A chi vuoi più bene?

25 aprile 2015

A volte capita che ci si ritrovi a rispondere a delle domande spiazzanti e difficili. Altre volte invece la domanda può essere imbarazzante, in alcuni casi la risposta non esiste, un po’ come quando ti chiedono se vuoi più bene a una nonna o all’altra.

In questi giorni mi sono posto un interrogativo del genere, non so perché ma mi è venuto quasi spontaneo mentre salivo le scale mobili a Queen Station e la domanda era la seguente: “Ma io voglio più bene a Mancini o Mourinho?”

La risposta mi ha perseguitato fin quando, dopo mille ragionamenti e diversi ripensamenti, ho in fondo trovato una via democristiana al quesito e sono arrivato ad una semi-conclusione.

È impossibile scegliere, però ho provato ad analizzare la vicenda per gradi e sotto diversi aspetti e forse, se metto tutto su una bilancia, tipo quella che usavano a Forum su Rete 4, il piatto pende dalla parte di Mancini. Sì, vi sorprenderò, ma è la realtà.

Mourinho ha reso reale quello che sognavamo da una vita, ma non pago della Champions ha voluto condire la portata con uno scudetto e una coppa Italia pochi giorni prima, così, per pennellare una pagina unica nella storia nostrana e del calcio italiano. Mourinho è stato un uragano durato 23 mesi, una di quelle storie che sono una raffica di emozioni potenti in rapida successione. Ha alzato il livello di Mancini e ha portato tutto e tutti ad un gradino superiore, quello della perfezione. L’amore, altro che affetto, è stato dirompente ed è divampato subito, ma al tempo stesso ha bruciato tutto forse troppo rapidamente. Se ne è andato da trionfatore assoluto, anche se vedere il tuo eroe lasciare tutti un’ora dopo che si era entrati nel mito è una scena che avremmo evitato.

Tornerà? Non lo sappiamo. Forse no, spesso lui lo auspica con una furbizia inarrivabile, di certo è nel tempio dei grandi. Per me è il condottiero per antonomasia, spavaldo e invincibile, amato alla follia e osannato come solo ai numeri uno può capitare. Ancora oggi, la foto del mio desktop ritrae lui al Camp Nou, solo al centro del campo, prima del riscaldamento. A sfidare l’arena, a caricarsi, con lo striscione Remuntada che campeggia sul suo sfondo.

 

Prima di lui però c’è stato l’altro. E in fondo, l’Inter di Mourinho è figlia di Mancini. L’allenatore che ho visto sulla panchina dell’Inter per più anni, da metà liceo, a metà università. È lui l’uomo della svolta, l’uomo che ha riportato una coppa a casa dopo sette anni di digiuno, quando il declino sembrava ormai terminale. È lui, allo stesso tempo, che ha riportato lo scudetto a Milano dopo 18 anni realizzando la mia prima ambizione esistenziale. Quattro anni di vittorie, di mentalità nuova e sette trofei. La nostra storia recente è cambiata con questo allenatore che da piccolo sognavo di vedere con la nostra maglia e non con quella blucerchiata.

Mancini andò via perché fu Moratti a voler cambiare rotta. Le cose non si chiusero bene, però la vita è fatta anche di colpi di scena. Fortunatamente.

Per questo, il suo ritorno a novembre, è stata la cosa che ricordo con più affetto ed entusiasmo del 2014. Perché tornare è stata una scelta rischiosa, di cuore e di stimoli. Perché a noi le cose semplici non piacciono e le sfide ci esaltano, e questa è veramente grande. Se Mancini riuscirà a riportare l’Inter in alto e a far riaprire ancora una volta la bacheca di Corso Vittorio Emanuele, triplicherà il nostro (già enorme) senso di gratitudine e affetto nei suoi confronti. Sì perché per tutti noi lui ha un credito illimitato e tutti noi riponiamo in lui una fiducia anormale in Italia. Tutti sappiamo che siamo nelle mani giuste e che è solo questione di tempo, una idea radicata dentro quasi ferocemente e che non è evaporata nemmeno dopo i passi falsi e le tante difficoltà.

È indiscutibile, gode della nostra totale e incondizionata stima e io sarei felice se fosse proprio lui a riportarci lassù. Perché a me i ritorni sono sempre piaciuti e le storie d’amore così mi scaldano. Mi esaltano. E Mancini è protagonista di tutto questo. Ha detto: “Ok, riproviamoci. Sarà dura, ma sarà fantastico.”

Ecco perché ti voglio bene (ma sul serio proprio), perché abbiamo avuto il coraggio di risceglierci e quello vale più di tutto. Perché in fondo sono un romantico e le storie così mi fanno impazzire.

Io voglio un po’ più bene a Roberto Mancini. 

Il giorno della Restaurazione

Ero all’Hotel Mara di Ortona quando mio padre entrò in camera con la Gazzetta dello Sport appena comprata che titolava MancinInter. La sera prima era stata ufficializzata la trattativa dell’estate, Zaccheroni lasciava il posto al tecnico di Jesi chiudendo una lunga telenovela in cui la volontà di Moratti fu decisiva. Aveva voluto Mancini all’Inter diverse volte, ci andò vicinissimo nel novembre del 1996 ma poi il numero 10 doriano rimase a Genova. Chiusa la carriera da calciatore, l’ex presidente nerazzurro cercò di portarlo a Milano da allenatore e nel 2004 riuscì finalmente nel suo intento. Mi svegliai e l’occhio finì subito sul titolone della Gazzetta, iniziava il primo regno di Mancini, uno degli allenatori più longevi nella storia dell’Inter e anche uno dei più vincenti.

Quattro anni di successi, un crescendo iniziato con la coppa Italia al primo tentativo, un successo che spezzò un digiuno di 7 anni, quando il declino sembrava ormai terminale. Quella sera è uno dei ricordi più vivi e belli che ho. Un trofeo che aprì una nuova storia in un Meazza completamente in delirio. Il resto, poi, è storia. Calciopoli e quant’altro, gli scudetti di cartone, di plastica, di ottone, vinti senza avversari, le 17 vittorie di fila, la Supercoppa strappata alla Juve al Delle Alpi con una giocata di Veron (ma pure quella era di cartone o no?), record di vario tipo, il cardiopalma a Parma, Villareal, passando per l’Euroderby e la scazzottata di Valencia.

Torna Mancini e io sono contento, felice in un modo quasi esagerato. È la notizia del 2014 che ha suscitato in me l’esultanza maggiore: stamattina giravo per casa e fremevo per la gioia, dopo aver appreso il tutto da Twitter per due ore non sapevo cosa fare, ero talmente esaltato che ho iniziato a pedalare sulla cyclette come se fossi sullo Zoncolan.

Finalmente lo strazio mazzariano è terminato. Finito. Speriamo di resettarlo quanto prima anche nell’animo e negli atteggiamenti. Ora non ci sono alibi e scuse, i giocatori sanno che il parafulmine è saltato e quindi, i primi a finire sul banco degli imputati prossimamente saranno loro. Thohir ha spiazzato tutti, magicamente. Due mosse per ridare fiato e speranza, coraggio ed entusiasmo. Ha liberato l’Inter da un fardello (Mazzarri) lanciando un segnale forte e chiaro: Mancini è una scelta inequivocabile, vogliamo tornare a fare cose importanti quanto prima. Meno male, filippino mio. Avevamo temuto il peggio, una cancrena irreversibile, una situazione scomoda, in ostaggio di contratti e Fair Play Finanziario.

La depressione degli ultimi 15 mesi vive una scossa, potente e inattesa. Non mi stupirei se a breve San Siro diventasse nuovamente uno stadio gremito e con il pubblico pronto a caricare i giocatori. Volevamo un po’ di interismo, volevamo qualcuno che riaccendesse la fiamma delle emozioni ed è arrivato il personaggio più giusto, talmente perfetto che per varie ragioni nemmeno ci speravo.

Mancini, Carminati, Nuciari, Salsano, forse Adani, insomma ritornano tutti. Persone che hanno scritto la storia recente dell’Inter, persone a cui saremo grate in eterno. Tornare non è mai facile, ma ciò che uno ha vinto non si cancella al di là dei risultati che raccoglierà in futuro. Sono felice che questa squadra sia stata riconsegnata a chi ha l’Inter dentro, a chi l’ha saputa riportare in alto, aspettare il derby con la speranza di perderlo affinché Mazzarri venisse cacciato era un pensiero che mi stava togliendo il sonno.

È un po’ il giorno della Liberazione, ma anche della Restaurazione, e per me che sono un nostalgico è fantastico, visto che amo i ritorni sopra ogni cosa. Il nostro Roberto Mancini è tornato a casa, io sono passato al consorzio nel pomeriggio, all’improvviso siamo tornati al 2008.

Che cosa magnifica.

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