Il mio compleanno canadese

Il mio compleanno quando capita di venerdì per me ha sempre un valore diverso. Il motivo è molto semplice: quella sera del 6 marzo del 1987, quando in tarda serata sbucai al Policlinico in grande stile, con camicia, gilet e Lacoste ai piedi, era proprio un venerdì.

L’ultima volta che c’era stata questa sovrapposizione era il 2009. Andai all’università, poi a pranzo da mia nonna e tornai a Tor Vergata per la lezione di Storia della Gran Bretagna dalle 16 alle 18. La sera andammo tutti insieme all’Habitué su Via Casilina, fu la prima uscita ufficiale di Antonio e La Bionda, il Drastico le cantò “Che tesoro che sei”, Alfredo era in Brasile, noi salimmo sul palco del karaoke per “rovinare” senza rispetto “Urlando contro il cielo”, pagai da bere a tutti e Fermata alla fine si macchiò di un gesto che avrebbe potuto evitare.

Sei anni dopo riecco venerdì e per la  terza volta in vita mia ho celebrato il mio compleanno all’estero, la prima in un altro continente. Difficile trovare punti di contatto con quello di Dublino del 2013, in quella circostanza ero arrivato da soli 4 giorni e onestamente il disorientamento era notevole, stavolta è stato tutto molto diverso considerando che anche l’ottava settimana è scivolata via. La coincidenza particolare è che come a Dublino, anche qui, la prima immagine che ho scattato con la macchina fotografica è relativa al mio compleanno, una ennesima riprova della circolarità delle vicende umane, almeno di quelle che mi riguardano.

Come già anticipato, un po’ di malinconia, per la prima volta è emersa, ma in occasioni del genere è davvero inevitabile. Certe feste sono troppo legate all’aggregazione e alla condivisione, a quel qualcosa che ti riconduce a famiglia e amici, quando mancano entrambi, pagheresti per essere a casa tua, ma in qualche modo, alla fine, l’ho sfangata decentemente.

Fra una rassegna stampa, un palinsesto da controllare e una riunione di redazione ho festeggiato, portando due torte in ufficio, mangiando cocomero e fragole al sei di marzo e cenando molto bene. A casa, con la mia famiglia francese, ho cucinato fettuccine al pomodoro per tutti, in più avevo comprato un pollo, abbiamo brindato con tanto di champagnino, ho spento le candeline e scartato addirittura un regalo. Insomma, devo ringraziare chi ha permesso che questa giornata non passasse in cavalleria e fra tanti anni avrò comunque un ricordo piacevole di questo compleanno in Canada.

Ho ricevuto auguri dagli angoli più disparati dal mondo, da Hong Kong (il primissimo anche per un discorso di fuso), Cambridge, Seattle, San Paolo, Atene, Londra, Madrid, Fiuggi Terme, in tanti si sono affacciati su Whatsapp, mail, Skype e quant’altro per farmi sentire il loro calore malgrado un oceano di mezzo. È stato bello, come sempre. Anche se è solo un augurio, un messaggio, il piacere nel ricevere attestati di affetto senza Facebook di mezzo ha il suo fascino. Un po’ datato, ma vivo.

La seconda persona che mi ha fatto gli auguri quando per me era ancora 5 marzo ha vinto a mani basse e nel messaggio di risposta gliel’ho annunciato con totale certezza. Nessuno avrebbe potuto fare di meglio e un pezzetto del testo merita di essere pubblicato. Un pezzetto solo però eh.

Grazie a tutti voi.

Sempre vostro.   

 “…Non conta con chi effettivamente passi il giorno in se stesso in fondo, ma piuttosto chi quel giorno, se potesse scegliere, vorrebbe passarlo a festeggiarti. I tuoi amici ci saranno di sempre. Parlando per me, io di sicurò sarò fra questi…”

Benicassim

Basta poco cantava Vasco Rossi. Basta poco per cambiare una stagione, un’annata, un periodo. Basta una chiamata, o semplicemente una gravidanza. Un sabato di future mamme che spianano strade, una ha aperto lo spiraglio ad un amico, un’altra invece renderà un mio vecchio compagno di scuola papà: due notizie, due botti in un giorno. In un sabato di sole e primavera, di panini e pic-nic fra le margherite di Villa Borghese, davanti la fontana dove una volte mi tuffai vestito con tutte le scarpe uscendo da scuola l’ultimo giorno, oggi invece, non c’è più nemmeno l’acqua. Basta poco dicevamo, basta un sabato insolito per rientrare in un posto dove da ottobre 2012 non avevo più messo piede, volutamente, ma anche un po’ per caso.

Altre due settimane e poi sarà aprile: orari legali, allergie, Pasqua, primi caldi, ponti, cose che da un anno esatto ci attendono sedute là, mescolate fra le pagine del calendario, fra l’inverno e l’estate. Intanto bambini di 9 anni confessano di voler diventare chef, ripenso a quelli della mia generazione e mi ripeto che noi volevamo essere solo tre cose: calciatori, piloti e astronauti, la televisione ci domina e qualche ragazzino di quarta elementare inizia a svalvolare evidentemente. Ma questo è quello che circola, tutto corre troppo e molto si consuma velocemente, settimane che passano senza averne memoria, leggo Pavese e trovo la risposta: qualcosa che non ricordiamo significa che non è stata importante.

È 17 marzo intanto, e mentre i pub del centro si adoperano per organizzare lunghe bevute sfruttando la festa irlandese di San Patrizio mi ricordo che sono 153 anni da quando questa terra è stata unita. Forse non interessa più a nessuno, in realtà l’eccesso di esterofilia ci stordisce, allontana e rovina, festeggiamo gli altri e ci dimentichiamo di noi, facciamo gli auguri agli sconosciuti e snobbiamo il nostro compleanno. Siamo un popolo unico, cintura nera di karate per salvezze last second e medaglia d’oro nella specialità “quattro frecce accese con la macchina in seconda fila”, ma nonostante tutto, ti ricordo con tenerezza vecchio Stivale.

E allora, auguri Casa, auguri Perla d’Europa.

BiyYJuEIAAEb-Dk