“Si chiaman Balilla”

Nel corso della Guerra di successione austriaca (1740-1748) la Repubblica di Genova era alleata con gli Spagnoli e i Francesi contro gli Austriaci e il Regno di Sardegna. Nel settembre 1746 Genova fu presa dalle truppe austro piemontesi al comando del generale Brown e dovette accettare pesanti condizioni di resa, tra le quali la consegna delle armi e delle artiglierie.

Al tramonto del 5 dicembre 1746, mentre un drappello di soldati austriaci stava trascinando per la via di Portoria un mortaio prelevato da una postazione sulle alture di Carignano, la strada sprofondò sotto il peso del pezzo d’artiglieria, che rimase impantanato. I soldati cercarono allora di costringere la gente del posto ad aiutarli e presero a bastonare chi si mostrava riluttante. Di fronte a questa prepotenza un ragazzo raccolse un sasso e lo scagliò contro l’ufficiale che comandava il drappello gridando «Che l’inse?» («Si comincia?»). Il suo gesto fu immediatamente imitato e una fitta sassaiola costrinse gli austriaci ad abbandonare il mortaio e a darsi alla fuga. Fu la scintilla che fece sollevare il popolo genovese e diede inizio a una rivolta che scacciò dalla città gli invasori austro piemontesi.

Quel ragazzo di Portoria non è mai stato identificato con sicurezza, ma una solida tradizione vuole che si chiamasse Giambattista (Balilla) Perasso.

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L’Inno a scuola

Ci sono una serie di cose, un gruppo abbastanza ristretto, per le quali divento il capo degli intransigenti, il re dei conservatori, il custode della memoria. In questo gruppetto rientrano il tricolore e l’inno. Ecco, se qualcuno alza la voce su queste cose, le dileggia, non se ne cura e le critica in maniera ingiusta e insensata, mi incazzo rapidamente.

Sono italiano, sono profondamente italiano, condivido appieno il patriottismo e per me, sinceramente, anche un pizzico di nazionalismo fa anche bene, meglio essere spostati su quel lato che dall’altra parte, meglio amare il proprio paese che fregarsene. Sono un figlio della mia nazione, della mia patria e di questo me ne vanto, è un orgoglio che ho tatuato addosso e me lo porto ovunque. Il passaporto che recita in copertina Repubblica Italiana, per me è sinonimo di fierezza.

Il tricolore? È la mia bandiera, fosse per me rimarrebbe appesa alla finestra ogni giorno e non solo le estati degli anni pari in occasione della Nazionale. Ecco, per me l’Italia ha ancora un senso, quello dell’appartenenza, l’Italia è un valore. Non mi vergogno di essere italiano, non riesco a vergognarmi nemmeno quando vedo e vivo queste ultime classi politiche che trasformano il Belpaese nella barzelletta d’Europa. Io non mi identifico con questa gente, ci sono certo, ma passeranno, è gente che transita, nessuno se ne ricorderà. Nessuno può intaccare ciò che è la mia terra, il Paese per antonomasia, quello per cui ti devi esprimere sempre utilizzando il superlativo relativo.

Detto questo, arrivo alla notizia dell’Inno di Mameli insegnato nelle scuole. La trovo una cosa talmente giusta che lo scandalo per me è che non ci fosse da sempre. È una cosa anacronistica? Ottocentesca? Fuori luogo? Per niente. È giusto che tutti i bambini sappiano e possano cantare il nostro inno, un testo ricco di storia che deve essere imparato a memoria e capito. Che italiano sei se non sai tutto l’inno? A me lo hanno insegnato alle elementari ma già lo sapevo, lo imparai a Italia 90’, a quei tempi non era obbligatorio ma ho avuto la fortuna di avere maestre intelligenti.

Il Senato ha approvato, la Lega ha detto no e per me possono beatamente fottersi, un paese si distingue simbolicamente per bandiera e inno, quest’ultimo è giusto che venga insegnato e spiegato.

Sì, deve essere parafrasato, raccontato, pensate all’ultima pagina veramente bella di televisione a cui abbiamo assistito, sapete quale è stata? Benigni che fa l’esegesi dell’Inno di Mameli a Sanremo. Uno spettacolo unico e non solo perché il buon Roberto è un fenomeno unico…

Viva l’Italia, viva il nostro inno, viva Goffredo Mameli.

 

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