Il meccanico negro

C’è un punto in Vacanze in America in cui la splendida Antonella Interlenghi, mentre parla con Claudio Amendola, spiega che il suo fidanzato ha dovuto portare la macchina da un meccanico negro. Non nero, ma negro.

Domenica, canale 34 ha trasmesso questo film cult degli anni 80 nel bel mezzo delle tante polemiche surreali di questi giorni e così mi sono domandato se a breve anche questa pellicola verrà riposta in un cassetto perché conserva germi di razzismo, di cui la Interlenghi ne è esponente.

Dopo tutto quello che stiamo vedendo in questi giorni è chiaro come l’immagine degli USA sia in mezzo ad una tempesta rara. Una immagine colpita da ogni lato: Covid-19, Trump, razzismo, proteste, un mix fuori controllo che sta dipingendo un grande paese come un luogo disgraziato.

Resto dell’idea che in tempi di emergenza nulla giustifichi proteste, manifestazioni e cortei. Per me è assurdo tutto quello che stiamo vedendo. Migliaia di persone con o senza mascherine in marcia, vicini, mentre il computo totale degli USA riporta alla voce “vittime” 118 mila, con oltre 2 milioni di contagiati attuali.

Dire che dopo la rottura di un patto sociale, la gente se ne frega del contagio è un po’ una mezza scusa, anche perché in manifestazioni per giuste causa si annidano sempre disadattati e disperati vari, o talvolta gente che vuole sentirsi parte di qualcosa (come sentito giorni fa a Seattle). Peccato che oggi lo stare insieme, il contatto ravvicinato sia la cosa principale da non fare. Se si critica il proprio presidente per le decine di sciocchezze dette, non si può fare una stupidaggine altrettanto grande fingendo che non ci siano pericoli e manifestando tutti insieme.

Le grandi proteste raramente mi hanno appassionato, le manifestazioni che diventano una ondata social invece le osteggio con tutto me stesso. Quanto all’ipocrisia e al finto perbenismo che generano queste battaglie per temi cruciali e purtroppo bruciati stupidamente, provo un fastidio profondo.

Il razzismo è una piaga, un problema grande e reale ma temo che ancora una volta il voler sensibilizzare la gente a certe cattive abitudini, ad abusi di potere e violenze ingiustificate stia diventando l’ennesima occasione persa, gettata al vento quasi subito.

Un esempio? Le polemiche sulle statue, tipo quella di Montanelli qua.

Colombia 2017 – Il ritorno

Quel posto che era stato teatro di un ricongiungimento tanto atteso, diventa otto giorni dopo il palco su cui si consuma il più classico degli arrivederci strappalacrime. La lunghissima fila per mollare la valigia ci toglie oltretutto del tempo prezioso da condividere insieme come scorcio finale. Il momento dell’abbraccio dura relativamente poco e porta in dote con se tutto un suo dolore molto particolare, che chiunque avrà vissuto almeno una volta nella vita in qualche modo. Il volo verso Miami viene riempito proprio con queste righe, queste pagine, cercando di sfruttare il tempo per ricollegare i pensieri e fare un po’ di ordine, ma anche per riassaporare quanto appena vissuto.

Arrivato a Fort Laurdale, l’altro aeroporto di Miami, condivido un taxi e vado in hotel. Miami è stata inondata, ci sono pozzanghere dappertutto ed è chiaro che il maltempo continui a seguirmi senza tregua. Il breve giro serale termina da “Sbarro” per un pezzo di pizza, e qualche rapida occhiata dalla quale traggo alcune sensazioni iniziali: troppa poca luce per strada, semafori che sembrano dimenticarsi dei pedoni, umidità altissima, tanti italiani, ma soprattutto tendenza da parte di chiunque a parlarti in spagnolo direttamente, come se l’inglese fosse un accessorio.

La seconda giornata in Florida è inaugurata da un check-in online complicato (l’ennesimo) ed un incontro con due italiani di Prato alla fermata del trolley blu, il mini-bus gratuito che copre alcune parti di Miami Beach. Mi suggeriscono di camminare per Ocean Drive e Collins Ave, seguo le loro direttive e abbandono l’idea di un salto anche downtown. Faccio una lunghissima passeggiata costeggiando il mare, fra palme, campi da beach volley e gente che sfreccia con bici e pattini. Arrivo fino alla quinta e poi risalgo mentre il sole esce sorprendentemente e quando lo fa picchia anche per bene. Mi infilo in Lincoln Road che decreto come la mia strada preferita e pranzo qui, in un pub irlandese. Mi prendo tutto il mio tempo, anche se vorrei che fossero già le 6 per dirigermi in hotel. La stanchezza c’è, lo scoglionamento non tarda e soprattutto Miami, senza mare è finita lì, in ciò che ho già visto, considerando anche che entrare nei negozi significa consegnarsi alla bronchite per una aria condizionata a livelli inumani. Un classico nordamericano a cui sono ormai abituato.

È proprio mentre mangio il mio panino che dal pub parte una canzone che mi riporta in un attimo a Dawson’s Creek – essendone parte della storica playlist del telefilm – e mi getta addosso un senso di malinconia inattesa e veramente profonda. Tre minuti in cui penso al viaggio che volge alla fine, a quando ci rivedremo, a tutto un subbuglio di emozioni e a quanto in questi anni “ho vissuto”, una frase e un concetto difficile da spiegare ma che so bene cosa significhi per me.

Questo alone mi accompagna per il resto della giornata prima di raggiungere agevolmente l’aeroporto e partire, in orario e con tanto di compagnia italiana al fianco e Jennifer Lopez come hostess. La pastiglia mi fa effetto intorno metà viaggio e di fatto mi fa dormire fino alla fine. Piove anche a Madrid e chiudo l’en plein in modo perfetto, incrocio le dita e spero che il clima di Roma non mi tradisca. Anche perché, quando avrò raggiunto Fiumicino, il viaggio sarà finito, veramente finito, ma non le emozioni e tutto quello che ho visto, sentito e annusato. Queste cose infatti, sono doni che non svaniscono quando i carelli dell’aereo toccano terra. 

CONTINUA

NYC16

Valla a spiegare New York. Ci provo mentre aspetto di lasciarla, con l’orario di partenza che continua a cambiare e a essere posticipato, ad ora, 20.05 di Manhattan dovrei partire alle 22:01, oltre due ore di ritardo sulle 19:50 previste.

Me la sono goduta più di quanto immaginassi e l’ho apprezzata e vissuta in modo diverso rispetto ad undici anni fa. In primis perché vivo da queste parti ed essere abituato a questo contesto aiuta, poi perché era la seconda volta e quindi non c’era l’angoscia di volere e dover fare tutto necessariamente, ma un senso di serenità diverso, un vivere il tempo in modo differente e più rilassante. Di certo avere anche 29 anni (quasi) e non 18 e aver visto tanto altro nel frattempo, in questa decade abbondante , ha il suo peso. Essere da soli è sempre uno status speciale nei viaggi, a New York è relativo perché c’è talmente da fare e vedere che a volte ti dimentichi con chi stai, io ad esempio non mi sono annoiato per un singolo secondo, cosa che in qualche modo è sempre avvenuta in viaggi in solitaria del passato.

Onestamente ho pianificato tutto giorno per giorno, lasciando spazio a improvvisazione e cambi, eppure, malgrado tutto, ci sono stato dentro in maniera impeccabile, come non mai. Ho girato per la città con grande autorità, non so se sia il termine adatto ma mi viene questo, dopo poche ore tante cose mi sono tornate in mente e con la mappa davanti di Manhattan tutto mi è sembrato molto più familiare di come invece lo ricordavo.

New York è un mondo indubbiamente a parte, non paragonabile e non possibile da mettere in categorie. A me, onestamente è l’unico posto al mondo che esalta veramente, come niente e nessuna altra città. Times Square di sera ti travolge sempre come fosse la prima volta e ci sono passato in continuazione, come un bambino attirato dalla luci del Luna Park, perché tante luci così le vedi solo in quel pezzo di Manhattan, intorno la 42th.

Io non so cosa abbia di speciale, forse il clima, l’aria che respiri, il fatto che sai di essere al centro del mondo, come quando cammini per Wall Street e sai che lì si muovono i soldi che fanno letteralmente girare il mondo. E poi non lo so, vedi i gay che si baciano per strada, i matti sotto lo metro, i topi che camminano sui binari, gli afro che ballano per conto loro, le bandiere a stelle e strisce ovunque, negozi di una grandezza a volte inutile e ingiustificata. Sì, è tutto big ma non è solo quello. È il futuro, ma nemmeno tanto, l’evoluzione, o il voler fare le cose in modo semplicemente diverso.

Ho camminato tanto, ma il bello do NYC è proprio quello, fare su è giù, e la Fifth Ave rimane un piacere calpestarla. È stato bello attraversare Central Park all’imbrunire, con un po’ di neve qua e là, vedere St Patrick di notte e di giorno, tornare sul ponte di Brooklyn e camminare ammirando lo skyline della City. Ho visto gente pattinare al Rockfeller center, con tanto di proposta di matrimonio nel mezzo della pista all’improvviso. Ho sentito uno russare chiuso nel gabinetto di un bagno del Columbus Circus Mall, ho incontrato Cristina, serba di Belgrado che vive a Copenaghen e ce l’ha con i danesi, ho scoperto il Whole Food Market che è stata la mia svolta alimentare. Una salvezza unica. Ho girato 5 giorni con gli occhiali, sempre e comunque per non perdermi nulla, ho vissuto insomma NYC in HD.

Ho incontrato anche il frocio cinese. Sì, lo voglio definire così, le cazzate e l’ipocrisia la lascio agli altri. Fosse stato gentile avrei detto gay, avendo rotto i coglioni lo chiamo frocio. Perché ha dato fastidio quando era uno sconosciuto e non mi ha fatto godere il Guggenheim come volevo, è diventato pesante quando ha dichiarato la sua omosessualità gratuitamente. Dopo che mi ha stretto il braccio, l’ho guardato e ho pensato solo: “Rifallo ancora e ti faccio male. Aspetto che prendi lo zaino, ti aspetto fuori e ti lascio per terra”.

Già il fatto che dire “Parlare del Papa è noioso” dopo 5 minuti che dialogavamo me lo aveva fatto etichettare come inopportuno, andando avanti è diventato un cagacazzi. “Non so se tu sei gay”, “No, non lo sono”. A mai più, anche perché la mail che mi ha chiesto prima di dichiararsi è ovviamente sbagliata, quindi scrivi pure che ti risponderò sicuro.

New York è anche shopping, non necessariamente quello dei grandi negozi ma soprattutto quello dei posti come il Century 21st o Macy’s. Mi sono comprato di tutto, anche perché cose del genere a prezzi di questo tipo a Toronto te le sogni. Un orologio, una cravatta, due maglioni, due camicie, le cuffie (credo il paio numero 48), tutto il possibile insomma anche perché una delle peculiarità di NYC è quella di farti credere che tutto sia possibile, tutto alla portata.

In qualche modo è il posto dei desideri. E non a caso, l’ultima sera, camminando per la città con un po’ di musica in sottofondo, cosa che faccio dappertutto per godermi il posto con la base che decido io, è partita random  “Il meglio deve ancora venire” mentre lasciavo il Madison Square Garden e mi dirigevo verso Times Square.

E io c’ho voluto credere, almeno per qualche secondo, anche perché se non sogni un po’ nella città dei sogni dove altro devi farlo?

 

A presto NYC,  a presto…

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Chiudete le valigie, si va a New York!

Una delle ultime sere a New York, uscendo da casa di Tania e Pierluigi, quest’ultimo disse a me e ai miei genitori, che finita la scuola sarei dovuto andare lì, nella Grande Mela, per studiare, per aprirmi a nuovi orizzonti ed immergermi in un mondo di opportunità e dinamiche completamente diverse dalle nostre. Risposi sorridendo e con una battuta,  dissi infatti che un giorno sarei tornato a New York, magari per lavorare al NY Times.

C’è un qualcosa di ricorrente in episodi che avvengono nella mia vita, non so se chiamarlo fil rouge sia corretto, eppure mi capitano cose strane, altre invece un po’ scritte, come se in fondo dovessero succedere.

Sto tornando a New York undici anni dopo quella fugace conversazione sulla soglia della porta di casa e lo sto facendo perché sono effettivamente sbarcato da questa parte di mondo per fare quel mestiere. Certo, non starò al NY Times e nemmeno a Manhattan, ma sto al di qua della frontiera a lavorare in una tv. L’avevo sparata volutamente grossa, ma se poi vai a scavare, sotto sotto, lontanissimo non sono andato, almeno nei contenuti specifici.

Domani vado a New York, e già questo basta e avanza. Il post potrebbe finire qui, con un punto successivo alla parola numero 211. Torno in uno dei due posti in cui volevo tornare in vita mia e penso che farlo dopo più di un decennio sia una porzione di tempo giusta.

Era il giugno del 2005 quando insieme ai miei genitori attraversammo l’oceano per la prima volta, il 17 giugno, il giorno prima ero tornato da Milano stravolto ma contento, avevamo vinto la prima coppa Italia con Mancini, quel successo che inaugurò un periodo incredibile, e a quell’entusiasmo se ne sommava un altro ugualmente potente, il primo viaggio con destinazione la terra a stelle e strisce.

Ho diversi ricordi di NY ma molti meno di quanti potrei averne. Non so come mai ma la mia memoria scivola inspiegabilmente su quei giorni, ci sono dettagli e luoghi che ad esempio ricordano con molta più precisione i miei genitori di me. Ignoro completamente il motivo, forse ero troppo dentro, troppo coinvolto che non sono riuscito a scattare molte immagini mentali durature. Ricordo, ma non troppo, e per me è una notizia sconcertante.

Dare una bella mano di tinta a certe memorie potrebbe aiutare anche se non farà caldo ma freddo, e sarò da solo e non in compagnia.

Questo viaggio è nato per caso, all’improvviso. Ci ho pensato una domenica pomeriggio ed il giorno dopo avevo fatto tutto. Mentre mi domandavo se Toronto avesse almeno una cosa positiva, ho trovato la risposta: sì, è ad un’ora e mezza di volo da NYC, ecco, andiamoci allora.

Cinque giorni non sono troppi ma bastano, soprattutto se sei al secondo giro, e sarà interessante vedere la Grande Mela vestita di inverno, così come fare quello che non era stato possibile 11 anni fa, come ad esempio vedere il Guggenheim.

Da quando c’è questo blog, e ho iniziato a scrivere anche sui miei viaggi, mancava un post. Avrei voluto avere il blog nel 2005 per scrivere “Chiudete le valigie, si va a New York!”. Ho dovuto aspettare invece parecchio tempo, ma spesso la vita una seconda chance te la dà e ora, finalmente, fra i tanti racconti di viaggio ci sarà anche questo.

E sì, perché domani si va nella City, nella capitale del mondo, in quel posto in cui ti senti al centro e tutto il resto è periferia. Domani è NYC.

E allora, chiudete le valigie, si va a New York!

Hey there, Delilah

What’s it like in New York City?

I’m a thousand miles away

But girl, tonight you look so pretty

Yes you do

Times Square can’t shine as bright as you

I swear it’s true

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