo modo più letterale, visto che il bambino in questione genera trambusto e scompiglio in maniera puntuale.

 

“Sto cane c’ha le corna” – Torna il tema del diavolo e del demonio come simbolo di caos e problemi. Altra storica definizione utilizzata per animali ma non solo. Avere le corna significa essere dei mascalzoni, dei lazzaroni, non c’entra nulla l’aspetto del tradimento. Se il cane ha le corna, significa che la sta facendo impazzire con il suo comportamento.

 

“Nun li reggo, perché so’ ‘sagerati” – Frase ripetuta spesso, anche se la prima volta che l’ho sentita è stata dopo un suo periodo di vacanza a Fiuggi. Partì con il centro anziani e rimase particolarmente infastidita dal comportamento dei suoi coetanei durante i pasti, in particolare fu sconvolta da coloro che si avventavano sul buffet come se non ci fosse un domani…”Pare che nun hanno mai magnato…”

Il frasario di mia nonna (Parte II)

A distanza di undici mesi è giusto dare un seguito a quel post che scrissi il 27 settembre dello scorso anno riguardo il colorito e inarrivabile frasario di mia nonna. Ascoltandola, imitandola e ripetendo le sue frasi per scherzo, ne ho appuntate altre che meritano di essere pubblicate e spiegate.

 

“E a me mica m’è gnente…” – Un pezzo forte di mia nonna è il rivendicare il livello di parentela, il concetto di sangue e famiglia. Se uno esce da questo circolo, la frase è automatica. Solitamente viene usata in relazione ai regali, e lo scambio è il seguente: uno le domanda se ha fatto un regalo a qualcuno e lei risponde così, mettendo l’accento sul fatto che la persona in questione a lei non è niente, che tradotto significa non è parente. Quel “gnente” alla fine è poi uno dei marchi di fabbrica del romanesco, con il passaggio del gruppo “ni” davanti a vocale che si palatalizza in “gn”.

                                                                      

“Sì, ‘n artro bono” – Gemma, colpo secco venato da fastidio e consapevolezza. La frase indica la convinzione di mia nonna nel giudicare una persona appena citata. Ovviamente il “bono” è ironico, ma l’ “artro” che precede l’aggettivo, fa capire come ci siano già molte persone di cui non è il caso fidarsi.

 

“E a me che me frega” – Reazione diretta, senza troppi giri di parole. Posizione netta che non ammette repliche. Quando dice che a lei non interessa, la discussione finisce lì, non ci sono margini. È Cassazione.

 

“Non ce se vedeva manco a bestemmià”- Onestamente, quest’ultima frase, l’ha tirata fuori mio padre recentemente, io l’ho sentita forse mezza volta e anche molto tempo fa. Non è facile da spiegare, o meglio, non è particolarmente sensata. Ovviamente si usa in situazioni di totale oscurità, buio pesto, e anche l’aggrapparsi a soluzione blasfeme non riesce a risolvere il problema.

 

“Io vorei annà sulla Luna, guarda un po’”- Eccoci dinnanzi ad una frase epica, un must di mia nonna. Questa è una delle uscite più gettonate, senza dubbio. Nasconde (nemmeno tanto) il fastidio e la disapprovazione per qualcosa appena visto o sentito. Di solito è una frase successiva a qualche polemica familiare, tendenzialmente legata a mia zia. La volontà di mia nonna è di conseguenza quella di diventare astronauta e volare verso la Luna, lì, nella sua idea di universo, potrebbe essere isolata e lontana da discussioni. Naturalmente la “r” di “vorrei” è scempia essendo intervocalica e il verbo “andare” in romanesco diventa “annà” forma apocopata e con l’assimilazione progressiva ND – NN.

 

“Je le imparano tutte”- Partiamo da un dettaglio: a Roma e in tanti posti prevalentemente del centro-sud, il concetto “Io insegno e tu impari” è talvolta ancora nebuloso. Ci sono tantissime persone che utilizzano il verbo imparare al posto di insegnare, il problema è che spesso si sente anche in ambito giovanile, diversi miei amici o conoscenti si sono macchiati (e lo fanno tuttora) di questo obbrobrio semantico e logico. Mia nonna ha qualche giustificazione in più rispetto ai miei coetanei e usa imparare nella doppia valenza. Nel caso specifico la frase è rivolta a mio cugino di sette anni che rendendosi autore di gesti inconsulti (altro che marachelle) è il bersaglio delle sue ire (spesso condivisibili), anche se poi mia nonna rigira le responsabilità a chi insegna (“impara”) certe cose al bambino.

 

“Ah guardà Matté, io non vojo dì più niente” – Questa fa il paio con la sua volontà di fuggire sulla Luna. Siamo sempre nel campo delle polemiche e mia nonna si estrae volutamente dal discorso annunciando il suo personale silenzio stampa per evitare ulteriori polveroni. Gesto chiaro e intento a spegnere gli animi. Naturalmente “voglio” diventa “vojo” per effetto della palatalizzazione di “gli” in “jj” con tanto di scempiamento in “j”.

 

“E mi cojoni” – Una delle mie preferite. In questa espressione tipicamente romanesca, e quindi profondamente del popolo, c’è tutto. Spiegarla non è facile, è parente del più trasversale “E sti cazzi” (nel senso non me ne frega niente), e una sfumatura volgare del più banale “Alla faccia!”. Può intendere sorpresa e stupore, ma in base al contesto può esprimere anche un pizzico di fastidio o la volontà di non essere coinvolti in qualcosa di non troppo conveniente per se stessi. Se dici a Roma “E me cojoni” con il tono giusto non sarai mai frainteso, mia nonna però a livello di pronuncia chiude inspiegabilmente la E in I rendendo a mio avviso l’espressione ancor più esilarante.