16 volte Campioni

Siamo campioni d’Italia per la 16esima volta e l’importanza, così come l’unicità del momento, mi riportano sul blog a scrivere.

Sì, l’inizio è identico al precedente post, eccetto per il numero, ma la sostanza è quella, anzi, l’evento è  unico perché per la prima volta in 34 anni entrambe le mie squadre hanno vinto lo scudetto lo stesso anno.

Era il 2 maggio per l’Inter, l’11 giugno per la Virtus, 7292 giorni dopo l’ultima volta, 20 anni fa, mentre preparavo i miei esami di licenzia media e la grande Kinder di Ettore Messina, oggi avversario sconfitto, completava il grande slam nella stagione 2000-2001.

È stato un mese di rarissima intensità quello che sta per finire, alcune situazioni me le aspettavo, altre meno, questo scudetto rientra assolutamente nell’ultima categoria.

Un playoff netto, senza sconfitte, con mezza difficoltà, a Treviso in gara-3, che dicono essere stata la svolta.

Lezione a Brindisi, la squadra rivelazione e poi Milano, la corazzata, il compito impossibile, il potere costituito, aiutata il più possibile dagli arbitri, l’avversario che sogni di battere.

È stata una serie intensa emotivamente, fra il senso di sorpresa, l’attesa, il timore di vivere una illusione e il sogno di compiere l’impresa con tanto di cappotto.

In tutto ciò, avendo ripreso a lavorare con orari non proprio comodi, il mio viaggio di ritorno a casa diventava quello verso la palla a 2 delle ore 20:45.

Poco prima della semifinale con Kazan in EuroCup mi domandai se avrei accettato di uscire ma di vincere lo scudetto, un bivio che nemmeno un pazzo si sarebbe posto vista la forza di Milano. Con i russi sappiamo come è finita, ma con Milano davanti mi è tornata quella folle scelta alla quale avevo risposto senza esitazioni con il tricolore.

È stata una impresa che racconteremo per anni. Forse una delle più grandi della storia della V nera,

contro ogni pronostico, con il fattore-campo contro in semifinale e finale, da terza in campionato, con un arbitraggio indescrivibile in finale, il 4-0 a Milano è roba da tramandare come vittoria di cuore e voglia.

Una squadra con 3 americani, tanti italiani, due giocatori del settore giovanile fra cui un bolognese ed un coach troppo bistratto, in sostanza una squadra di altri tempi, un po’ favola e un po’ film con i rivali che sembrano insuperabili.

Impossibile non farsi trascinare, non rivolgere il pensiero alla partita ogni 10 minuti, non contare i minuti e guardare l’orologio con ansia.

Una serie col groppo in gola, a caricarmi mentre salivo o scendevo le scale della stazione Termini, soprattutto venerdì 11 giugno, mentre tutti pensavano all’apertura dell’Europeo e io correvo per andare a casa e non perdere niente della gara che poteva darci lo scudetto numero 16.

Tante emozioni, anche un filo di commozione ed il pensiero a Djordjevic che non ho mai realmente saputo criticare, forse per il troppo rispetto e l’ammirazione che ho di lui da giocatore. È stato anche il suo scudetto, una rivincita e sono felice umanamente per lui, così come mi è dispiaciuto per il suo addio da fresco campione, un fastidioso parallelismo con Conte.

Abbiamo vinto, è stato splendido tornare a vivere certe sensazioni, a soli 4 anni dal ritorno in A1. Un urlo forte, il pensiero di cosa sarebbe stato con il palazzo pieno, una valanga di ricordi di questi 20 anni, roba grossa, roba difficile da spiegare per chi non sa cosa sia vivere momenti così…giorni da bi-campione d’Italia.

Con la V nel cuore

Io c’ero quella volta lì. Avevo 17 anni, era il maggio del 2004 e in seguito ad una estate drammatica ci ritrovammo in A2 e a giocarci la finale playoff per tornare subito nella massima categoria contro Jesi, con il fattore campo contro.

Andai così al Pala “Ezio Triccoli”, partendo da Termini domenica mattina insieme ad Alessandro, altro virtussino dislocato fuori Bologna per assistere a Gara-1 che perdemmo dopo aver tentato una rimonta disperata nel finale.

Il viaggio di ritorno verso Roma fu però il giro d’Italia. Non essendoci un treno da Jesi verso la Capitale, salimmo sul pullman con i Forever Boys e risalimmo verso Bologna. Arrivati a Casalecchio fummo accompagnati alla stazione centrale da una famiglia di Granarolo e prendemmo l’espresso delle 0.43 per Roma.

Turni per dormire facendo guardia allo scompartimento e all’altro, doppia sveglia puntata per non farci trovare impreparati alla fermata Termini e per non correre il rischio di svegliarci a Reggio Calabria. Fu un viaggio tanto scomodo quanto lungo.

Andò così quella trasferta, negativo fu l’esito di quella serie poiché perdemmo e ci toccò un altro anno in A2. L’anno dopo non andai a Montegranaro ma conquistammo la promozione e da domani saremo nuovamente in campo per tornare in A dopo una stagione infinita e logorante.

Sì, perché nel frattempo lo scorso anno, il 4 maggio, complice un finale convulso e disastroso la Virtus è tornata in A2 e mai dimenticherò il magone di quella sera di 13 mesi fa mentre preparavo la valigia per tornare a Roma e mi veniva da piangere per l’epilogo di quel campionato.

Ho letto una lettera di Valentina Calzoni pubblicata giorni fa su Bologna Basket dal titolo “V come amore”, e un po’ tutti noi ci siamo ritrovati in quelle parole. Soprattutto in quel “noi vogliamo vincere” che suona come l’urlo di battaglia di un popolo che è abituato ad altro. Manca poco.

Noi ci crediamo.

Avevo scritto queste righe il 12 giugno, poco prima che la serie finale con Trieste iniziasse. Volevo pubblicare questo post ma poi mi sono impigrito e non l’ho più fatto, anche a causa di un tempo che scarseggia sempre più. L’ho tenuto da parte e speravo di tirarlo fuori presto, come cappello a qualcosa di celebrativo che fortunatamente mi ritrovo a fare adesso.

Dopo 13 mesi ed una stagione interminabile, la Virtus è di nuovo in A. Questa è la notizia di giornata, e questo è un altro di quei momenti che fra anni mi ricorderò di Toronto, per il coinvolgimento emotivo e per le sensazioni provate.

Una annata di cui porterò tanti ricordi, dallo scetticismo iniziale figlio dell’amarezza ancora non svanita, a quel sentimento che è cresciuto mese dopo mese grazie ad una squadra che ha fatto un miracolo vero nel riavvicinare il popolo virtussino alla sua squadra.

I playoff, ed il percorso nella fase finale, sono stati due punti che hanno creato una sinergia rara fra tifosi e giocatori. Una voglia feroce di arrivare in fondo ed una sequenza di emozioni inaspettate.

La squadra è cresciuta partita dopo partita, un escalation di istanti che hanno fatto maturare i giocatori fino al punto di sembrare veramente imbattibili. Il pubblico si è stretto come non mai, complice il ritorno nel vecchio e amato PalaDozza di Piazza Azzarita, a tormentoni come l’”Amour Toujours” di Gigi D’Agostino, colonna sonora d’annata o alle maglie nere seguendo l’hashtag #allinblack.

Si è creata una magia che ha spinto la squadra fino al successo finale maturato oggi contro Trieste. Un 3-0 secco che lascia spazio a poche chiacchiere, considerando anche l’impresa di sbancare il palasport giuliano dopo che per 22 partite nessuno era uscito da lì con un successo in tasca.

Ho seguito i playoff con una passione crescente, sempre al lavoro e mai a casa, e senza la possibilità di vedere nulla. Mi sono fatto accompagnare dalle cronache di Radio Bologna Uno e dai boati del pubblico in sottofondo, ed oggi, a otto minuti dalla fine, mi sono andato a rinchiudere nella cabina radio perché l’ansia mi stava divorando e non potevo più rimanere in mezzo alla gente, nel caso specifico ai colleghi.

Il finale punto a punto è culminato con la tripla di Spissu dall’angolo del +4, momento in cui so bene che mi è venuto quasi da piangere.

E poi? Avrei voluto abbracciare qualcuno ma non c’era nessuno e mi sono sentito paradossalmente solo come non mai in un momento di gioia ed esaltazione. Forse perché le emozioni, in fondo, vanno assaporate e condivise, o anche perché ero contento per il bambino che esattamente 16 anni fa, il 19 giugno 2001 festeggiava lo scudetto numero 15 e il Grande Slam della Virtus Kinder di Messina e Ginobili.

Ero contento per la squadra, ma in fondo per me, e mi sono rivisto lì mentre con la canotta numero 7 di Abbio cerco di schiacciare nella palestra della scuola “Lombardo Radice”, dandomi la spinta finale nel terzo tempo con il piede sul muro per arrivare al ferro.

Oggi ha vinto la Virtus e tutti quelli che hanno una V nel cuore.

Quella del 2001 (Parte II)

Il 17 aprile inizia la serie finale di Eurolega, il Tau di Vitoria ha eliminato l’AEK Atene e si evita quindi una rivincita del ‘98. Si comincia a Bologna e la Virtus deve fare a meno di Griffith operato da pochissimo al menisco e al quale il professore Lelli non ha dato l’ok per giocare. Foirest apre il match con una bomba, si va sotto 0-5 ma la Virtus non è mai in grado di entrare in partita, Andersen prova a sostituire Griffith ma non è la stessa cosa, finisce 65-78 e il fattore campo salta subito, con la Kinder che perde l’ipotetico vantaggio.

Dopo 48 ore si torna in campo e c’è anche Griffith che domina letteralmente e fa 8 punti nel primo quarto. Big Vic Alexander non lo tiene, lui si batte i pugni sul petto e io sono carico come una molla. Il primo round a Bologna si chiude 1-1 prima di andare a giocare le due gare in Spagna 14 giorni più tardi.

Aprile diventa anche il mese della coppa Italia e il primo obiettivo viene centrato in maniera fin troppo facile. Biella e Roma vengono eliminate, Pesaro fa il colpaccio nell’altra semifinale e sbatte fuori 88-87 la Fortitudo mentre io sono in macchina con mio papà a fare benzina alla Fina di Via Filippo Meda. La finale è così una classica del basket italiano, ma l’equilibrio sul parquet di Forlì dura poco, la Virtus distrugge la VL pesarese e Smodis con un paio di picconate chiude il conto sull’83-58.

La coccarda tricolore da mettersi sulla maglia è l’antipasto migliore per il viaggio in Spagna dove la Virtus ha l’obiettivo di portare a casa almeno un successo per giocarsi la bella in Gara-5 a Bologna. Il primo maggio Ginobili gioca una delle sue partite migliori e la Kinder vola sul 2-1 che significa avere il primo match-point il giovedì dopo. Fra Gara-3 e Gara-4 mi ammalo, mi viene la febbre ma costringo mia madre a venirmi a prendere da mia nonna per andare a casa a vedere la partita su Telepiù. Sa che all’ordine sovrano non può che arrendersi, vado a casa e perdiamo, 2-2, tutto rimandato a martedì 10 maggio a Bologna per Gara-5, la partita che incoronerà la squadra campione d’Europa.

Fa un caldo tropicale nel frattempo, due giorni prima mio papà ha appena festeggiato i 50 anni, ci sono le elezioni, Berlusconi sta per riprendersi il paese, Veltroni la città di Roma, io quasi Veronica.

Vivo la partita divorato dall’angoscia anche se si mette bene, il finale non è da batticuore e questo mi salva, vinciamo 82-74 e siamo campioni d’Europa ancora una volta.

Per completare l’opera manca lo scudetto ed è chiaro che come nel 1998 la finale sarà un derby. Succede, puntualmente. Gara-1 si gioca la sera precedente alla mia prima prova d’esame delle medie. Ascolto la partita via radio, seduto in poltrona in sala, in una sorta di ritiro e silenzio mistico. Finisce 86-81 e il giorno dopo faccio un buon tema, carico dalla sera precedente.

Gara-2 va in scena sabato 16 giugno. Passo la giornata al Big Gym, è la vigilia di Roma-Parma, la partita che 24 ore dopo regalerà lo scudetto ai giallorossi. Scruto l’Olimpico dallo Stadio dei Marmi e penso a quello che sta per succedere. L’idea mi fa inorridire e verso le 5 rincasiamo per vedere il secondo tempo di Paf –Kinder in onda sulla Rai. Impreco sul 490 che va lento su Via tiburtina mentre sento la cronaca via radio, Alessandro ha l’altra cuffia e tifa per la Fortitudo. Arriviamo a casa di mia nonna in tempo, siamo sudati, sporchi, puzziamo e sembriamo stravolti come se fossimo tornati dall’Afghanistan, ci mettiamo sul divano e la Virtus chiude il discorso con un 77-71 fuori casa che mette l’ipoteca sullo scudetto.

Il tricolore numero 15 arriva il 19 giugno, prima del mio orale, finisce 83-79, Myers gioca l’ultima partita in canotta biancoblu e quando esce per falli, tutto il pubblico della Virtus si alza e gli rende omaggio: applaude l’avversario di sempre, il nemico giurato, il campione più temuto.

Una grande forbice sbuca sulla gradinata bianconera, tenaglie pronte a scucire il tricolore dalle maglie dei rivali per metterlo sulla canotta affianco alla V. E’ il trionfo di Messina e di una banda di giovani incredibili che da lì a poco andranno in giro a vincere addirittura titoli NBA e Euroleghe varie.

L’anno di transizione diventa l’annus mirabilis, il capolavoro più grande e imprevisto, e per questo, senza dubbio più bello.

E quindi? La Virtus del 1998 era fatta da uomini con una caratura mentale inarrivabile, talento e forza psicologica, quella squadra avrebbe vinto contro chiunque in gara secca. Quella del 2001 aveva più talento e molta meno pressione, una incoscienza diversa che però le ha permesso di essere, dati alla mano e con l’almanacco bello in vista, la Virtus più forte di sempre.

Quella del 2001 (Parte I)

“Sì, ma secondo te, era più forte quella Virtus, quella della doppietta del 1998, o quella della tripletta del 2001?”

Mi rispondo magari il 19 giugno.

 

Finiva cosi il post del 31 maggio ed il momento è arrivato. Tante volte mi sono posto la questione, non solo io ovviamente, una domanda a cui è veramente difficile rispondere ma alla quale proverò a dare una mia idea.

Da dove partiamo? Direi dall’estate, o forse dal 30 maggio 2000, quando la Fortitudo per la prima volta vince lo scudetto. Al quarto tentativo, due anni dopo quel 31 maggio 98, l’aquila biancoblu raggiunge il traguardo sperato da una vita. Bologna si ribalta, cambiano le gerarchie ma non solo.

Cazzola, il grande patron della Virtus invincibile lascia, Madrigali prende il comando della V nera, la squadra viene rivoluzionata, ma il punto fermo rimane sempre lui, il coach Ettore Messina. Arrivano giovani di prospettiva e dalle qualità indubbie: Manu Ginobili, 22enne italo-argentino, l’anguilla di Baia Bianca e Marko Jaric, serbo 22enne che passa dalla F scudata alla Kinder, attraversando semplicemente Bologna come Frosini tre stagioni prima. A questi si aggiungono un lungo giovane e capace come David Andersen, un centro enorme, 2.11 che di nome fa Rashard e di cognome Griffith il quale dominerà le aree pitturate dei parquet di tutta Europa e un giovanotto sloveno, una ala grande con una mano molto educata dall’arco che va sotto il nome di Matjaz Smodis.

Il materiale non è male, anzi, va sgrezzato, c’è tanta gioventù ed esuberanza che va mixata con gli storici senatori: Rigadeau, Sandro “Picchio” Abbio, Hugo Sconochini e Sua Maestà Danilovic.

La leggenda virtussina però, ad inizio ottobre, poco prima che inizi il campionato, dopo le Olimpiadi di Sydney, dice basta e chiude con il basket. A 30 anni, dichiara che non ce la fa più e che le sue caviglie non sono più in grado di andare avanti a certi livelli. Il vuoto. Questo è quello che genera una decisione così, la quale lascia nello sconforto mezza città e gli amanti della pallacanestro.

Danilovic abbandona il basket giocato, il campionato sta per iniziare e l’ultimo scossone arriva da un altro uomo di grande carisma come Sconochini che viene trovato positivo al controllo anti-doping. In pochi mesi, la Virtus viene ridisegnata del tutto, ma come spesso capita, da una tornado di dimensioni devastanti e in un contesto tutt’altro  che promettente, viene fuori la stagione perfetta. La più grande stagione della storia della Virtus Bologna, quella del Grande Slam.

La Kinder parte male, perde la Supercoppa, alla terza di campionato scivola a Udine, perde a Atene in Eurolega, Messina capisce definitivamente che dovrà compiere un miracolo per dare chimica e fisionomia ad una squadra di talento ma acerba e soprattutto orfana di due guide.

Quando la Virtus torna in campo è il 5 novembre e batte al Palamalaguti la Scavolini Pesaro 86-78, sembra una vittoria normale, in realtà, da quel momento in poi, la Kinder non perderà più.

Infila una striscia di successi che termina a marzo, dopo un supplementare a Varese. I bianconeri macinano punti e vittorie trascinati da Ginobili e Jaric, la svolta dell’anno arriva a pochi giorni da Natale quando a Casalecchio arrivano i campioni in carica della Paf Fortitudo ed il derby si trasforma in un massacro sportivo di dimensioni spropositate.

La Virtus vince 99-62, un +37 che cambia la storia del campionato. Perché pochi giorni dopo la V nera va in testa da sola e ci rimarrà fino al termine della stagione.

La squadra decolla, nessuno riesce a spiegarsi l’esplosione totale di un gruppo così nuovo, i giovanotti non cedono alle pressioni ma si caricano la V nera sulle spalle e la portano passo passo in cima a ogni competizione. A febbraio la Virtus gioca a Roma e vado a vederla, per la prima volta. Ho 13 anni e vado da solo, in curva, nel settore ospiti. Vinciamo comodamente e nel turno infrasettimanale passiamo anche al BPA di Pesaro allungando a + 12 sulla Fortitudo.

Arriva il derby di ritorno che lo vince la Paf ma nel frattempo la corsa delle bolognesi in Europa sta per incrociarsi ancora, come nel 1998 e nel 1999 e ancora una volta in semifinale, con una serie al meglio delle 5.

Parto in gita con la scuola e la mia preoccupazione più grande è questa partita che grazie a Telepiù nero posso vedere. È un remake del derby d’andata di campionato, finisce solo con un +27, ma due giorni dopo in Gara-2 la musica è diversa. La F scudata non molla e si fa sotto, l’eroe di giornata è Davide Bonora che nel secondo tempo sposta gli equilibri e dà il 2-0 alla Kinder. Cinque giorni più tardi si va per Gara-3 in casa della Paf, e quando il collegamento inizia, Geri De Rosa di Telepiù apre dicendo: “Dopo due partite a Casalecchio la serie si sposta ora nel centro di Bologna, al PalaDozza.” Non chiedetemi perché, ma a me ‘sta frase ha sempre esaltato in maniera indicibile e ci ripensavo proprio pochi giorni fa.

Si mette male, l’aquila scappa e la Virtus soffre. Poi, sul + 20 Fortitudo, dopo una bomba di Myers, non so cosa succeda. Loro spariscono e la partita cambia del tutto. Ginobili fa canestro da ogni posizione, bucherebbe la retina anche da Piazza Maggiore, la Paf va in tilt totale, il parziale della quarta frazione recita 1-25, Frosini mette un canestro d’oro, arriva il soprasso e io vivo gli ultimi secondi praticamente in mutande per la trance agonistica nella quale sono entrato.

Finisce 70-74 che significa 3-0 e finale di coppa campioni. La quarta finale europea in 4 anni e la terza volta in cui in uno scontro diretto continentale la F scudata si piega alla forza della V nera. Corro per casa come un ossesso e finisco la mia cavalcata addosso al comodino di mia madre in preda a uno di quei momenti di esaltazione che sarà dura poter rivivere…

(CONTINUA)