Piccioni e gabbiani ai tempi del COVID-19

Anche piccioni e gabbiani stanno avendo i loro problemi in questi tempi di COVID-19. Nessuno ci pensa, ma io li vedo. Senza nessuno in Piazza San Pietro e in tutta l’area, senza persone in giro, senza turisti che si sbrodolano mangiando ai tavoli sui marciapiedi, c’è veramente poca roba per questi due mai amati volatili.

In aggiunta, va anche sottolineato come improvvisamente i cassonetti della spazzatura siano sempre puliti e svuotati con rara precisione.

Soffriamo noi ma soffrono anche i gabbiani che chissà, magari, se ne torneranno al mare e lasceranno in pace la città e i suoi abitanti.

Intanto oggi mi sono fatto per la prima volta una vera coda per entrare al supermercato. Sarà perché era il lunedì che porta a Pasqua, sarà che il supermercato in Vaticano lavora fino a mercoledì, ma un’ora e 35 minuti in piedi in attesa me la sono fatta, inveendo contro uno che aveva fatto ampiamente il furbo passando davanti a me e a una signora di almeno 150 anni.

Il lievito per roba salata non c’è nemmeno lì, zucchero e farina invece sì. In tempi di pandemia sembra chiaro che il lievito sia diventato il vero oro, mentre il petrolio, l’”oro nero”, continua a battere record ogni settimana per quanto vada giù.

Forse fra 7 giorni inizieremo a vedere la luce, nel lunedì dell’Angelo, nella vecchia e cara pasquetta, qualche disposizione potrebbe regalarci il brivido di una libertà non vicina ma un po’ meno lontana.

Nel frattempo i morti continuano ad essere tanti, le terapie intensive si stanno alleggerendo, il toto-date va alla grande con ipotesi che arrivano da ogni lato.

Resta il fatto che io continuo ad essere più preoccupato per il dopo che per oggi. La mia poco celata certezza è che il dramma economico sarà un qualcosa che non riusciamo ad immaginare. Non solo la nostra quotidianità continuerà ad essere minata da tanti piccoli spigoli ma la crisi finanziaria, soprattutto qua, sarà terribile.

Intanto domani è 7 aprile. “Ci vediamo il 7 aprile” con la sua rappresentativa voce stridula ci disse il Presidente a me e al Catto, ma ricordo bene anche il 7 aprile del 2016, e i giorni a seguire. Poesia e dramma, altro che quarantena.

Gli appelli dei Vip ai tempi del COVID-19

Direi che potremmo anche darci un taglio a questo lavaggio del cervello che a breve ci strapperà dalla bocca un deciso quanto inevitabile “E grazie ar cazzo”.

Ma sì, parlo di questa pessima strategia di comunicazione nella quale vip di turno si alternano sui canali tv (e non solo) nel ripetere che dobbiamo stare a casa. Come loro.

Ieri Piero Pelù ad esempio diceva che lui durante il giorno fa tante cose chiuso nella sua abitazione, fra cui suonare e cantare. Chissà, magari avrà uno studio di registrazione grande come il mio appartamento e si diletterà lì per ore.

Dico lui, ma potrebbero essere tanti altri che continuano ad ammorbarci, d’altra parte quando hai 200 mq di casa, il giardino, l’home theatre, il televisore 90 pollici e un conto in banca che ride siamo tutti più sereni di stare in casa.

So bene che questo è un discorso che può sembrare populista e banale ma non è così, proprio per niente, soprattutto perché questo COVID-19 è talmente democratico che colpisce tutti, ricchi e poveri, principi e spazzini. Se la peste nel corso dei secoli risparmiava i nobili o i ricchi e colpiva i poveracci perché malnutriti e in pessime condizioni igieniche, questo coronavirus ci chiude a tutti in casa e non sceglie chi bersagliare.

E allora siamo tutti dentro, reclusi e speranzosi che tutto finisca presto.

Siamo prigionieri e dobbiamo sentirci vip più o meno famosi che ci dicono di stare a casa quando alle spalle intravedi vetrate che danno su giardini grande come parchi.

Chissà se il commerciante che ha il negozio chiuso, deve stare in casa e avrà solo perdite è felice di sentire la pop-star che lo invita a stare recluso in 50 mq con altre 2/3 persone. Chissà se accetta con il sorriso questi suggerimenti, chissà se invece non si lascia scappare un bel: “Famo cambio bello e poi vedemo se nun te rode o se parli così…”

Sì, questa strategia comunicativa è pessima e a breve diventerà anche irrispettosa, a noi interessa poco sapere se Jovanotti suona o Dybala gioca alla Playstation, non sono problemi nostri e non vogliamo sentire gente condividere con noi una reclusione che è troppo diversa.

Non siamo uguali e nemmeno stiamo soffrendo allo stesso modo, a me il tutto inizia ad urtare e non perché la clausura stia cominciando ad infastidirmi, bensì perché questi appelli perdono di credibilità e sembrano sempre più ridicoli.

La situazione è già difficile di suo, bene gli avvisi alla tv 3000 volte al giorno, ma delle pagliacciate messe in piedi ad arte faremmo tutti a meno, io sicuramente.

Coronavirus, oggi

Non che ci sia altro da aggiungere sul coronavirus, ma volevo spendere venti minuti di tempo della quarantena per fissare qui appunti e riflessioni che un giorno sarò magari curioso di rileggere.

Senza alcuna pretesa e senza voler dare nessun contributo al dibattito che ogni giorno diventa sempre più carico e intenso, direi che intanto sarebbe bene evitare di usare il termine guerra.

Non tanto perché è improprio, semplicemente perché la guerra è un’altra cosa.

La guerra è quella che massacra in Siria, o quella che conoscono i nostri nonni, quando non si poteva ordinare la spesa a casa grazie a una app, ma si doveva camminare chilometri per andare in cerca di castagne o farina.

Sarebbe opportuno evitare polemiche sulle donazioni, tipo quella del Cavaliere. In certi momenti si prende quello che viene senza discutere, si ringrazia e fine della storia.

Converrebbe anche non mettersi a discutere sui flash-mob, una spontanea voglia di condivisione un po’ sgangherata. Oggi è così, passerà, e non penso sarà meglio quando la quarantena ci avrà davvero fiaccato.

Non è facile, tutt’altro, chiusi in due in un bilocale, senza un balcone, senza una terrazza, senza uno spazio, sarà lunga e il peggio arriverà inevitabilmente; pertanto sia santificato il lavoro fuori che permette una necessaria e inevitabile evasione, la spesa, la spazzatura da buttare. In situazioni limite ci si attacca tutto, anche al banale.

Rasenta la tenerezza la voglia di una certa stampa di parlare di sport, di lanciarsi in previsioni e calendari. Non ce ne frega nulla del pallone e di ciò che lo circonda, interesserà agli addetti ai lavori, ma a un punto ho iniziato a provare fastidio per articoli di approfondimento fatti tanto per popolare le pagine, roba che non interessa nemmeno al peggiore dei disperati.

In fondo, siamo abituati che quando non c’è il calcio, c’è il mercato, ora non c’è niente ed è una meraviglia. Ci vorrebbe un decreto per mantenere questa pace, senza tutto questo circo si sta meravigliosamente.

Tutti navighiamo a vista, difficile pensare che la scadenza del 3 aprile possa essere rispettata, ancor di più con Pasqua la domenica successiva. L’evento genererebbe un tale movimento ed una condivisione anche confusa che sarebbe un clamoroso autogol.

Non ho idea di come e quando finirà, so che mi è saltato il trasloco e che se anche ad aprile dovessi ritrovarmi dentro queste quattro mura impazzirò, come è normale che sia.

Per il resto? Spegnere i cellulari, impresa impossibile in tempi di quarantena, ma distaccarsi ci fa solo bene, anche per respirare.

Di questi tempi, non è poco.