Non chiedermi perché

Con un foglio Word davanti, le cuffie bene piantate nelle orecchie a isolarmi, nell’intervallo di Croazia-Spagna, con Carlos che sistemava dei DVD appena arrivati e con la mia compagna di banco che continuava a parlare da sola mentre faceva delle ricerche per il suo articolo, è partita Happy di Luca Carboni.

L’ho sentita per la prima volta, e mi ha portato lontano per alcuni minuti, su una spiaggia mentre camminavo verso il bar a prendere un ghiacciolo, con le infradito per la sabbia bollente, nel primissimo pomeriggio. L’ombrellone con le maglie appese e ciondolanti, gli zaini sotto rigorosamente all’ombra, asciugamani disposti in modo strategico, qualche amico, e quel vociare della gente del mare. Ero lì, con questa canzone a fare da sfondo, sparata dalle casse nere del bar, tutto perfetto, con il bianco della salsedine sul braccio e le monete in mano.

Sono stato al mare per alcuni minuti, con il Catto che aveva mangiato poco, il Super Santos leggermente sgonfio, un tramezzino ancora sopravvissuto al pranzo nella borsa frigo di Antonio, le pizzette al pomodoro della Bionda, Alfredo intento a disturbare con la sabbia l’Eroe Sacro.

C’eravamo tutti, ed era bello così. Poi mi sono fermato un attimo sulla ringhiera della terrazza del bar e ho guardato la riva, poi il mare, infine l’orizzonte e Carboni cantava ancora. Loro erano lì, sulla sinistra, poca gente essendo in mezzo alla settimana, e quindi il traffico del rientro al ritorno che ci aspettava, ma stavamo bene, domani non poteva essere un problema in nessun modo.

Siamo al mare, magari ci torniamo anche la prossima settimana, l’estate è lunga, anzi è appena cominciata, ci sono gli Europei, fa caldo, di cosa dovremmo preoccuparci? È tutto in perfetta sintonia, è tutto un rivivere certi film, un riassaporare, un esserci nuovamente, un riallacciare un lungo filo.

È così, e mi piace un sacco.

 

 

Non so

perché si sogna

sono sempre un po’ irrequieto

ma io amo te

Little Britain

“Nobody knows the way it is gonna be” cantavano gli Oasis in Stand by me nel 1997, singolo del loro terzo album che dava seguito ai precedenti due capolavori, due emblemi della Cool Britannia di metà Anni 90. Il 1997 appunto, l’anno della fine del dominio quasi ventennale Tory con il conseguente insediamento di Tony Blair alla guida del paese.

Era una Gran Bretagna pop, giovane e ruggente, che aveva appena ospitato gli Europei del 1996, una realtà che tornava a guidare le fantasie dei giovani, una replica contemporanea di quella degli Anni 60, quella del “You have never had it so good” del primo ministro Harold MacMillan, frase pronunciata nel luglio del 1957 mentre l’antica Albione cavalcava il primo boom post seconda guerra mondiale.

Ci sono molte analogie fra quelle due epoche, due squarci Brit a distanza di 30 anni, due istantanee che parlano di una Gran Bretagna che nel frattempo è cambiata, evoluta, che si è mescolata nel nuovo millennio, ma che da alcune ore però è fuori dall’Unione Europea.

L’esito del referendum sorprende ma ci racconta tante cose. Ad esempio tutte le previsioni di voto sono state rispettate: Londra e la sua area circostante hanno votato per rimanere, le due roccaforti laburiste come Manchester e Liverpool hanno scelto remain, così come la Scozia che compatta in modo quasi surreale ha chiesto di non uscire. Tutto ruotava intorno alle campagne, alla gente che vive lì, lontana dai grandi centri, a quanto questa fetta di popolo avrebbe votato compatta il leave. Loro hanno spostato la bilancia dando un colpo decisivo all’esito finale.

Molti sostengono che anziani, gente con problemi di lavoro, nazionalisti e persone senza nulla da perdere abbiano composto il fronte del leave e in ciascuna di queste categorie si ritrova facilmente il motivo del voler abbandonare l’unione. Chi ricorda la GBR prima del 1973 e dell’ingresso nella CEE, chi spinto da un sentimento distorto di patriottismo, chi sostiene che il Regno Unito fuori possa portare dei benefici ai britannici stessi. Posizioni rispettabili ma indubbiamente miopi. E sì, perché ora l’attenzione si sposta su quello che sarà, sull’impatto che questo uragano avrà per l’Inghilterra ed il resto d’Europa.

I britannici non si sono mai sentiti europei, hanno sempre avuto un sentimento contorto verso il continente, da isolani, da gente di mare e scollegata dal resto del mondo. Pirati di natura, commercianti nati, isolati e fieri, dentro l’Europa ma sempre con distacco, sì all’Unione, ma no all’Euro. Compromessi e status speciali, ma soprattutto un equilibrio che non è mai stato veramente solido, supportato da quel sentimento un po’ troppo comune di sentirsi, in fondo, diversi.

Ha vinto la democrazia, questo rimane un dato di fatto. Ha vinto la possibilità di scegliere, di votare. Senza delegare parlamentari o altre persone, ma assumendosi delle responsabilità, senza poter poi rivoltare su qualcun altro le conseguenze, se non magari sul vicino di casa che aveva votato diversamente. Dovrà cambiare qualcosa ora, ma nessuno sa bene cosa e in che termini. Chi si sforza a fornire analisi non può andare troppo in là e chi lo fa a mio avviso non è credibile perché, appunto, “Nobody knows the way it is gonna be”.

La GBR ha scelto, e per quanto sia giusto che siano fuori per un discorso naturale e di sentimenti, la scelta costerà cara, ma intanto nessuna delle 3 squadre ha lasciato l’Europeo ed almeno una raggiungerà sicuramente i quarti.

Ironie della sorte, scherzi e coincidenze in questa estate appena cominciata e con una Union Jack piuttosto scolorita a fare da sfondo.

Riflessione numero 492

Molto prima che un ragazzone dal naso piuttosto pronunciato di Malmoe decidesse di scrivere la sua biografia partendo dalla frase “Puoi togliere una persona dal ghetto ma non il ghetto da una persona”, mi era capitato già di leggere questa frase anni fa e di rifletterci un po’ sopra.

La scorsa settimana mi è ritornata in mente dal momento in cui casualmente mi sono reso conto di avere reagito in un certo modo in mezzo alla strada mentre uno al volante suonava ai pedoni, gesto abbastanza insolito a queste latitudini. Io me lo sono guardato e spontaneamente gli ho detto: “Mo che hai sonato, canta” e me ne sono andato. Frase non mia ovviamente, ripresa anche in una famosa serie tv, ma una di quelle espressioni tipiche della borgata, fra ironia e severità.

Faccio tante cose che sono radicate in me, nel bene e nel male. Ad esempio ho deciso che il biglietto dei mezzi è troppo caro e quindi basta, lo pago come mi pare. Per me 3,25 dollari per un ticket è qualcosa di inammissibile soprattutto dal momento in cui il servizio offerto non merita certe cifre. Di conseguenza, quando passo e verso le mie monete ne metto una manciata a caso, raramente l’importo esatto, ma sempre una quantità che sembra quella corretta, e il tocco finale è aggiungere sempre un bel: “Vedi de fatteli bastà”.

Toronto ha tirato fuori il peggio di me sotto una serie di aspetti, un qualcosa che è facilitato dal discorso linguistico. Durante il giorno non so a quante persone mi rivolgo in mezzo la strada e generalmente non per apostrofarle nel modo più edificante. Però, a mio avviso non c’è alternativa. Quando vedo qualcuno mangiare roba schifosa o improponibile, me lo guardo e puntualmente pontifico con un: “Ma guarda che te stai a magna, ma non te vergogni?” succede qualcosa di analogo quando incrocio qualcuno mal vestito e questo capita ripetutamente, lì l’esclamazione diventa però: “Ma guarda come vai girando…”

Visto che qui tutti vanno molto lentamente, soprattutto al supermercato, tanto i commessi quanto i clienti, il mio eloquio è ricco di: “Daje, cammina, sbrigate, movite, aho, forza un po’, fatte n’artro sonno” poi attivo la modalità meno educata e piove di tutto. Questa sorta di dormiveglia nel quale tutti vivono fra gli scaffali del supermercato si scontra inevitabilmente con il mio passo e il mio approccio. Portando il carrello con la stessa impazienza dell’automobilista medio di Roma, me la prendo immediatamente con i malcapitati. Ci sono giorni in cui pagherai per svuotare il supermercato prima di poter entrare e fare la spesa in pace, anche perché è una di quelle cose che a me è sempre piaciuto fare.

Tendo a prendermela con tutti, soprattutto con chi mi chiede i soldi e qui è un continuo. Disperati di vario tipo ti si avvicinano per chiederti qualche moneta. Spesso li ignoro, a volte le cuffiette mi isolano e nemmeno me ne accorgo, altre volte invece mi guardo il mal capitato di turno, lo fisso e poi con una mimica non certamente nordamericana mi avvicino e mettendo la mano affianco l’orecchio gli dico: “Eh? Nun te capisco, che voi?”

La sera in cui perdemmo il derby di ritorno, a fine gennaio, per poco non mettevo le mani addosso a uno che continuava a importunarmi camminando sulla mia destra verso casa. Il problema è che aveva scelto il bersaglio sbagliato, nel momento meno adatto, soprattutto per il fastidio e l’incazzatura da cui ero pervaso. Alla terza replica con un educato ma deciso: “I don’t have coins, sorry” ho chiuso con un meno accogliente: “Mi hai già rotto il cazzo, se mi ritocchi te meno proprio”, lo switch di lingua fortunatamente deve averlo convinto di qualcosa e se ne è andato.

E poi attraverso la strada dove mi pare, mi infastidisco quando a fine partita, il martedì al torneo di calcetto, devo stringere la mano agli avversari e all’arbitro, seguendo quel protocollo di fair play che a noi ne piace e nemmeno ci appartiene, giorni fa invece a uno in difficoltà in una manovra di parcheggio ho detto a voce alta, passandogli vicino, che ci sarebbe entrato il famoso “cavallo con una scopa in bocca”.

Prendo in giro chiunque, ce ne ho una per tutti, ma mi viene naturale. Il problema è quando torno a Roma, ogni volta ho i primi due giorni di imbarazzo perché devo reimpostare il mio cervello su una modalità ben diversa, anche perché lo stesso atteggiamento mi costerebbe una pizza in faccia dopo meno di mezz’ora senza dubbio.

Alla fine è cosi, il contesto in cui sei cresciuto non può abbandonarti nel giro di qualche anno, e sia chiaro, non ne sto facendo una bandiera orgogliosa da sventolare, è un dato di fatto, anche poco apprezzabile, indubbiamente, ma questo è.

Il padrone di casa

Ho comprato lo spazzolino nuovo ieri, bianco e verde, medium della Colgate, un classicone, una azione che faccio ogni due mesi più o meno, perché ho letto così una volta, ho letto che lo spazzolino va cambiato ogni 8-10 settimane.

L’altro però non l’ho buttato, l’ho tenuto da parte perché ci devo pulire i bordi dei rubinetti del lavandino in bagno, quelle cose che impari a casa, vedendo tua mamma.

Non sarà casa mia ma me ne prendo cura, mi sembra qualcosa di normale, un po’ perché lo sporco mi fa schifo, un po’ perché mi viene automatico adoperarmi così.

Domenica scorsa mentre uscivo da Eaton Centre, erano le 7 e mi sono fermato a Dundas Square, a due passi da casa, uno dei cuori pulsanti della città. Avevo fame e mi sono preso un hot dog, anche se il fatto che fosse aumentato di 0.50 centesimi mi ha dato fastidio. Avevo fame e ho mangiato. Normale, ma fino a un certo punto, perché quando stai da solo fai veramente come ti pare, mangi quando vuoi, fai merenda alle 7, ceni alle 10, ti dai orari e li cambi a tuo piacimento. Un qualcosa di impagabile.

In tutto questo bailamme il passaggio da “uscire da casa” a “vivere da solo” ha preso tempo ma ha segnato pure un passaggio importante, un piacere reale. Perché la cosa che continuo ad apprezzare di più è proprio questa indipendenza e libertà, e quando la decade dei 20 è quasi arrivata al termine, ha un valore innegabile.

Sono l’unico dei miei amici che vive da solo. Gli altri convivono, si sono sposati, sono ancora a casa, o come Antonio sono nel mezzo del guado. Oggi non scambierei questo status con nient’altro, forse perché me lo devo vivere ancora un po’ o eventualmente migliorare. Alla fine poi non fai nulla di speciale e folle, ma è la sensazione di gestire tutto a tuo piacimento, di cucinare quello che vuoi, di mangiare quando vuoi, di avere il lavandino sempre pulito e i piatti lavati prima di andare a dormire, cose che non sempre succedono, a dire il vero quasi mai, quando vivi con altri, con coinquilini di varie nazionalità.

Onestamente è un tipo di condizione che non era più sopportabile per me, troppe cose, troppi room-mates e quant’altro ho già visto e vissuto, pertanto quella parentesi era giusto che si chiudesse. A volte ho la sensazione che tutto funzioni proprio perché tutto è sotto il mio totale controllo.

La lavatrice ogni 10 giorni, lavo quante volte mi pare, la finestra rimane aperta, vedo quello che mi pare, la colazione la faccio con la musica dell’Ipod, non devo parlare per forza con nessuno, faccio la spesa quando devo, ma anche quando mi fa piacere.

La bottiglia del Ramazzotti l’ho aperta quando ho deciso che era il momento, mentre quella di Chianti “Rubentino” è lì che mi guarda in attesa. Ho una pizza nel surgelatore, lo dico e non me ne vergogno, di certo è anche l’ultima spiaggia, la soluzione disperata. Gli stracci li cambio una volta al mese, ogni mattina butto la spazzatura, tanta o poco che sia, non dormo più già da diverse settimane con il lenzuolo perché malgrado tutto dentro casa fa caldo.

Le scarpe sono stipate in veranda, mentre la porta-finestra di vetro da qualche settimane è difettosa e non si apre più bene. Tutto dipende da te, un peso, ma attualmente è ancora un piacere, o meglio un onere accettabile, che ne vale la pena. Oggi alle 5.40 ero a casa, mi sono messo a letto e mi sono addormentato per un’ora, poi ho deciso che volevo andare a correre e l’ho fatto, avevo voglia di pasta con il tonno e l’ho mangiata, volevo scrivere questo post e l’ho fatto. Fantastico.

Dovessi tornare a Roma domani il problema sarebbe tornare a casa a tempo eventualmente indeterminato, ma non c’è nulla di strano, è semplicemente fisiologico. Dal primo dicembre scorso si è aperta una nuova pagina che malgrado mille difficoltà e sfortune iniziali ha inaugurato un altro percorso, uno di quelli che fanno parte della vita, e l’unica cosa che mi auguro veramente è che vada avanti e che se dovessi condividere i miei spazi ancora, spero solo che sia per scelta e piacere e non più per necessità.