Non chiedermi perché (Parte II)

Il senso di spaesamento che vivo dopo ogni eliminazione è sempre lo stesso. Difficile da spiegare ma uguale ogni volta. Un via di mezzo fra una specie di vuoto e di fastidio profondo, soprattutto per quello che implicano i giorni successivi. Un po’ come quando finisce un lungo viaggio e torni alla vita normale, o quando una bella vacanza volge al termine e rientri dentro casa tua e realizzi che tutto è già passato. All’improvviso.

Il mio primo europeo da espatriato mi ha legato ancor di più alla Nazionale, una conseguenza normale in fondo, e per quanto mi sia mancata quella ciclicità che regala l’estate con l’Italia in campo, mi sono sentito partecipe di questa atmosfera azzurra, di passione e desiderio, di legarsi a un gruppo così.

Il fastidio dell’eliminazione vissuta a Little Italy stavo per sfogarla con un tedesco, o meglio, con uno che tifava Germania e che era capitato dietro la persona sbagliata al momento meno adatto: dietro di me. È scappato dopo il rigore decisivo e prima che la mia rabbia sfociasse in altro, e forse, a mente fredda, è meglio così.

Domenica mattina era finito tutto, l’entusiasmo crescente di questo ultimo mese era svanito lasciando spazio solo a questa inquietudine vissuta nel 1996 dopo lo 0-0 con i tedeschi e dopo il rumore della traversa di Di Biagio e il boato conseguente di St Denis nel ‘98. Ma anche con le lacrime di Euro 2000 e quella coppa che ci scivolò dalle mani mentre ero a Colle Oppio con mio papà, o il senso di ingiustizia del 2002 con la rapina coreana perpetrata da Byron Moreno.

Il biscotto scandinavo del 2004, i rigori con la emergente Spagna nel 2008, il disastro del 2010 e quell’amaro pomeriggio a Vienna dopo l’eliminazione con la Slovacchia, il silenzio dopo il poker degli spagnoli rifilatoci nel 2012 in finale mentre ero al Circo Massimo, oppure la recente e cocente delusione del 2014.

Il dramma di Pasadena del 1994 l’ho omesso volutamente perché quello rimane qualcosa di unico e profondamente scioccante, forse non mi sono mai ripreso dal rigore di Baggio con il Brasile, nazione che da quel 17 luglio per me è come il demonio.

In tutto queste occasioni, subito dopo, ho sempre avuto la stessa percezione. Lo stesso senso di smarrimento pensando: “E ora bisogna aspettare altri due anni? O quattro per la stessa competizione? E come se fa?” Non si fa, mi rispondo così del giugno del 1996, mentre ero a Torvaianica e Zola ci mandò a casa anzitempo con un rigore fallito, non a caso, contro la Germania.

È una sensazione strana, che solo una persona riesce a capire e proprio ieri mi scriveva che voleva piangere. E capivo anche tutto quello che questa eliminazione gli aveva scatenato, proprio perché il problema è quello, ossia tutto ciò che di personale viene messo involontariamente nella Nazionale in queste competizioni.

Non so perché, o forse sì, ma è troppo lunga da spiegare, eppure oggi io vorrei essere con i miei genitori al mare, con loro in albergo in Salento. Se fossimo andati in semifinale nemmeno mi sarebbe venuto in mente, il fomento sarebbe ai massimi ma non è cosi, è proprio il contrario.

Come sempre, queste sconfitte di fatto a me aprono tutta una altra serie di voragini, di pensieri, riportano a galla cose che non c’entrano nulla con un torneo calcistico. Ma alla fine, certe paranoie sono dentro di noi, troppo radicate e impossibili da scalfire. Puoi crescere, girare il mondo, fare tutte le esperienze che vuoi, ma alcuni punti dentro di noi sono irremovibili. La Nazionale in fondo ci tocca dentro diversamente, ci fa tornare tutti un po’ bambini, motivo per cui siamo così coinvolti, ma questo vale tanto per chi sta a casa quanto per chi gioca. Sentire Barzagli dire “C’era voglia di stare insieme” in lacrime ti fa capire la potenza di certe emozioni, di quanto vadano effettivamente oltre. Di come anche un uomo di 34 anni, campione del mondo, fosse coinvolto con l’anima e il cuore. Soldi, fama, e tutte le cose materiali non esistono quando c’è un Europeo o un Mondiale, ci sono solo i sentimenti e una eliminazione ti tocca proprio lì, nella parte emotiva, quella più infantile però.

Dopo 31 giorni ieri non ho sentito l’inno per la prima volta, e stamattina camminando verso la redazione ho sentito “Happy” di Luca Carboni, ma con un morale ben diverso e mi ha fatto venire una specie di magone, a dimostrazione di come poi le canzoni assumano un valore in base al nostro spirito e a quello che ci leghiamo. Per me, oggi, questa canzone era già un ricordo, una memoria di giorni di entusiasmo e di credere in un qualcosa, magari di troppo grande ma che comunque era lì e oggettivamente possibile fino a prova contraria.

Ci vorrà un po’, ma l’amarezza rimarrà e me la ricorderò, soprattutto quando Euro 2016 sarà finito del tutto e la sua conclusione in generale mi metterà addosso tanta tristezza, come tutte le cose attese, che ti coinvolgono, ti accompagnano e una sera terminano.

In particolare quando nella tua vita una ventata di emozioni equivale al platino.