La bolgia di Belfast (Parte 3)

 

Insomma, vi ho raccontato il sabato di Belfast contraddistinto da problemi, difficoltà e sfortune di vario tipo, ma la capitale nordirlandese mi ha saputo regalare anche una bella domenica.

Dopo aver incontrato finalmente il proprietario dell’hotel mi sono fatto consigliare il modo migliore per raggiungere i quartieri dei murales, vero punto di interesse di Belfast. Il suggerimento è stato semplice: lascia stare i mezzi, vai a piedi. E così, senza pensarci troppo, mi sono diretto verso la zona ovest della città, quella che si snoda intorno a Shankill Road.

Già da Shankill Parade ho iniziato a scorgere i primi murales del quartiere protestante, dove si vedono Union Jack appese ad ogni palo della luce e dove una casa su cinque ha sulla parete un’opera d’arte vera e propria. Queste zone sono infatti dei piccoli musei a cielo aperto, e fa molto effetto vedere la classica casa britannica con delle gigantografie spettacolari sul retro.

In queste stradine c’è poco da notare, anzi, sembrano zone disagiate e malfamate ma ad ogni svolta c’è un murales, e qui si trovano quelli più cattivi e violenti che ritraggono soldati mascherati o militari che impugnano fucili con slogan chiari: siamo britannici.

Mi ha fatto quasi sorridere l’angolo in qui c’erano enormi immagini dipinte della regina Elisabetta, mentre non mi ha stupito scorgere il club di tifosi dei Rangers, la squadra per antonomasia protestante di Scozia.

Lanark Way mi ha condotto invece nel quartiere adiacente, quello cattolico e dopo aver attraversato un grande cancello, che una volta divideva le due aree, mi sono ritrovato su Springfield Road: un altro mondo. Bandiere irlandesi, croci, verde, l’altra anima della città diversa in tutto e per tutto. Anche i murales sono diversi, belli, ma con significati differenti essendo più per i diritti civili e per un mondo più giusto. Non mancano però i riferimenti ai decenni di battaglie, e l’attrazione per i turisti rimane il ritratto di Bobby Sands morto in carcere in seguito ad uno sciopero della fame indetto per protestare contro il trattamento dei detenuti repubblicani.

Due ore di passeggiata in mezzo a degli scenari insoliti e stupendi prima che uno spicchio di sole mi riscaldasse per la prima volta. Tornato in centro, sono andato verso il City Side, un shopping centre dove ho potuto trovare il mio negozio preferito.

Ho preso due polo della Slazenger a 8 sterline e sono tornato indietro, ho comprato la bandiera, il magnete per il frigo e considerando che le mie gambe non ne potevano più per la fatica, la neve e gli scarponi ho anticipato il ritorno. Non ho preso il treno delle 19 bensì quello delle 16 che ha comunque ritardato di una mezz’ora. Alle 18.50 ero nuovamente a Connolly Station orgoglioso della mia avventura, felice di averla vissuta in solitaria e consapevole di aver visto un posto veramente particolare, non la metà dei sogni ma un luogo carico di significati.

 

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P.S. Mi sono rimasti 2,76 pounds, li ho messi nel cassetto, a portata di mano. Mi serviranno quando dovrò prendere il 500 dal John Lennon Airport al centro città…

La bolgia di Belfast (Parte 2)

 

Finalmente a bordo del 61 raggiungo il mio hotel, al 17 di Cavenhill Road, periferia nord di Belfast. Neve ovunque, sembra Ortisei. Apro il cancelletto e davanti alla porta trovo un foglio con scritto sopra il mio nome. Lo apro ed inizio a leggere. È un messaggio da parte dei proprietari che si scusano per non essere presenti e mi danno le indicazioni per raggiungere la mia camera.

Codici, porte, scale, diventa un quiz-show ma alla fine raggiungo la camera 12, la mia. Sistemato il bagaglio e dopo quindici minuti di relax sul letto riparto verso l’Ulster Museum. Scopro subito che il 61 non passa mai nemmeno nell’altra direzione e vado a prendere l’1A in una stradina adiacente ed in 10 minuti arrivo nuovamente davanti la City Hall. L’autista mi consiglia di prendere l’8A per il Museo ma io preferisco camminare e così mi imbarco in una delle più grandi scarpinate di sempre, superiore anche a quella del Palace di Abu Dhabi.

Arrivo all’Ulster Museum e mi fiondo nella parte legata alla storia nordirlandese, una sezione che racconta dettagliatamente i Troubles fra protestanti e cattolici. Mi immergo nella visita e dopo un’ora e mezza devo abbandonare il museo considerando l’imminente chiusura.

A quel punto decido di suicidarmi e scelgo di arrivare a piedi dall’altra parte di Belfast per visitare il Waterfall e soprattutto il quartiere dedicato al Titanic. Un’ora di cammino e mi ritrovo lungo il fiume Lagan, attraverso ponte Queen Elizabeth e vado verso l’imponente struttura dedicata alla celebre nave. Sono solo, non c’è nessuno, sono le 18 di sabato sera e la città è vuota, quasi spettrale. Il freddo non molla la presa e finito il giro nella parte nord ovest della città, decido di tornare in centro per cenare in qualche pub. Non ne trovo mezzo, se non una folle e poco raccomandabile osteria in una stradina larga 20 centimetri e lunga 3 metri.

Sono le 19.15 e non c’è un’anima, trovo solo sparute gang di teen-ager urlanti in giro che mi mettono anche una certa agitazione. Nel frattempo ricomincia a nevicare. Ho fame, ma tralasciando i fast food non si trova un posto in cui sedersi e mangiare qualcosa. Vado ad aspettare nuovamente il fottuto 61, decido di tornare verso l’hotel, ma dopo mezz’ora di attesa il bus non passa, il freddo mi sta congelando e la neve mi ha già imbiancato. Mi incazzo e riparto, con le gambe demolite dalla fatica, mi dirigo verso l’albergo. Dopo 500 metri però mi perdo. Cerco di fermare un taxi ma nessuno mi si fila, le maledizioni che indirizzo al 61 non sono ripetibili, mi ritrovo a Peter’s Street e non so più che fare.

Ho tutto: fame, sete, sono stanco, non trovo l’hotel, non trovo un modo per tornare. Fermo l’ennesimo taxi ma ad un certo punto arriva lui: il sosia di David Cameron che dall’alto del suo taxi-pullmino mi chiede se mi sono perso. Gli dico di sì. Lui si fomenta, mi esorta a salire a bordo, mi riporterà a Cavenhill Road. Non si vede più nulla, la bufera di neve avvolge Belfast ed io tratto il prezzo con il tassinaro che è uno serio. Con tre pounds mi porta in albergo. God bless him.

Sono le 20, ceno con i biscotti comprati per la colazione dell’indomani.

La bolgia del primo giorno a Belfast volge fortunatamente al termine.

(CONTINUA)

 

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La bolgia di Belfast (Parte 1)

 

Poteva essere una bolgia e così è stato. Parlare ora di Belfast mi risulta quasi difficile, semplicemente perché dovrei cercare di riordinare un po’ tutto: fatti, persone, situazioni. Una cosa è certa, due giorni, mille avventure. Il fatto di dover comprare i biglietti cinque minuti prima della partenza è stato un ostacolo superato grazie alla mia organizzazione, riguardo al viaggio in treno che è durato un’ora in più del previsto potevo farci ben poco. Abbiamo perso 40 minuti fermi in mezzo alla campagna irlandese senza un motivo e senza un avviso prima di riprendere la marcia e superare il confine.

Belfast mi ha accolto con un cielo grigio e con tanta neve ai lati delle strade, la sera prima c’era stata una vera e propria bufera. Dopo aver visto la City Hall, sono entrato a St. Anne Cathedral, molto bella e migliore della vicina San Patrick. Chiuso il mini tour ecclesiastico, sono andato a pranzo da Burger King. Pago il menù con 50 euro ed il commesso mi dà ovviamente il resto in sterline, precisamente 12 pounds. Lo guardo e con molta educazione gli faccio notare l’evidente errore, anche perché 34 euro per un menù mi sembra un po’ troppo.

Sistemato l’intoppo, mangio e vado a prendere il bus numero 61 per recarmi in hotel a fare il check-in. Dopo 30 minuti di attesa, con un vento gelido che mi pervade in ogni angolo, salgo su un autobus fermo lì davanti a me per chiedere informazioni all’autista.

Quest’ultimo mi conferma che devo prendere assolutamente il 61 e mentre esclama tutto ciò, vediamo il maledetto 61 affiancarci e superarci. Avevo intuito che l’autista era un tizio tendente al fomento, ma non immaginavo fino a che punto. Superati dal bus mi dice di rimanere a bordo, di non pagare il biglietto e soprattutto esclama: “Come on, let’s try to catch him!” (Forza, proviamo a prenderlo!) Mentre esclama questa frase, mi esalto e parte l’inseguimento. Mi chiede da dove vengo e qual è la temperatura a Roma ora, fino a quando il 61 imbocca una strada e lui deve per forza girare. Si ferma al centro di un incrocio e mi fa scendere, mi carica e mi incita all’inseguimento che per forza di cose dovrà proseguire a piedi.

Scendo e inizio a correre con il classico abbigliamento da podista: piumino, sciarpa, cappello, scarponi, jeans e zaino in spalla, tutto ciò in mezzo alla neve, una prova tanto estrema che al confronto la tremila siepi è un giro a passeggio con il cane a Villa Borghese.

Inizio a correre, schivo qualunque cosa e non perdo di vista l’obiettivo, vedo il bus che svolta a sinistra ma continuo a correre, ho già il fiatone come se avessi fatto 5 km e decido di fermarmi, non ce la farò mai. Mi blocco 10 secondi, poi penso alla rimonta in Coppa Uefa contro lo Strasburgo nel 1997 e mi rifomento. Riparto, non mollo. Giro l’angolo anche io e vedo un semaforo, è rosso, c’è traffico e l’autista è bloccato. Sorpasso il 61, giro ancora e vedo una fermata, leggo la tabella e mi accorgo che risulta anche questo numero, lo aspetto. Il bus mette la freccia ma solo per superare una Clio, non si ferma e mi risorpassa, ricomincio a corrergli dietro.

Ormai è un duello, una sfida entusiasmante perché è troppo estrema e non voglio perderla. Lo recupero, vedo un’altra fermata e arrivo prima di lui. Il 61 si ferma, io sono ad un soffio dal perdere contemporaneamente bronchi e polmoni. L’autista spegne il motore, apre lo sportello della sua postazione e scende. Me lo guardo e mentre provo a respirare gli dico subito un bel “Mortacci tua” per rompere il ghiaccio, poi gli chiedo il perché della sua uscita e mi fa notare che quello è il capolinea…

Queste sono state le mie prime 4 ore a Belfast.

(CONTINUA)

 

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