Il Tour dei Balcani: Mostar e il suo ponte

All’hotel Villa Globus (lo raccomando senza dubbio) aspettano soltanto me. Il padrone è un uomo sulla quarantina, classica faccia da slavo ma disponibilità esagerata, mi spiega tutto, mi mostra la camera ed è così gentile da cambiarmi le mie Kune in Marchi. Archiviato il check-in mi suggerisce il posto in cui andare a mangiare, sollecitandomi con i tempi per evitare la beffa di rimanere a stomaco vuoto. Dopo tre minuti sono già in strada, svolto a destra e dopo 20 metri sento gridare “Matteo! Matteo! Matteoooo!”, ai primi due tentativi non mi volto, mi dico anche “Chi cazzo potrà essere mai a Mostar alle 22.30 che mi conosce e mi chiama? Nessuno…”, tiro dritto, ma al terzo tentativo mi volto e vedo il proprietario dell’albergo seduto davanti ad un bar che beve e mi dice che per il ristorante la direzione da seguire è quell’altra. Lo saluto, lo ringrazio per l’assist e accelero il passo, entro nella città vecchia, scorgo il famoso ponte e prendo posto nella trattoria suggerita. Il fratello bello e giovane di Ibrahimovic mi serve, ascolta le mie richieste e mi porta un piatto di fantastici ćevapčići con tanto di pita. Sarà la fame, l’entusiasmo, la paura scampata di non poter cenare ma mi strafogo come fossi Taz Mania. Queste salsiccette tipiche del posto mi fanno impazzire, sono fomentato a un punto tale che vorrei girarmi, guardare gli altri clienti e dire “Oh, ma avete provato sti cosi qui?” Mi trattengo, finisco tutto, pago appena 6 euro e passeggio con attenzione per evitare di andare lungo sui ciottoli della strada. Mezzanotte è scoccata da un pezzo, Mostrar by-night mi intriga, perché regala un colpo d’occhio suggestivo, ma intanto vado a letto già consapevole del percorso che dovrò fare il giorno dopo.

Durante la notte un tremendo temporale si abbatte sulla città, la mattina successiva fortunatamente splende un sole tiepido. Mi sveglio e sento come un ago piantato sulla gola, avrò dormito a bocca aperta, penso, (spero più che altro), mi tracanno un paio di bottigliette d’acqua, faccio colazione nei caratteristici e deliziosi pakara (forni) e capisco che è mal di gola, comprendo che fondamentalmente si potrebbe mettere male e le prime maledizioni vanno ovviamente all’aria condizionata del pullman del giorno precedente che malgrado tutto, nonostante la giacca indossata, ha colpito facilmente il bersaglio. Mi infilo attraverso la città vecchia, un vero gioiellino, patrimonio dell’Unesco come il famoso ponte, incontro dei veronesi e ne approfitto per farmi scattare delle foto, subito dopo visito il museo relativo al ponte e poi lo percorro calpestando un pezzo di storia recente, uno dei simboli più vivi del conflitto jugoslavo. La Neretva che scorre sotto è verde cristallo, color bottiglia, ma emana un notevole senso di purezza. Visito la mostra fotografica sulla guerra a Mostar e poi mi imbatto in Nino, 22enne bosniaco che gestisce un mini bar sopra il ponte. Parliamo di diversi argomenti e mi chiede di Balotelli che sta passando al Liverpool, squadra per cui dice di tifare. Concordiamo sulla grandezza unica della finale di Istanbul e dopo un po’ lo saluto in attesa che uno dei tuffatori si lanci dal ponte dopo aver racimolato i 25 euro necessari (offerti dai visitatori) per buttarsi. Lentamente scendo verso il fiume, qualche scatto, immergo la mano nella Neretva e poi non riesco a strappare un buon prezzo per un paio di Nike a un mercato nei paraggi. Torno indietro, visita alla casa turca e poi ad una moschea nelle vicinanze dell’hotel. Come in altre costruzioni di questo tipo, affianco alla moschea stessa c’è un piccolo giardino con delle tombe dei civili morti durante la guerra, uno spauracchio che aleggia ancora in qualche modo, soprattutto quando percorro il centro e alzando gli occhi vedo decine di buchi notevoli sui muri di alcuni edifici. I segni ci sono, le ferite sono diventate cicatrici ma spazzare via tutto è difficile senza dubbio, anche perché nessuno può dimenticare, una pietra del vecchio ponte su cui c’è la scritta “Don’t forget ‘93” lo testimonia. Saluto i proprietari dell’albergo, il signore più anziano mi chiede di Pjanic, e come successo con altri bosniaci, ripeto che per quanto a loro possa sembrare assurdo un altro loro connazionale, Lulic, è entrato nella storia di Roma per aver deciso la partita più importante di sempre, il derby di coppa Italia dello scorso anno.

Riprendo il trolley e raggiungo la stazione dei pullman, Mostar meritava una visita, era un passaggio obbligatorio, lo so e me lo ripeto, sono contento di averla respirata e di aver immortalato quel punto così caratteristico. Anche l’impatto con la Bosnia è stato estremamente positivo, la gente cordiale, il sole caldo, i negozi e le botteghe che ti conducono allo Stari Most ti riportano indietro nel tempo. Compro il biglietto per Sarajevo, mi attende il viaggio più breve di quelli programmati, 136 km, poco meno di tre ore e sarò nella capitale, nella città simbolo della guerra, quella che l’ha vissuta profondamente, il posto che senza dubbio mi attira in un modo diverso dagli altri.

(CONTINUA)

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