Come è diventato il Natale

La verità è che Natale non interessa praticamente più a nessuno, e secondo me il motivo principale va rintracciato nello scarso desiderio delle persone di condividere e di stare quindi con qualcuno. Siamo – parlerò al plurale anche se non appartengo a certe categorie – vittime di un rincoglionimento che si sviluppa su due livelli: il primo è che ci siamo stancati delle feste comandate e degli impegni obbligati, proprio perché costretti a condividere del tempo con una compagnia spesso non “scelta”, e poi perché siamo assuefatti dal mondo virtuale, ciascuno con dosi diverse, ma tutti nel calderone.

I telefoni che escono dalle tasche, al pranzo di Natale, o alla Vigilia, dicono molto. C’è quasi una smania ormai nel tirare fuori il telefono che sembra irrefrenabile. E non basta una tavolata in un giorno di festa a fermare quel desiderio di illuminare il display, no, non c’è niente di più interessante che dare un’occhiatina a quel cellulare. Se questo è il punto di partenza, ossia isolarsi per guardare la propria vita virtuale via social, come si può star bene in giornate di festa e tradizionalmente di aggregazione? È impossibile.

A me il Natale è sempre piaciuto. Sono un natalista convinto della prima ora e ho meravigliosi ricordi del 24-25 dicembre, in compagnia e a casa mia. Memorie di pacchetti, regali, vacanze, del camino acceso e di tutte quelle cose che rendono questo momento dell’anno unico.

Pur crescendo, ho perennemente cercato di preservare questo spirito, ma la verità è che gli anni e il corso della vita hanno indubbiamente intaccato la mia visione del Natale.

Il punto è che la gente invecchia, i periodi sono diversi e le persone, in maniera quasi inesorabile, tendono ad allontanarsi. È come se i rapporti fossero destinati, in modo irreversibile, ad allentarsi.

Gli ultimi miei Natali vivono di questa descrizione appena fornita.

Come detto in precedenza, gli ultimi tre sono stati per me troppo caratterizzati dal fattore Canada e tornare a casa è sempre stato più quello che la festa di Natale stessa, la quale è diventata solo ed esclusivamente la scusa per sbarcare a Roma, perdendo in compenso però gran parte della sua essenza.

Quest’anno dovrebbe essere diverso, ma la realtà è che mi rendo conto che pur stando qui è proprio il contesto ad essere differente, la voglia, o meglio la non-voglia della gente di condividere. Sembra ormai che passare 5-6 ore insieme, intorno ad un tavolo, mangiando o giocando, sia un peso insopportabile. Anche solo per due giorni l’anno, è una condanna micidiale.

A me dispiace molto constatare tutto questo, anche perché credo di pagarne in fondo le conseguenze. Sarò sempre un oltranzista del Natale, ma ogni anno che passa, in verità, lo sono sempre un po’ di meno.

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Qualunque tifoso del mondo vi dirà che la propria squadra è unica e speciale, lo so e li conosco, poi però ci siamo noi, una categoria a parte, noi tifosi interisti, che sosteniamo lo stesso concetto, ovvio, ma lo facciamo con una convinzione diversa, impareggiabile.

Sì, perché noi tifiamo ad esempio per una squadra ritenuta all’unanimità Pazza, un qualcosa che è intriso nel DNA di questa formazione, una peculiarità che perdura e che resiste nonostante gli anni e i cambiamenti.

Tifare per qualcosa che è considerato pazzo ti fa capire quello a cui andrai incontro, perché sai che che ogni volta succederà di tutto, perché l’Inter è capace di tutto e quindi “Never a dull moment” come cantava Rod Stewart.

Ci sono tante citazioni e tanta letteratura sull’Inter, altro evidente simbolo di diversità, ma quella del presidente Massimo Moratti: “L’Inter è un sentimento” a mio avviso è la più bella ed autentica. Sì perché i sentimenti non si spiegano e fra le poche certezze che abbiamo in questo mondo una è proprio quella che al cuor non si comanda. E noi, inspiegabilmente ed acriticamente amiamo l’Inter.

Erano una quarantina quel lunedì sera al ristorante L’Orologio, in pieno centro a Milano, e oggi, siamo milioni, ovunque nel mondo, perché “Noi siamo fratelli del mondo” tanto per citare un’altra celebre frase. L’Inter è una fantastica donna, io l’ho sempre immaginata così, quelle donne però che non ti danno punti di riferimento, che cambiano idea, quelle di cui non puoi fidarti, belle, dannatamente belle ed attraenti ma volubili e vulnerabili, quelle che ti fanno girare la testa e ti tengono per le palle, quelle che in fondo non puoi fare a meno di amare.

Non condivido mai quando paragonano le fedi, si tende a farlo ad esempio fra quella sportiva e quella religiosa. Beh, mi dispiace, ma non è così. Pregando qualunque Dio non vivi l’angoscia del derby il giorno prima, non senti certe emozioni e nemmeno ti ritrovi nello psicodramma del lunedì dopo una sconfitta pesante con il tuo collega pronto a prenderti in giro senza pietà. La fede sportiva richiede molta più fede, perché quest’ultima è messa molto più a dura prova. In qualunque paese civile, professare la propria fede religiosa non comporta nessun problema, e se non scendiamo in casi limiti e disperati, è evidente come tifare sia molto più una questione di fede che pregare. Perché se retrocedi a maggio ma a giugno sei davanti allo sportello per rinnovare il tuo abbonamento, tu sei più che un fedele, sei un martire, e non puoi paragonarti a chi va la domenica a messa, prega e dice il rosario.

Sarei stato molto più sereno se non avessi tifato per l’Inter, avrei avuto molto più tempo libero, mi sarei divertito molto di più, mi sarei incazzato molto meno e da bambino non avrei pianto così tanto. Eppure, in serate come quella di Madrid, dopo il fischio finale di Webb, pensi che ne è valsa la pena soffrire così tanto per assaporare una gioia del genere. Spiegarla è impossibile e ripenso al messaggio di Alfredo, al fatto che si debba stare alla larga da chi pensa che il calcio siano 22 persone in mutande che corrono dietro ad un pallone, o a quelli che ti chiedono perché prendersela così tanto, nemmeno te ne venisse qualcosa in tasca. Questa è la frase che detesto sopra ogni cosa, e credo che chi pensa questo contribuisca a rendere questo mondo più piatto e grigio, valutando tutto su un discorso di soldi e guadagni, ma non di emozioni e sentimenti.

Ho migliaia di ricordi legati all’Inter, e mi ricordo tante cose proprio perché le collego a certe partite e ad alcuni momenti. Ho seguito l’Inter dovunque, fino ad arrivare dall’altra parte del mondo da solo anni fa per l’Intercontinentale e se non è amore questo come vogliamo chiamarlo? Forse pazzia che spesso è sinonimo di amore, ma soprattutto un termine che ci riporta ad un concetto iniziale.

Sarei credo una persona diversa se non tifassi per l’Inter, una scelta che a suo tempo non immaginavo cosa comportasse, di fondo fu la mia prima scelta di vita e paradossalmente una delle più importanti, e sì, perché per assurdo la prima cosa che scegliamo da bambini, quando non abbiamo percezione di nulla ancora, è l’unica che poi ci accompagnerà nella vita, per sempre, e che non cambieremo mai più.

E meno male che quella sera di agosto del 1993 a mio papà è venuta voglia di accompagnarmi allo stadio a vedere l’Inter, ma soprattutto, per fortuna che non mi ha mai riportato a casa.

Con i colori del cielo e della notte, infinito amore, eterna squadra mia.

Auguri

Il mio compleanno canadese

Il mio compleanno quando capita di venerdì per me ha sempre un valore diverso. Il motivo è molto semplice: quella sera del 6 marzo del 1987, quando in tarda serata sbucai al Policlinico in grande stile, con camicia, gilet e Lacoste ai piedi, era proprio un venerdì.

L’ultima volta che c’era stata questa sovrapposizione era il 2009. Andai all’università, poi a pranzo da mia nonna e tornai a Tor Vergata per la lezione di Storia della Gran Bretagna dalle 16 alle 18. La sera andammo tutti insieme all’Habitué su Via Casilina, fu la prima uscita ufficiale di Antonio e La Bionda, il Drastico le cantò “Che tesoro che sei”, Alfredo era in Brasile, noi salimmo sul palco del karaoke per “rovinare” senza rispetto “Urlando contro il cielo”, pagai da bere a tutti e Fermata alla fine si macchiò di un gesto che avrebbe potuto evitare.

Sei anni dopo riecco venerdì e per la  terza volta in vita mia ho celebrato il mio compleanno all’estero, la prima in un altro continente. Difficile trovare punti di contatto con quello di Dublino del 2013, in quella circostanza ero arrivato da soli 4 giorni e onestamente il disorientamento era notevole, stavolta è stato tutto molto diverso considerando che anche l’ottava settimana è scivolata via. La coincidenza particolare è che come a Dublino, anche qui, la prima immagine che ho scattato con la macchina fotografica è relativa al mio compleanno, una ennesima riprova della circolarità delle vicende umane, almeno di quelle che mi riguardano.

Come già anticipato, un po’ di malinconia, per la prima volta è emersa, ma in occasioni del genere è davvero inevitabile. Certe feste sono troppo legate all’aggregazione e alla condivisione, a quel qualcosa che ti riconduce a famiglia e amici, quando mancano entrambi, pagheresti per essere a casa tua, ma in qualche modo, alla fine, l’ho sfangata decentemente.

Fra una rassegna stampa, un palinsesto da controllare e una riunione di redazione ho festeggiato, portando due torte in ufficio, mangiando cocomero e fragole al sei di marzo e cenando molto bene. A casa, con la mia famiglia francese, ho cucinato fettuccine al pomodoro per tutti, in più avevo comprato un pollo, abbiamo brindato con tanto di champagnino, ho spento le candeline e scartato addirittura un regalo. Insomma, devo ringraziare chi ha permesso che questa giornata non passasse in cavalleria e fra tanti anni avrò comunque un ricordo piacevole di questo compleanno in Canada.

Ho ricevuto auguri dagli angoli più disparati dal mondo, da Hong Kong (il primissimo anche per un discorso di fuso), Cambridge, Seattle, San Paolo, Atene, Londra, Madrid, Fiuggi Terme, in tanti si sono affacciati su Whatsapp, mail, Skype e quant’altro per farmi sentire il loro calore malgrado un oceano di mezzo. È stato bello, come sempre. Anche se è solo un augurio, un messaggio, il piacere nel ricevere attestati di affetto senza Facebook di mezzo ha il suo fascino. Un po’ datato, ma vivo.

La seconda persona che mi ha fatto gli auguri quando per me era ancora 5 marzo ha vinto a mani basse e nel messaggio di risposta gliel’ho annunciato con totale certezza. Nessuno avrebbe potuto fare di meglio e un pezzetto del testo merita di essere pubblicato. Un pezzetto solo però eh.

Grazie a tutti voi.

Sempre vostro.   

 “…Non conta con chi effettivamente passi il giorno in se stesso in fondo, ma piuttosto chi quel giorno, se potesse scegliere, vorrebbe passarlo a festeggiarti. I tuoi amici ci saranno di sempre. Parlando per me, io di sicurò sarò fra questi…”

Coincidenze pasquali

 

pasqua, feste, auguri, dublino, irlanda, interForse nessuno di voi lo sa, ma dato che io sono “matto” e mi ricordo tutto, vi svelo che Pasqua al 31 di marzo è già capitata nel 2002, undici anni fa. Me lo ricordo perché vincemmo nel sabato santo a Firenze 0-1 dopo quindici anni, segnò Vieri nella ripresa e mantenemmo i tre punti di vantaggio sulla Roma, la domenica andammo a pranzo in un ristorante sopra Tivoli.

Già che ci sono vi dico anche che nel 2008 giocammo un Inter-juve il sabato di Pasqua a Milano e perdemmo proprio 1-2, con qualche svista di troppo. L’indomani invece andammo a pranzo a Sacrofano e ricordo soltanto tanta pioggia.

Vi ho regalato due perle frutto della mia infinita memoria, due collegamenti che testimoniano come l’abbinamento Inter-eventi vadano per me di pari passo. Il fatto è che non mi sono mai sforzato a ricordare, ho tutto precisamente nella mia mente, è tutto perfettamente legato.

Per questo motivo quando tiro fuori ricordi lontani, mio padre come prima domanda mi chiede cosa aveva fatto l’Inter quel giorno ed io puntualmente gli dico risultato e marcatori.

Comunque sia, buona Pasqua a tutti, a chi festeggia, a chi crede, a chi la vive come pretesto per una grande abbuffata. Pagherei tutto per mangiarmi un bel pezzo d’abbacchio con le patate al forno, e continuo a ripetere a tutte le persone che sento dall’Italia: “Mangiate per me”.

È la prima volta che faccio Pasqua all’estero, malgrado il detto popolare reciti “Natale con i tuoi e Pasqua con chi vuoi”, lo scorso anno sono andato con i miei genitori ad Ariccia in una delle fraschette a mio avviso migliori. Ricordo il sole, il vento, l’ottima carbonara ed il ritorno in macchina sull’Appia con un cd di Lucio Dalla che avevo fatto a mio padre pochi giorni dopo la morte del cantante.

Qui al residence alla fine non ci sarà nessun raduno fra italiani, ma quando sei lontano da casa anche le feste perdono un po’ la loro importanza e questa Pasqua onestamente non è che la stia avvertendo troppo.

Il tempo è discreto, c’è vento ma non piove, il meteo potrebbe così stabilire un piccolo record se riuscisse a resistere anche oggi: tre giorni di fila senza pioggia.

È tutto da Dublino, buona Pasqua di cuore, ci risentiamo il 2 aprile per il primo bilancio irlandese, quando scoccherà un mese esatto dal mio arrivo.

 

Se ti tradissi, tradirei prima di tutto me stesso e se mi conosci bene sai che non lo farei mai.