Per oggi, basta questo

Non sono stati mesi semplici e questa lunga pausa ne è stata in parte una conseguenza. In realtà avrei avuto molto da dire ma talvolta è bene anche tacere, soprattutto quando è difficile raccontare senza poter andare in fondo alle questioni trattate.

È complicato parlare quando il limite della privacy non può e non deve essere superato, perché oggi, nel 2019, resto dell’idea che non tutto possa essere pubblico.

Ho avuto poche volte la tentazioni di scrivere a dire il vero. Pigrizia, poca voglia, tanto da scrivere sul serio per lavoro e non solo, e quindi zero fantasia di riempire una nuova pagina word.

È estate, fa caldo ma nemmeno troppo in fondo. Venerdì sarà l’ultima giorno di lavoro prima di una settimana di vacanza, la prima di tre, quest’anno saranno più del solito per fatiche precedenti.

Alla fine, in questi mesi, ho pensato che poteva andare peggio nella vita, ma anche meglio. Magari semplicemente come andava prima, che poi, guardando dallo specchietto retrovisore, era un bell’andare.

Mesi senza scrivere sul blog come mai era successo prima in oltre undici anni: era una fase necessaria, inevitabile. Al tempo stesso però, non ho mai pensato di non scrivere più o di lasciar perdere, prima o poi sapevo che avrei postato qualcosa. Per carità, nulla di eccezionale, come queste righe, ma qualcosa, un segnale, un messaggio.

A volte basta anche questo.

Due anni di Canada

Due anni fa esatti era il mio primo giorno di lavoro qui in Canada. Ero arrivato la sera prima, lunedì 12 gennaio, e stanco del viaggio e tramortito dal fuso-orario, ricordo di essere crollato sul letto dopo un filetto di manzo con dei fagiolini bolliti a cena.

La camera era al piano terra di una casa grande, bianca e luminosa, all’incrocio con Englinton Park, nella parte nord della città.

Sono trascorsi 24 mesi ma a me sembrano molti di più, non esagero se dico il doppio. La quantità di cose che ti ritrovi ad affrontare e vivere in contesti e situazioni del genere, è talmente grande che nella vita normale, nella routine quotidiana, potrebbero succedere solo in un lasso di tempo maggiore di un altro paio di anni.

Due anni di Canada sono un pezzo di vita significativo. Molto è cambiato da quel 12 gennaio, inevitabilmente anche il sottoscritto, come è giusto e ovvio che sia.

Toronto ha determinato il passaggio dall’essere ragazzo ad adulto, un limite che non fa rima con l’età anagrafica ma con quello che ti riserva e concede la vita. Diventi più grande quando acquisisci la tua indipendenza economica e sociale. Quando di fatto sei costretto a cavartela da solo sempre, dalle stupidaggini alle questioni importanti, quando devi badare a te stesso al 100%.

Il Canada mi ha condotto attraverso questo passaggio, che ingenuamente pensavo di aver completato a metà 2015, poco prima di tornare a Roma. Pensavo qualcosa che non era vero, serviva ancora tempo e fatica, ma soprattutto vivere da solo definitivamente, uno step necessario per segnare un cambio così importante.

Non so quanto durerà ancora questa esperienza di preciso, so però quello che è stata in questi due anni guardandomi indietro. Tante competenze, insegnamenti, conoscenze, momenti e sensazioni. Un caleidoscopio incredibile.

Mi ha spiegato in diversi modi però che la vita è sacrificio, è fondamentalmente sacrificio, soprattutto se hai delle ambizioni e segui delle passioni ma non sei un “figlio di papà”, bensì un ragazzo qualunque di una delle tante borgate di Roma.

Mi ha dato tanto questa esperienza, mi ha già dato inevitabilmente la stragrande maggioranza di quello che aveva in serbo per me, allo stesso tempo però, io ho ricambiato con altrettanti sforzi, con fatica e tempo. Ho consegnato al Canada un pezzo di me, una parte notevole. Ma alla fine capisci che non può andare diversamente: per ottenere qualcosa di rilevante, e per ricevere un grosso bagaglio di vita e esperienza, devi mettere sul tavolo un corrispettivo di valore, altrimenti non può funzionare. Un qualcosa di grande, a fronte di uno sforzo minimo, non può esistere, non è una frase fatta ma è la pura e sincera verità.

Sarebbero potuti essere due anni sicuramente più semplici se il trattamento economico fosse stato diverso e più congruo. Non è stato così, ed è un peccato per quello a cui ho dovuto rinunciare, e perché avrei potuto godermela di più. Ma situazioni del genere ti insegnano a marcare bene le priorità. Ci sono cose più importanti e altre meno, e se i soldi sono pochi si bada alla sostanza e poco al resto. Diverse persone mi hanno invitato ad essere “più leggero”, a vivermela con più serenità… “E il cazzo che ve se frega?” penso sempre quando sento questo fiume retorico.

“Vivete voi qua, in una città carissima, con uno stipendio da fame e poi vediamo quanto sareste stati leggeri e quanto ve la sareste goduta”. A questa frase non ci arrivo mai però, perché a gente che parla tanto per fare qualcosa, non puoi spiegare che vita è qui, e quindi ogni parola è sprecata e di tempo da buttare non ne ho.

Questo, appunto, è un’altra cosa che ho capito qui, un aspetto a cui ho dato sempre più valore. Il tempo sì, quello che passa e se ne va.

Ne parlavo recentemente, questi anni, gli ultimi dei 20 non me li ridarà indietro più nessuno e io li ho impiegati qui. Lavorando, impegnandomi, provandoci e facendo molti sacrifici.

Nessuno sa se tutto questo sforzo, questo reale investimento, mi darà la possibilità di riscuotere più avanti. Sono sempre stato scettico su tale prospettiva ma la vita me lo svelerà piano piano.

Anni difficili, ma ricchi, e questo comunque li giustifica. Ho imparato tanto nel mio mestiere, sono una persona più efficiente e ancor più organizzata, impossibile non esserlo in un mondo che vive di schedule e meeting.

A livello lavorativo ho avuto una crescita esponenziale, ma allo stesso tempo so che il mio margine, per migliorare ulteriormente, almeno qui, è ormai molto ridotto.

Toronto non mi piace, non mi è piaciuta molto fin dall’inizio anche perché non c’è niente di bello se non l’isola davanti la città, una meraviglia. Ci sono due cose però che apprezzo: i supermercati sempre aperti ed il fatto che sia una metropoli davvero internazionale. Il fatto di poter incontrare ed essere in contatto con persone di ogni angolo del mondo è stimolante e affascinante, un concetto che in Italia non sappiamo minimamente cosa possa essere.

Mi sono mancate molte cose e a certe credo che uno non si abitui mai. La distanza è relativa, il problema rimane il fuso-orario, un limite che mi taglia fuori in molte circostanze. Ho passato intere settimane – e capita ancora oggi – senza parlare italiano per giorni, solo il weekend era (ed è) il momento per farlo, quando Skype mi connette con quel mondo che vive sei ora avanti a me.

Una marea di complicazioni ho dovuto fronteggiare, sfighe di vario tipo che spesso mi hanno esasperato. Ho meno pazienza di un tempo, combatto solo se ne vale davvero la pena, non corro più dietro a nessuno, ma soprattutto ho accettato diverse cose di me stesso. Non fossi stato qua, e parlo soprattutto dell’anno appena finito, forse non sarei mai stato in grado di raggiungere questo punto.

Come detto, avrei voluto fare molto di più: girare, visitare altri posti, ma non ho potuto. Ho capito quanto sia strano vivere in un luogo che esiste per 7 mesi e poi vive realmente solo per altri 5 a cavallo dell’estate. Un posto che inevitabilmente non fa per me.

Vivere da solo è stato un passaggio chiave, ho sempre immaginato che fosse una soluzione positiva per me ed i fatti non mi hanno smentito. Ancora oggi è uno status che non vorrei cambiare per nessuno motivo al mondo, e che mi ha costretto a qualche sacrificio in più dal punto di visto economico, ma che ho fatto con piacere e consapevole del valore dell’investimento personale.

Due anni sono alle spalle e so bene che il 12 gennaio 2015 è stato l’inizio di una fase determinante della mia vita, il quarto turning-point che deriva ovviamente dai tre precedenti.

Ventiquattro mesi intensi, in cui ho conosciuto persone interessanti, soggetti strani, gente riprovevole, il Papa, validi colleghi; ventiquattro mesi in cui mi sono sentito italiano come non mai e scoperto più europeo di quanto immaginassi.

Due anni essenziali e che rivivrei senza dubbio, due anni che tanto mi hanno dato, ma che tanto mi hanno anche tolto.

Quella passeggiata casuale. Ad Attigliano.

Fu così che una domenica mattina di agosto mi ritrovai a camminare da solo per il centro storico di Attigliano. E pensare che la mattina era iniziata anche con una certa sintonia, il treno che si muoveva da Termini e “Per dimenticare” degli Zero Assoluto lanciata dall’I-pod con puntualità esemplare. Quel suo “Ho proprio tanti, tanti, troppi impegni, credo forse partirò”, così bene si infilava in quella mattinata afosa romana.

Persa la coincidenza ad Attigliano per andare al lago di Bolsena dai miei, vi risparmio gli strambi motivi per aver mancato il mezzo successivo, in attesa che qualcuno mi venisse a raccogliere, camminai, per togliermi dalla stazione, per muovermi, per ingannare il tempo.

Il senso di malessere diffuso di quella settimana esplose così rumoroso e non arginabile, rinforzato dalla coincidenza appena persa. E come spesso capitava, perso nei pensieri, quando camminavo nel buio della mia inadeguatezza, di quella inadeguatezza, mi sentivo in compagnia. In sua compagnia. Io e lei, che puntualmente, veniva e mi accompagnava in quei ragionamenti, in quei fastidi. La sua presenza si faceva più forte e vibrante. Quasi fisica per quanto era viva.

Perché in fondo, quella inadeguatezza l’aveva risolta, l’aveva messa in disparte per lungo tempo prima di rispolverarla e metterla in mostra. Tutto lei, solo lei. La tana libera tutti all’inizio che a un punto era finita e mi aveva fatto ripiombare laggiù, non so dove esattamente, ma di certo in un luogo lontano e profondo.

Camminando per Attigliano pensavo a questo, e provavo a convincermi che tutto questo ricorrente fastidio, questo sapore acre, in fondo doveva avere un suo valore. Sì, questo pellegrinaggio emotivo, drammaticamente emotivo, da qualche parte doveva portare, non volevo credere che fosse fine a se stesso, così gratuitamente doloroso e pungente, e soprattutto interminabile.

Intervallai il pensiero con un più deciso e generalista “Mi sono veramente rotto i coglioni”, un po’ di tutto, di certe cose viste e riviste. Una di quelle esclamazioni dell’anima, liberatorie e cariche di fastidio.

Camminavo guardando le bandiere sui balconi, vessilli che richiamavano a rioni diversi, la foto dell’Italia nella sua essenza principale. Appartenenza e rivalità. Noi, voi e loro. Il resto non conta. Nelle vie più strette, porte aperte, quei profumi del centro-Italia, di cantina e pranzi, ruspanti fino in fondo.

Sotto il muro del centro storico, intanto, la A1, l’autostrada, le macchine piene di vita estiva, a caccia di un pezzo di spiaggia e del tanto agognato riposo. Un paese in movimento, in versione ridotta ma pur sempre amante del mese di agosto.

Tornai indietro per dirigermi verso la stazione, con quella nube di pensieri che mi avrebbe accompagnato ancora per tanto tempo, come facilmente immaginavo. Sensazioni vissute troppe volte, malumori quasi amichevoli, nel prurito di quelle categorie a cui a volte sembriamo essere destinati al di là di noi.

Diverse ore dopo, in macchina, seduto di dietro, come non mi succedeva da anni, mentre la barriera di Roma Nord brillava in lontananza con le luci del casello, ripensai a quando tornavamo da Nazzano, dopo aver giocato tutto il giorno, stanco morto, con l’Inter che al massimo aveva pareggiato e il giorno dopo era lunedì e si tornava a scuola.

Avrei avuto bisogno di una giornata così forse, quelle belle, quelle spensierate, quelle da scuole elementari. Quando la preoccupazione era la figurina da rimediare, le passeggiate per Attigliano con la voglia quasi di vomitare una prospettiva impossibile da capire perché mai potesse succedere, e lei che chissà dove stava.

E dove sta tuttora.

 

Tweet del giorno

Se son tutte rose e fiori, sei nella tua tomba.

I pensieri dei primi giorni

I pensieri dei primi giorni sono sempre gli stessi. Cambiano i nomi e i colori, l’ubicazione, la tipologia della questione ma la sostanza rimane sempre quella. Camminando a passo svelto per Yonge St. ragionavo e le frasi che mi frullavano in mente, a un punto, erano somiglianti a quelle di Dublino. Quella familiarità in fondo mi ha confortato, sono tornato un po’ indietro nel tempo e certi interrogativi non mi hanno spiazzato come magari a marzo 2013, la prima volta che mettevo il naso fuori in un certo modo. In maniera ciclica certe cose si ripropongono, quando ti sovvengono alcune domande le riconosci da lontano e stavolta sei più fortunato dell’ultima perché mezza risposta la sai già.

Il tempo è l’unica certezza, le settimane che ti metti sulle spalle schiudono le domande e aprono i sentieri, liberano la testa e asciugano le fatiche iniziali. Le curve sono diverse, il paesaggio è differente, ma le grandi questioni che devi affrontare hanno un contenuto simile, cambiano un po’ nell’accento, ma questi, sono dettagli.

Cinque giorni di Canada, una vita davanti, un percorso appena cominciato e che certamente non sarà breve, di sicuro più lungo delle altre volte e con insidie nuove. In fondo sei tu contro tutto, la cosa più difficile ma quella paradossalmente più semplice, quella che ti illumina il campo davanti perché sai che le risorse puoi trovarle solo dentro di te e quando serviranno saprai quanto meno dove reperirle, senza perdere inutilmente tempo guardando altrove.

Certo, se poi evitassi di sognarmi due notti di fila una persona che è sotto la mia pelle a prescindere da tutto ma che è anche allo stesso tempo la meno adatta da avere in testa per una dozzina di motivi, allora sarebbe tutto un po’ più facile, ma il saggio da Hong Kong ha detto che è un classico, perché “Certi personaggi di fondo rappresentano le tue paure, il cambiamento e l’ansia”.