“Raccontami domenica 31 maggio 1998”

Ho sempre sperato che qualcuno mi chiedesse di raccontargli il 31 maggio 1998 ma non è mai successo. Chi lo ha vissuto non ha bisogno che ci sia io a rammentarlo, ovvio, chi non sa cosa sia, non ha interesse a saperne di più, ma visto che il blog è mio e ci scrivo quello che voglio, la domanda l’ho fatta a me stesso e quindi devo rispondermi.

“Matteo, ma quella finale scudetto del ‘98?” Che storia, ma prima di arrivarci bisogna raccontare i 450 mila dettagli che intercorrono dall’estate del 1997 a quella domenica di maggio. La corsa agli armamenti inizia sotto l’ombrellone e mentre Seragnoli svuota il salvadanaio per accaparrarsi Fucka, Rivers e Wilkins, Cazzola rilancia e riporta sotto le due torri Danilovic, al quale affianca Rigadeau, Sconochini, Nesterovic e Frosini che ha appena fatto il salto del fosso e al derby d’andata sarà omaggiato dai tifosi avversari con un sacco di denari e chiamato Badoglio.

Le due superpotenze iniziano la stagione consapevoli che dovranno battere sempre l’altra per aggiudicarsi tutto quello che c’è in palio e la prima collisione arriva alla decima di campionato, vince la Virtus e Danilovic si riprende il palcoscenico immediatamente. A gennaio, in coppa Italia, vince la Teamsystem che poche ore dopo superando la Benetton TV metterà in bacheca il primo storico trofeo dell’aquila biancoblu. Danilovic a fine partita dirà semplicemente: “A me della coppa Italia non me ne può fregar di meno, li batteremo quando servirà”. Capiterà. Perché a marzo, a pochi giorni dalla prima storica stracittadina europea, la Fortitudo si porta a casa il derby di ritorno ma nessuno ci fa quasi caso, si pensa alla doppia sfida in settimana. Gara-1 dei quarti di Eurolega, si trasforma nel famoso (N)Euro-derby. L’adrenalina che accompagna le squadre è esagerata e alla prima scintilla divampa l’incendio. Savic e Fucka litigano sotto canestro, si allacciano ma non si mollano, l’italo-sloveno tira una pallonata al virtussino, Abbio reagisce e lo spintona: scoppia la rissa. Entrano tutti in campo mentre Danilovic e Myers si cercano in ogni modo pur di venire alle mani. Tentano di picchiarsi tre volte, il tappo è saltato, e il nervosismo mescolato alla pressione che opprime le due squadre da settimane esplode così. Vince la Virtus, la F scudata chiude con 3 uomini in campo per via delle espulsioni, ma le conseguenze più grandi ci saranno in Gara-2 che si gioca in casa della Teamsystem 48 ore dopo. C’è Danilovic ma manca Myers squalificato. Dante non avrebbe potuto immaginare una bolgia infernale più grande, e mentre il PalaMalaguti ribolle ed è assetato di sangue bianconero la partita scivola via finché la Virtus rimane attaccata alla sfida e piazza il colpo del k.o. nel momento decisivo. Finisce 2-0 la serie, la Kinder vola a Barcellona a giocarsi la sua prima storica Final Four, con i pochi tifosi bianconeri che dal settore ospiti cantano ai cugini: “Vi mandiamo una cartolina!” e di cartoline a Bologna, un mese dopo, ne arriveranno a centinaia.

La Virtus si porta a casa la Coppa Campioni e mentre Messina ricorderà: “Siamo stati i primi ad avercela fatta, non conta chi verrà dopo di noi” rilanciando la sfida all’avversario di sempre, ci si rituffa nel campionato che ha visto la Virtus chiudere davanti alla Fortitudo in regular season. Ovviamente quarti e semifinali sono una formalità, la finale annunciata arriva e si comincia in casa Virtus. Il fattore campo salta subito, vince la F scudata, Gara-2 farà infuriare Seragnoli per le decisioni arbitrali, Danilovic la decide con due liberi sul finale. La terza sfida la Teamsystem la gioca meglio, vince, e si porta a un passo dal tricolore. Titola così anche SuperBasket, “Ad un passo dalla storia”, perché giovedì 28 maggio 1998 sembra essere il giorno per il primo scudetto dell’aquila biancoblu. La partita è la fotocopia di Gara-2 di Eurolega, anche nel punteggio, e la Virtus la tiene in vita prima di vincerla con Abbio che punisce con una tripla un accoppiamento difensivo sbagliato voluto da coach Skansi. Si va così a Gara-5, domenica 31 maggio e si arriva alla partita più importante della storia di Bologna con una statistica che recita: 9 derby giocati in stagione e 619-619 come punteggio totale. Totale equilibrio. Prima della corrida finale, la leggenda narra che Messina non abbia detto nulla ai suoi nello spogliatoio a pochi minuti della palla a due, se non un “Giochiamo un partita da Virtus” che significa resistere con l’orgoglio e la tenacia a una Fortitudo superiore e più brillante a livello atletico.

La Teamsystem scappa via e la Virtus arranca, al terzo quarto guida con un +10 che sembra mettere al sicuro la partita. La V Nera rientra un passo alla volta e Messina sfodera ancora la zona che paralizza l’attacco biancoblu costruendo l’ennesima rimonta stagionale, con la Kinder Band che va anche contro regolamento pur di ricaricare la molla ad un pubblico esausto da un braccio di ferro infinito con i nemici di sempre. Punto dopo punto la Virtus torna sotto e nel finale succede di tutto, succede l’impossibile. A 18 secondi dallo scadere, sotto di 4, Danilovic entra per sempre nel mito, sa che è il suo momento, perché i grandi campioni sono tali anche grazie alla capacità di riconoscere quegli attimi. Decide di scolpire il suo nome nella leggenda e senza più legamenti alla caviglia, diventa immortale con il tiro da 4. Tripla più fallo, Zancanella dice che c’è stato il contatto. Sasha infila il libero, pari. Rivers perde il pallone al possesso successivo ma la Virtus non trova il canestro tricolore e si va ai supplementari ma lo scudetto è già stato assegnato sul tiro di Danilovic. La F si scioglie, il serbo domina letteralmente e regala lo scudetto 14 alla Virtus, mentre Myers in panchina, fuori per falli, assiste al dramma fortitudino. Finisce con Danilovic che fa l’inchino, l’invasione e la gioia del pericolo scampato ma soprattutto la certezza di aver vissuto qualcosa di irreale. Il numero 5 bianconero a fine partita dirà il famoso: “C’è chi può e chi non può, io può!” e piazza Maggiore si colora di nuovo di bianconero un mese dopo, per la prima storica doppietta della Virtus.

Ecco, questo è quello che è successo domenica 31 maggio 1998.

“Sì, ma secondo te, era più forte quella Virtus, quella della doppietta del 1998, o quella della tripletta del 2001?”

Mi rispondo magari il 19 giugno…

Le “Bonittas” e “Top of the Poz”

Belle storie di sport, momenti che riconciliano con la fatica e il sacrificio più puro, racconti che mettono in secondo piano i soldi, e non è un caso se queste parentesi abbiano brillato particolarmente in un week-end senza calcio, senza il mostro che trangugia tutti gli altri sport.

Le ragazze del volley e Gianmarco Pozzecco, due avventure che occupano le prime pagine e hanno riempito il fine settimana senza il pallone bianco che rotola ridando luce a sfere che tendenzialmente volano e passano il loro tempo in aria.

Credo che coinvolgente sia l’aggettivo per etichettare queste due storie, perché le ragazze di Bonitta hanno gradualmente attirato interesse e simpatia tenendo incollati alla tv molti italiani in un sabato sera ancora quasi estivo. Potere delle emozioni che uno sport come la pallavolo sa regalare, soprattutto se in palio c’è l’accesso alla finale e di fronte la Cina, un nome che spaventa già di suo. Eppure, il sogno non si è realizzato, ma mai come stavolta si può dire che l’avventura azzurra al mondiale sia stata comunque da applausi e che le ragazze abbiano avuto il merito di catalizzare attenzione e di uscire a testa altissima. Fra due anni a Rio, ce la giocheremo, e i margini di crescita che ha questo gruppo sono un’assicurazione relativa al tasso di competitività di una squadra destinata a stupire ancora.

Senza calcio, il secondo sport di squadra più seguito, ha goduto di una domenica di totale visibilità. Il campionato di basket è ricominciato, per la prima volta senza Siena, ma soprattutto senza le tre squadre che hanno vinto lo scudetto dal 2005 al 2013, un dato impressionante che evidenzia il dissesto e il disastro della pallacanestro italiana colpita inevitabilmente dalla crisi e da incaute gestioni societarie.

Il primo turno è stato caratterizzato ovviamente dal ritorno di Gianmarco Pozzecco nella sua Varese. Dodici anni dopo è tornato al PalaWhirlpool come allenatore calcando un parquet che lo ha consegnato all’immortalità dopo il successo del decimo scudetto con i biancorossi nel 1999. L’irriverente Poz è tornato in veste di Coach, ma non per questo con un atteggiamento diverso e meno goliardico. A mettere pepe a questo esordio ci ha pensato il calendario stabilendo subito un Varese – Cantù in partenza, un derby intriso di storia e rivalità. Pozzecco aveva promesso che si sarebbe rasato a zero in caso di vittoria e ieri ha dovuto pagare pegno dopo il successo dei suoi ragazzi. Coinvolgente, trascinante, unico veramente, si è ripreso il suo ruolo di idolo indiscusso a Varese e di personaggio massimo nella pallacanestro italiana. L’esultanza incontrollata e divertente a fine gara sotto la curva non può non strappare un sorriso. Uno di loro, dei tifosi e dei giocatori, con i quali ha creato già un’empatia favolosa, conseguenza del suo essere fuori dalle righe, eccessivo ed amabile, anticonvenzionale e per questo esclusivo. Empatia, capacità di coinvolgere, carisma da vendere, la sua diversità da giocatore è rimasta oggi da allenatore e non c’è da stupirsi se i suoi atleti si lanciano sul parquet per agguantare un pallone perso. Il Poz sa entrare nella testa con la sua spontaneità, i puristi avranno qualcosa da ridire, i bacchettoni anche, ma avere un allenatore che è una magica calamita e dice di “aver venduto il culo al Diavolo pur di rivincere uno scudetto a Varese”, non potrà mai essere un fattore negativo.

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Come lui, c’è soltanto lui

C’è poco da fare, spiegare e raccontare certi personaggi è molto più complicato che descriverne altri. Ecco, Predrag “Sasha” Danilovic appartiene alla prima categoria perché probabilmente per farne un ritratto giusto bisognerebbe inventare dei neologismi, degli aggettivi mai sentiti, sarebbe necessario usare perifrasi ma poi uno si renderebbe conto di non averlo celebrato comunque in maniera opportuna.

Forte, anzi fortissimo, intelligente, sufficientemente provocatorio, guascone quanto basta ma soprattutto leader, leader nel senso più profondo del termine, con un carisma forse superiore al suo indicibile talento. Quando pensi a uno del genere la prima idea che riesci a elaborare è il senso di invincibilità che ti dava quest’uomo quando lo vedevi correre sul parquet, prendere il pallone e volare verso canestro.

Non c’è alcun dubbio che sia stato uno dei migliori cestisti europei di sempre, sicuramente il più grande negli anni Novanta, un concentrato di classe e potenza, di rabbia agonistica e voglia di primeggiare, sempre, a tutti i costi. Non ha giocato a basket, ha inventato pallacanestro, ha disputato anni a livelli mai visti prima, in Italia e in Europa.

Massimo Maccaferri nella biografia di Danilovic afferma che Sasha, con le debite e rispettose proporzioni, sia stato il Michael Jordan al di qua dell’oceano: numeri, vittorie e importanza non riescono del tutto a negare questa teoria che si deve considerare di conseguenza più che accettabile.

Racchiudere la sua immagine nel celeberrimo tiro da 4 del 31 maggio 1998 è inevitabilmente riduttivo, ma è indubbio che in quello scatto ci sia l’essenza di Sasha, la capacità di decidere e ribaltare una gara persa, la consapevolezza dei suoi mezzi, il peso della responsabilità di cambiare la storia di una partita e di quel campionato.

Ci sono decine di aneddoti che lo riguardano, per me uno dei più significativi rimane quello relativo alla notte di gara-2 contro Pesaro in finale scudetto nel 1994. Tornando in pullman verso Bologna, dopo una sconfitta pesante, Danilovic non parlò mai, arrivati davanti al Paladozza, quando mezzanotte era passata da un pezzo, si avvicinò al guardiano del palasport e si fece dare le chiavi. Entrò da solo sul parquet dicendo: “Non esco da qui finché non faccio almeno cento canestri ”, una sorta di punizione per la prestazione opaca offerta poche ore prima. Arrivò a casa alle tre di notte e la mattina fu il primo a presentarsi in palestra per l’allenamento. Fenomenale.

Danilovic è stato senza dubbio il più grande giocatore della storia della Virtus, per ciò che ha rappresentato, per quel famoso tiro, per i 4 scudetti vinti ma soprattutto per la Coppa Campioni del 1998, l’anno della famosa “doppietta”, la prima volta della V nera sul tetto d’Europa.

Sprezzante di ogni pericolo, inarrestabile, impossibile da intimorire, vincente, campione dentro ma con quel senso di colpa mascherato quando tu diventi ricco, ti diverti e dall’altra parte dell’Adriatico, a casa tua, i tuoi amici stanno combattendo e i tuoi ricordi vengono distrutti da una guerra infinita.

Ha vinto tutto quello che c’era da vincere, ha fatto parte di quella nazionale jugoslava che era stata costruita per non perdere mai, ha giocato in una delle Virtus più belle di sempre. Ha visto l’America e l’NBA da vicino, è tornato in Europa e ha rivinto ancora. Amava l’atmosfera del derby, adorava i duelli con Myers, la sua vedova nera tatuata sul braccio ha fatto impazzire Via Calori e tutta Bologna.

Domenica è tornato nella sua città adottiva e il pubblico gli ha tributato l’omaggio più grande: la sua canotta numero 5 è stata ritirata per sempre, nessuno potrà più indossarla, perché come lui c’è soltanto lui.

 

Già mezz’ora dopo il suo addio, brusco come i suoi modi, veloce come i suoi assalti a canestro, sotto i portici si discuteva se fosse stato il più grande straniero mai paracadutato in città sottintendendo, ovviamente, il più grande arrivato in Italia. Lo è stato. Per le sue cifre, per il suo impatto sulle gare, per la sua leadership su compagni e avversari, per il suo modo feroce di affrontare le partite e spesso ucciderle.

Carlo Cavicchi

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Felice sotto un canestro

Da alcune settimane sentivo il desiderio e la smania di salire sulla scala, prendere il pallone da basket sopra l’armadio, gonfiarlo e andare a fare due tiri a canestro. Ieri pomeriggio, questa intenzione è diventata tanto potente che ho fatto tutto ciò, mi sono messo un paio di scarpe e alle 17.30 ero dietro la chiesa a giocare per conto mio su un campetto mezzo dissestato dinnanzi ad una canestro piuttosto vecchio, senza retina ma con il ferro che reggeva ancora. Dopo tanto tempo ho fatto una cosa che volevo veramente e che inevitabilmente mi ha regalato un’ora di divertimento, anzi no, di piacere. Volevo giocare da solo, tirare a canestro tranquillo e beato, speravo di non incontrare nessuno o di non condividere quello spazio con qualcun altro e così è stato. Ho posato il mio zainetto vicino ai sostegni del canestro e ho giocato felice e contento. Era tantissimo tempo che non prendevo in mano il pallone da pallacanestro, ma il gusto di mirare il tabellone e iniziare a tirare è un qualcosa che non tramonta. C’è stato un periodo della mia vita in cui giocavo solo a basket, le mie giornate erano in funzione del pomeriggio e della partitella da disputare, era così in terza media e fu lo stesso ai primi anni del liceo. Alle superiori giocai con la mia classe al torneo scolastico, al secondo anno vincemmo il campionato del biennio, l’anno dopo da classica matricola vincemmo anche il torneo del triennio pur essendo i più piccoli. Eravamo una bella squadra, con diversi cambi e soluzioni rispetto agli altri, ma soprattutto avevamo la nostra stella, il buon Alessandro che era il valore aggiunto. Quegli anni erano caratterizzati più dalla pallacanestro che dal calcio, giocavamo tantissimo e mi divertivo. Crescendo ho iniziato a giocare meno, per impegni, per spazi e per quella serie di cose che avvengono mentre diventi grande. Mi sono sempre divertito tantissimo a giocare, resta una delle mie passioni e ieri pomeriggio ho trascorso una splendida ora cosi: un campo vuoto e un canestro, io e il pallone arancione sotto il braccio, chi stava meglio di me? Credo nessuno.

 

Federico Buffa: “Non oso neanche pensare a cosa potrebbe essere la vita senza il basket”.