La mia estate – I referendum su se stessi

Il 31 luglio chiude il mese ma soprattutto manda in archivio l’intensa settimana della GMG, la più lunga e difficile a livello lavorativo del 2016 con tanto di sabato annesso. Sei giorni su sette a raccontare in onda tutta quello che stava succedendo in Polonia con le sei ore di fuso-orario a non facilitare il lavoro. Eppure, mentre l’ultimo notiziario è stato impacchettato e tecnicamente delivered, vengo contattato dalla “Ragazza di Richemont” che mi comunica di essere in città nel pomeriggio. Il messaggio non nasconde l’intenzione di incontrarci e così le prometto che le farò sapere come andranno le cose durante le ore successive. Tutto fortunatamente fila liscio e quindi esco da casa e ci mettiamo d’accordo su dove vederci, io, lei e la Goddaughter che è arrivata da una settimana. Mentre mi preparo per uscire però, ricevo una risposta da “Sonja Ibrahimovic”. Le avevo scritto infatti in mattinata cercando di indirizzare una precedente conversazione in una direzione più consistente.

Sono pronto per andare e vedo la notifica del messaggio ma decido di non aprirlo. È una scelta chiara con una motivazione precisa anche se me la giustifico a modo mio: “Non voglio sape’ i risultati dagli altri campi, adesso giochiamo sta partita”. Nella stupidità della frase, brillante metafora, risiede però una verità più grande e la capacità di isolare i fatti ed evitare che situazioni parallele possano accavallarsi e occupare in modo sbagliato la mente.

La notifica rimane tale, non apro il messaggio e mi lancio verso il molo con la bici. Parcheggio e poi mi dirigo verso il bar. Passiamo un’ora piacevole, con la Goddaughter perennemente in silenzio, forse imbarazzata, io intanto mi bevo la mia Sangria e poi ci incamminiamo verso la stazione. Il treno le attende, ma mentre attraversiamo la strada, guardo la ragazza da Richemont da dietro e penso: “Va bene tutto, ma certo che l’asticella l’ho tirata giù abbastanza, forse troppo. Io, quello che ama la bellezza e il gusto estetico…” Mi dico questo, mi viene non so perché in mente mio padre, che mi guarda forse con sguardo ammonitorio e ci salutiamo.

Ho la sensazione che possa essere anche l’ultima volta che ci incrociamo, ma non la totale certezza. Torno a casa e so che devo leggere il messaggio di “Sonia Ibrahimovic”, un po’ come guardare il Televideo a pagina 202 per leggere i risultati delle altre partite. Non mi aspetto granché ed infatti la risposta non regala grandi sorprese, anzi lei è molto brava a sviare la questione, in fondo c’è un no elegante e la cosa mi tocca davvero pochissimo. Mi sfiora appena, come successo pochi giorni prima per la “Dama Nera”. Di fatto è un 2-0 senza troppi giri di parole ed è una delle cose migliori che mi possano accadere in quel preciso frangente.

Il concetto “Dentro-Fuori rapido” è stato applicato, le gestione del no inizia ad essere diversa, scivola in maniera leggerissima, quasi impercettibile e la nuova dimensione mi spiazza. Mi sorprende perché ha davvero un qualcosa di speciale. Un sapore praticamente sconosciuto.

Il pensiero diventa presto “Vabbe, pazienza, venerdì è un’altra partita…” ed è il principio su cui si comincia a basare il mio approccio, un qualcosa che non mi è mai appartenuto ma che inizio a praticare ottenendo inaspettatamente una serenità completamente nuova.

I referendum su se stessi, così ribattezzati dal fine psicologo di Hong Kong cominciano a trovare meno spazio. Sì perché entro finalmente nell’ordine di idee che ogni situazione non può essere più vissuta in un determinato modo, e nemmeno considerare come tutto un voto di qualcun altro su se stessi. Finisce quella idea, ma questo succede perché altri punti sono stati definitivamente fissati e tutto ciò è una semplice conseguenza.

Siamo a un punto di svolta che si mixa bene con quanto di buono pensavo già prima, la capacità di leggere e capire alcune cose con anticipo. Dal weekend successivo, da venerdì pomeriggio 6 agosto, avrò conferme importanti in tal senso non abboccando ai giochetti da ragazzina, della simpatica “Ragazza di Marsiglia”…

Il nostro amico Giancarlo

La fine di ogni vacanza porta sempre almeno un pizzico di nostalgia e quella appena terminata all’Argentario con Giancarlo e la sua famiglia non può uscire da questa categoria.

Oggi infatti il bungalow numero 49 del villaggio “Sol de la Playa” si è chiuso e la famiglia Proietti ha fatto ritorno a Roma, stesso discorso per me e Alfredo che con il nostro beniamino abbiamo condiviso altri momenti indimenticabili.

Giancarlo ci ha fatto compagnia e noi abbiamo sorriso con lui, con le sue avventure, le sue frasi, i suoi ragionamenti, il suo modo puro di essere il romano medio, e per medio non intendo assolutamente mediocre.

Giancarlo Proietti è l’Everyman capitolino, un personaggio qualunque ma emblematico di Roma, della nostra città. Cinquantina da poco superata, ha una moglie, Paola, e due figli: Claudia e Mirchetto.

Di lui sappiamo diverse cose, sicuramente le più importanti. Si porta dentro due cose ataviche, che ripete in continuazione: quello che faceva con il padre quando era giovane ed il fatto che sia di San Giovanni nonostante ora abiti sulla Tuscolana, all’altezza di Cinecittà, vicino al campo della Polisportiva Bettini, squadra nella quale ovviamente gioca il figlio.

Lavora come infermiere al reparto oftalmico del Sant’Andrea, mentre la moglie Paola fa la commessa in un piccolo negozio di abbigliamento su Via Tuscolana, dopo aver lavorato per anni all’INPDAP.

Claudia è la figlia maggiore, 19 anni, a giugno ha finito scuola, si frequenta con un ragazzo che si chiama Antonio, uno che non parla mai “E pare sempre incazzato” suo coetaneo, con origini meridionali ed un ciuffo di capelli colorato. Mirco invece ha 16 anni, fa l’istituto tecnico, pensa solo al calcio e alla XBox, e pare che ultimamente abbia iniziato a fumarsi qualche canna di troppo.

Hanno una casa a Lido dei Pini, eredità della famiglia di lei, due macchine, uno scooterone, ed una bicicletta, ma non il cane che “Me piacerebbe pure voglio dì, ma casa è già piccola, c’è poco spazio pe noi, figurati per un animale poraccio”.

È figlio di una Roma che non c’è più, un suo tratto distintivo è la voce un po’ “nasalina”, è disilluso e disincantato, ma sa come va il mondo. Sagace e arguto, ha la comicità innata del romano e la risposta sempre pronta.

Si lamenta spesso, ma sa vivere le cose in modo leggero anche se a volte somatizza un po’ troppo. Tifa ovviamente per la Roma, anche se ultimamente non segue più come prima, la sua preferita è sempre quella di Falcao, Di Bartolomei, Pruzzo e Brunetto Conti, anche se “Oh pure quella del Boemo mica era male eh…cioè te faceva divertì”.

Ha fatto il militare ad Ascoli Piceno, ha un rapporto semi conflittuale con il cognato, il fratello di Paola, uno che a detta sua se ne approfitta un po’ troppo, anche sulle piccole cose, cose economiche di poco conto.

Un suo marchio di fabbrica è che divaga, apre parentesi e si perde ripetutamente, cita personaggi a caso, eventi senza logica, confonde date e momenti. Conosce tutta Roma, e ha un aneddoto per ogni cosa. Una delle sue frasi storiche è “Che poi se sa, la porchetta vera è de pollo…”

Qualunque cosa faccia, in qualunque posto vada, già c’è stato con il padre e ovviamente tutto era più bello, un filo rosso della sua malinconia, forse semplice e naturale nostalgia della sua gioventù.

Battuta sempre a portata di mano, “Ma che voi che ti dica” a inizio frase quasi d’ordinanza, a volte sfocia nel ruolo del “Capisciotto” quello a cui non si può dire o insegnare nulla. Vorrebbe parlare di più con i suoi figli che però sono perennemente avvinghiati allo smartphone.

Ha ancora spunti unici e vintage come “Aho, è per Messico?” o “Vi Sallustio”, per non dire “Aho senti che frescazzo” e “Dentifrocio”.

Ligio al dovere, uomo del popolo, dalla parte dei più deboli, ha sempre votato a sinistra ma ultimamente “Non ce vado più a votà, tanto so’ tutti uguali dai. Aho, e poi fra cani non se mozzicano vojo dì…”, uomo di straordinaria saggezza urbana mista a conoscenza popolare, raramente si fa cogliere in contropiede e non solo a livello dialettico.

Veste in maniera talvolta discutibile, sfocia infatti in qualcosa di pacchiano o di un giovanile che non gli appartiene più, come le scarpe di Cesare Paciotti modello 4US un po’ lucide. È legato in modo quasi maniacale ad alcune cose tipo l’Arbre Magique verde al Pino in macchina e ad un marsupio molto Anni 90, o al costume della MAUI che ha rispolverato per la 19esima estate consecutiva anche all’Argentario “Aho, ma io ce sto comodo, che devo dì…”

Io e Alfredo lo abbiamo conosciuto una sera piovosa di fine maggio 2013 a Frascati, poco dopo che ero tornato dall’Irlanda “In quel localino in cui pe’ entrà devi fa’ la tessera tipo circolo, capito…”.

Dopo la Puglia dello scorso agosto, quando lo andammo a trovare un pomeriggio a Peschici, abbiamo passato con lui 10 giorni all’Argentario, sì 10 dieci giorni “Perché ‘na settimana poi passa troppo velocemente e non te la godi, già fra andata e ritorno perdi du giorni…” e come sempre anche in questa parentesi lo abbiamo ascoltato annuendo alla sua proverbiale franchezza e purezza d’animo, perché in fondo siamo tutti un po’ Giancarlo.

Buon ritorno a Roma, carissimo.

 

“Che poi uno sembra un coglione a coltivare un personaggio inesistente, uno scherzo a oltranza, ma la fantasia aiuta a sopravvivere. Io lo sento uno di noi. Questa è magia. Mista a riconglionimento, ma pur sempre magia”.

Fermare le lancette

Quell’orologio lo aveva comprato per le vie del centro di Cagliari, un pomeriggio di agosto di due anni prima. Faceva caldo, era umido e dopo un gelato si era fermato a guardare la vetrina di un negozio, piccolo ma pieno di tutto, non solo orologi ma anche collane, perle e brillanti. Il cinturino rosso, accompagnato da lancette blu ed un quadrante bianco, aveva rapito la sua attenzione e così dopo aver ispezionato tutta la vetrina decise di entrare mentre il suo amico, terminata una granita alla menta, era ancora impegnato in una conversazione telefonica seduto al bar.

Poche battute, chiese di vedere l’orologio dal vivo e senza troppe esitazioni tirò fuori la carta di credito e lo comprò. Un acquisto come tanti, anche se non spendeva mai troppo in vestiti e scarpe, però gli orologi avevano su di lui un particolare influsso, un ascendente strano da spiegare. Quell’orologio fu l’ultima cosa che si comprò prima di incontrarla. Due settimane dopo, di ritorno dalla vacanza, in una classica quanto scontata festa di amici, amici in comune ovviamente, la vide.

Dopo due anni, mentre si preparava per uscire e passarla a prendere, quando aprì il cassetto andò dritto su quell’orologio. Si stupì per non averci pensato prima, si sentì quasi in colpa per aver mancato quel dettaglio nell’attentissima preparazione di una serata che per troppi motivi non poteva essere come nessun’altra.

Sì, perché nel cassetto che aveva aperto c’era l’anello. L’anello per lei. Lo prese ed un attimo dopo la coda dell’occhio visualizzò l’orologio. Lo indossò, si infilò la preziosa custodia contenente l’anello nella tasca sinistra, spense la luce della sua camera e uscì di casa.

Nel tragitto verso il ristorante, un posto che dominava la città regalando una panoramica sensazionale, cercava di nascondere in qualche modo le sue emozioni. Lei non sapeva nulla e soprattutto, conoscendola molto bene, aveva capito che non aveva intuito l’epilogo di quella serata. Celò meravigliosamente la sua adrenalina, pur sentendosi sempre un po’ in difetto, aspettava come non era mai successo prima in vita sua quel momento fra la fine del gelato e il momento di chiedere il conto, ma intanto, ancora non avevano parcheggiato la macchina.

L’Imago Roof Restaurant era in cima alla scalinata di Piazza di Spagna e accanto all’imponente chiesa di Trinità dei Monti, erano tornati lì perché poche sere prima erano stati invitati ad una cena di lavoro dei colleghi di lei ed erano rimasti ammaliati dal posto, al punto tale da volerci tornare il prima possibile.

Mentre le luci di fine settembre iniziavano a far brillare Roma, presero posto a tavola e ordinarono senza tergiversare un attimo la specialità del ristorante, una delle delizie che avevano mangiato nell’occasione precedente.

A lui non tremava mai la voce, nemmeno la mano, o i polsi come recitava il detto popolare, eppure nei momenti che lo conducevano ad estrarre dalla tasca quell’anello e a proferire un paio di frasi sulle quali in fondo non poteva troppo fantasticare, sentì un lungo e profondo brivido pervadergli ogni centimetro del corpo.

Se la cavò più che bene e rimase fisso sugli occhi di lei, come se tutte le altre parti del busto fossero sparite. La scrutò per alcuni secondi ma gli sembrarono molto più lunghi, eterni, quasi cinematografici. Il tavolo riservato, e voluto fortemente in una zona meno popolata e con una vista ancor più esclusiva, gli permise di non aver occhi indiscreti su di lui, perché quelli di lei, iniziarono a grondare lacrime mentre lui continuava a battere il piede destro come aveva sempre fatto. Un vizio, un tic, un qualcosa che insieme al guardare ripetutamente l’orologio senza poi mai vedere l’ora, era un marchio di fabbrica che lo contraddistingueva, un qualcosa di molto suo.

Al sì, ai baci e agli abbracci, al conto rimandato due volte perché non c’era la lucidità per chiederlo e nemmeno ovviamente la voglia di interrompere una tale magia, gli tornò in mente il suo orologio, messo per l’occasione, indossato per un motivo speciale.

Quando dalla termosfera nella quale orbitavano scesero quanto meno sulla troposfera, a 15 km dalla Terra, si slacciò il cinturino e con un gesto netto e deciso tirò verso destra la rotella. Fermò le lancette sulle 22,42 e appoggiò delicatamente l’orologio sul tavolo mettendolo in direzione di lei.

Lo guardò senza aver capito bene il gesto e gli chiese il perché, la fissò e le disse semplicemente che non poteva fermare il tempo, almeno non poteva fermare quel momento e quelle emozioni, l’unica cosa che poteva fare era arrestare le lancette di quell’orologio comprato poco prima che il destino li mettesse sulla stressa strada. “Rimarranno bloccate su quest’ora, per sempre” le disse, quando lo vedremo ci ricorderà questo momento, perché da ora in poi il tempo che avremo davanti sarà solo nostro e non più di ciascuno di noi.

Erano le 22,43 a quel punto, e Roma emanava un profumo di vita che non avevamo mai sentito prima. 

17 novembre 2015: la storia continua

Gennaio. Ho 6 anni.

Esco prima io, poi mia nonna chiude la porta di casa. Fa freddo, mi copro per bene, il rischio di ammalarmi in questo periodo per me è troppo elevato per non prestare attenzione a ogni minimo dettaglio. Nonostante questo, lei sostiene che imbacuccarmi tutto, o vestirmi come un palombaro non abbia senso, anzi è forse più rischioso. Forse ha ragione lei. Intanto mi tiene per mano, cammino sui sassi del cortile e andiamo verso scuola. Giriamo subito a destra, e poi tutta una salita fino all’ingresso. L’edificio è l’ultimo giù in fondo, per arrivarci dobbiamo passare in mezzo al campo da basket e poi costeggiare quello da calcio, è grande, di terra e ci si gioca in undici. Per me è come uno stadio. Ho la riga da una parte malgrado i capelli non stiano in quel verso ma a casa si ostinano a metterceli. A loro va bene così, a me cambia poco. Si entra a scuola, la prima elementare è sempre un anno speciale e io ho il grembiule blu con il colletto bianco più bello di tutti.

Febbraio. Ho 9 anni.

Chiudo la porta di casa per recarmi in palestra. Dopo un anno di pausa ho ricominciato ad andarci, vado alla Junior 88, i giorni dispari alle 16 sono lì, il giovedì facciamo tempo pieno a scuola e alle 17 ho catechismo. Il martedì invece mi riposo e guardo i ragazzi della 3C in replica su Italia Uno intorno le 18. La raccolta delle figurine va bene, a giugno ci saranno anche gli Europei, quelli del 1992 non li ricordo troppo, mente i mondiali americani di due anni fa li ho stampati drammaticamente nella mia anima. Andremo al mare ancora a Torvajanica, per il settimo anno di fila questa estate, per la prima volta sarà solo per due settimane, le ultime due giugno.

D’altra parte, la terza elementare è importante e non si possono più saltare gli ultimi giorni di scuola.

Marzo. Ho 13 anni.

Chiudo la porta di casa per uscire con i miei compagni di scuola, vedrò Andrea, l’appuntamento è al solito posto alla solita ora. Fra poche settimane andremo in gita all’Isola d’Elba, la prima gita fuori di casa, due notti tutti insieme. Chissà cosa succederà. A me piace Veronica che però è fidanzata con Emiliano. Ovviamente sarei molto meglio io, ma questo lo confido a pochi pur essendone particolarmente convinto. È stato da poco il mio compleanno. Tutto sembra andare per il verso giusto. Gioco a calcio, indosso il mio numero 6, l’unico guaio è che Vieri continua a stirarsi alla coscia.

Aprile. Ho 15 anni.

Chiudo la porta di casa per andare a scuola. Il liceo non mi piace, il primo anno è quasi finito ma dopo diversi mesi continua a non piacermi nulla. Sono un corpo estraneo a tutto questo nuovo mondo onestamente per niente esaltante. Spero finisca presto, il secondo anno sarà meglio. Almeno spero. Poche volte in vita mia, forse mai, mi sono sentito così alienato in un luogo in cui vado oltretutto ogni giorno. Mi fa tutto abbastanza cagare, ma non vedo alternative per migliorare questa sensazione, questo fastidio che mi abita dentro.

Forse vinciamo lo scudetto. Almeno quello. L’ultima giornata giochiamo a Roma con la Lazio, vincerlo a casa mia sarebbe magnifico. La data è il 5 maggio.

Maggio. Ho 19 anni.

Chiudo la porta di casa mentre rientro da scuola. Manca poco, il momento della maturità è quasi arrivato ma l’appuntamento mi tocca molto poco. Sono sereno, almeno per questo discorso. Il mondiale ed Elena della 3°A mi coinvolgono di più. Il resto sono chiacchiere. Porto la macchina, vado in giro, mi sento molto più padrone di quanto dovrei. Sento che si sta per chiudere una fase della mia vita, un periodo tutt’altro che entusiasmante, una nuova parentesi mi attende e sto per cambiare vita veramente. Dopo tanti anni.

Giugno. Ho 21 anni.

Chiudo la porta per andare a Tor Vergata. Non devo fare nulla ma dopo che Fermata verbalizzerà il suo esame andremo con il suo ragazzo e la coinquilina all’Hydromania. Lui mi sta sui coglioni, lei mi piace e malgrado questo impedimento mi sono infilato in un tunnel che non so dove mi porterà. Forse da nessuna parte. Sicuramente da nessuna parte.  Il secondo anno d’università è quasi finito. Il prossimo anno accademico dovrà essere quello della svolta. Inevitabilmente.

Luglio. Ho 23 anni.

Chiudo la porta di casa e salgo in macchina. Sto andando alla festa di laurea della Bionda. Sono campione di tutto da alcune settimane e l’effetto ancora non mi è passato. È un anno diverso, speciale. L’ho capito, l’ho sentito passo dopo passo nell’aria e in fondo lo percepisci quando il corso degli eventi ti sta spingendo, quando il vento soffia dalla tua parte. La Bionda mi terrà il gioco, Antonio anche, nonostante questo mi catechizza da bravo (e vero) amico e mi dice appena arrivato: “Regà ma che cazzo state a ffa?”. Quello che ci sentiamo, penso.

Dormiremo insieme stanotte, tutto il resto non conta. Lo penso anche quando ci chiudiamo la porta alle spalle e le due sono da poco passate.

Agosto. Ho 24 anni.

Chiudo la porta di un ufficio di un palazzone a vetri su Viale Regina Margherita. Sono andato a ritirare il visto per la Cina. Fra un mese sarò dall’altra parte del mondo e riabbraccerò Gabriele dopo sei mesi. Mi chiamano dall’ufficio eventi mentre cerco di guadagnare uno spazio umano sull’autobus. A breve ricomincerò a studiare, lo farò dopo Ferragosto, all’indomani dell’abbuffata che ci attende nel centro di Spoleto. Studio per l’ultimo esame, ossia Storia della Gran Bretagna, ma il testo mi servirà anche per la tesi, il carro da parata per la passerella finale a Tor Vergata è pronto. L’estate è stata piuttosto e inaspettatamente turbolenta, ma le cose si stanno ricomponendo. Fortunatamente.

Settembre. Ho 25 anni.

Chiudo la porta di casa mentre mio papà chiama l’ascensore. Siamo tornati da Parigi da poco ma stiamo ripartendo per Budapest. Poi ci sarà da trovare qualcosa. Lo stage è finito ad agosto, ma sono stranamente fiducioso e ottimista. Di certo ho avuto la conferma di quello che voglio fare nella vita come mestiere e per quello mi adopererò. Sembra tutto andare nel verso giusto. Sembra. Sì perché quando varcheremo la soglia di casa 4 giorni dopo e ci chiuderemo la porta alle spalle di nuovo, sarà l’inizio della fine, o comunque inizierà tutta un’altra storia. Peggiore.

Ottobre. Ho 26 anni.

Chiudo il portone di legno della redazione e mi incammino verso Appian Way, da lì poi prenderò la LUAS per Ranelagh e scenderò a Dundrum. Vado da Giorgia a cena. Sto facendo questo stage, è una bella cosa certo, ma ho la sensazione che troppe situazione grandi tutte insieme non sia ancora pronto a gestirle in maniera adatta. Lo penso perché ne ho avuto già la riprova. Ormai però sono a Dublino, ancora una volta dopo alcuni mesi e tanto è cambiato dall’ultima volta che avevo lasciato Ballymoss Road. È dura, molto dura, ma arriverò fino in fondo. Me lo dico prima che l’altoparlante della LUAS mi avverte che è ora di scendere.

Novembre. Ho 28 anni.

Mi chiudo la porta di un’altra redazione alle spalle, ma questa sta a Toronto e non in Irlanda. Ho registrato e montato il programma per oggi. È 17 novembre e questo blog festeggia i suoi 8 anni. Ha raccontato molte delle storie citate sopra, tutto il possibile nei limiti della decenza e della privacy di questo scorcio di vita, dal 2007 a oggi. Forse viene dall’anno più ricco dal punto di vista dei fatti e dei temi, forse, penso, ha smarrito qualche vibrazione ma rimane sempre vivo, irrinunciabile e libero, banca dati infinita e scrigno di ricordi.

17 novembre 2015, la storia continua… 

Liberamente ispirato ad un post di Alberto Sorge