Il Tour dei Balcani: “In Kosovo non ci si arriva neanche in spalla di Dio…” a Belgrado invece?

Sarajevo si risveglia con un sole caldo, quello che cerchi quando ti ritrovi a passeggiare all’ombra, sembra una mattinata di fine ottobre a Roma, intanto, decido di puntare dritto verso i due musei principali, prima però passo nuovamente sul luogo del delitto, quello di Gavrilo Princip per vederlo con la luce del giorno. Quello che mi appare evidente è il fatto che dovrò muovermi con i tempi giusti perché dovrò raggiungere con un taxi la famosa autostazione in periferia non oltre mezzogiorno visto che alle 12:30 parte il pullman per la Serbia, perderlo significherebbe mandare all’aria molte cose. Percorro ancora il vialone del centro città, chiedo informazioni ad un poliziotto e mi avvisa che il Museo Nazionale è chiuso mentre quello Storico è aperto, onestamente sono contento di non dover rinunciare a quello più interessante. Arrivo in prossimità dell’edifico e faccio un piccolo video, Sarajevo è davvero marchiata da questi enormi palazzoni, quello alle mie spalle non saprei decifrarlo in piani.

Il Museo Storico ruota intorno alla guerra, ma un’ala è dedicata solo al conflitto degli Anni 90 con una apprezzabile mostra fotografica che srotola il nastro di quel periodo immortalando i volti dei civili e la quotidianità del popolo bosniaco. Non è facile concentrarsi su ciò che si vede perché in sottofondo si sentono le testimonianze dei sopravvissuti, l’audio della sala video è toccante, soprattutto i pianti che spesso mi distraggono. Ritagli di giornale, documenti, immagini, ricostruzioni di come erano le case di un tempo, oltre ai prodotti classici che venivano mandati come aiuti umanitari, c’è veramente tutto, oltre a un immancabile percorso utile a riepilogare i fatti della guerra. È tutto molto interessante e mi tornano in mente dei flash di quando ero bambino e vivevo ogni giorno questo dramma con le notizie del telegiornale, ripenso a tutto ciò e capisco veramente che il motivo per cui sono qui è proprio quello, questa familiarità inspiegabile e terribile con quegli eventi. Al piano inferiore si trova un salone in cui viene ripercorsa la storia della nazionale bosniaca la quale ha disputato per la prima volta nella sua storia un mondiale proprio due mesi fa.

Lascio il museo e mi incammino verso un viale leggermente periferico in cui mi metto a caccia di un taxi, dopo dieci minuti non ne vedo nemmeno mezzo. Ad un punto, ne scorgo uno che mi sorpassa essendo occupato, dopo 50 metri vedo l’automobile tornare indietro e a voce alta esclamo: “Dimme che te stai a fomentà e torni indietro per me, dimmelo su…”. Succede questo, il tassinaro si esalta e mi raccoglie, gli indico l’autostazione, mi dice tempo e costi e partiamo. A un punto si ferma ad un distributore di benzina, scende e toglie la barra luminosa del taxi da sopra il tettuccio, mi dice che è meglio così visto che non potrebbe uscire dal distretto cittadino. In 15 minuti arrivo, pago e compro il biglietto per Belgrado, 20 euro, prendo acqua e patatine, sistemo il trolley e aspetto beatamente la partenza.

Il pullman per il viaggio più lungo è il peggiore, non sono fortunato ma questa attraversata la faremo in pochi, arriveremo nella capitale serba in 5, reduci e invasati senza dubbio. Mi preoccupa un po’ il viaggio, otto ore sono molte, sono solo, non sto bene e ho sulle spalle altri due viaggi fatti nei due giorni precedenti. So che devo “gestirmi” e pianifico un po’ il mio pomeriggio, fino alle 16.30 devo dormire o sonnecchiare, poi mangio, musica, leggo e poi vedremo…Partiamo in orario, dopo 45 minuti ci fermiamo per la prima sosta. Un serbo ci riesce a tradurre ciò che dice il compare dell’autista quando avvisa noi passeggeri, il conducente ha qualcosa di Danilovic e il dettaglio mi rincuora. Ripartiamo, ci fermiamo, mille soste, ad una un tizio al bagno mi guarda e mi fa l’occhiolino, mi riguarda, mi fissa, io lo punto e gli dico: “Oh ma che cazzo vuoi con sto sguardo così…”. Chiudo e apro gli occhi in continuazione, per un’ora penso solo ad un discorso, il tempo passa, il paesaggio è sempre lo stesso degli altri spostamenti anche se noto meno acqua. Rifletto e ripenso ad una famosa frase di Sergio Tavcar: “In Kosovo non ci si arriva neanche in spalla di Dio…” e a Belgrado invece, mi dico? 378 km in otto ore, è normale? I due ragazzi olandesi non parlano quasi mai fra loro, sono amici e viaggiano quasi separati, penso che io e David non saremmo stati zitti un attimo e al primo silenzio un “Ueeeeee” a caso avrebbe fatto ripartire la giostra. Mi informo da una ragazza quando arriveremo alla frontiera, mi dice un’ora, dopo dieci minuti siamo lì. Sale l’agente bosniaco e requisisce i documenti, ripartiamo poco dopo, facciamo 100 metri e arriviamo alla frontiere serba, sale un poliziotto che mi terrorizza solo a vederlo. Enorme, sguardo di ghiaccio, armato, agli olandesi fa una serie di domande, a me no. Ci riconsegnano i passaporti in tempo di record, cerco subito i timbri e noto che insistono nel farli quasi tutti su una pagina e non so perché. Il viaggio ricomincia, bevo, mangio le patatine, mi attacco la musica, il tempo scorre, ormai vivo una dimensione sub-umana.

A Belotic ci fermiamo, manca un’ora e mezza, chiamo i miei, ovviamente c’è il wi-fi, siamo in campagna e le macchine che continuo a vedere sono i modelli della Golf fine Anni 80. In Serbia il tempo è pessimo, in lontananza vediamo lampi a ripetizione, non manca troppo a Belgrado, siamo su una superstrada e poco prima del casello ci blocchiamo senza motivo. Il compare dell’autista scende e carica dal bagagliaio di una Palio bianca una serie di scatoloni che infila nella pancia del pullman, sono molto curioso ma evidentemente non saprò mai il contenuto. Piove, diluvia, entriamo in città e il maltempo imperversa. Sono le 20 passate da poco, arriviamo e fuori c’è un clima invernale, piove a vento, mi bagno in sei secondi, ma appena scendo vengo avvicinato da un signore, un tassinaro che mi propone un passaggio. Gli mostro l’indirizzo, gli dico che ho solo Marchi e non Dinari non avendo ancora potuto cambiare e mi conferma che sa un po’ d’inglese, mi dice “A little”, un attimo dopo capisco che “little” è l’unica parola che sa. Ci capiamo comunque e mi porta all’Hotel Slavija, la macchina al semaforo si muove per quanto vento c’è, gli dò questi 30 marchi e anche se so che ho pagato il doppio del dovuto, considerando la stanchezza, la salute e il tempo infame, mi dico che va bene così. Check-in e salgo in camera, scopro di essere fortunato in quanto dentro l’hotel, uno degli alberghi storici di Belgrado, c’è sia l’ufficio cambio che il ristorante interno. Prendo quasi 3000 dinari, ceno e so che sto a mezzo centimetro dalla febbre, spero di cavarmela perché forse il peggio è passato e finalmente sono arrivato a Belgrado.

(CONTINUA)

 

Il Tour dei Balcani: benvenuti a Sarajevo

Quindici euro e mi infilo il biglietto per Sarajevo in tasca, salgo sul pullman e inizia il viaggio. Due ore e mezza, oppure tre, dipende dal traffico e dalle fermate, comunque sia, nel pomeriggio sarò nella capitale. Sonnecchio un po’, ma non mi addormento mai, fin quando mi sveglio del tutto all’altezza di Jablanica visto che salgono 5 esemplari femminili sui quali a Dio è scappata la mano senza dubbio. Salutano dal finestrino dei parenti (presumo) e sono costrette a farsi un bel pezzo di strada in piedi, come se fossero su un bus cittadino. Scelgo la mia preferita, capisco che abbiamo raccattato delle facili pretendenti al titolo di Miss Bosnia e passo un’ora a fissare la mia prescelta. Mi ricorda vagamente qualcuno, ma più cerco di guardare la campagna, più mi rendo conto di aver cucito gli occhi su colei che diventerà il termine di paragone del mio viaggio. Ci dividiamo ad una successiva fermata quando scendono tutte per prendere un pullman meno colmo, io ne approfitto per sgranchirmi le gambe e comprare un pacchetto di gomme alla menta extra strong per poter alleviare il mal di gola che è ormai entrato nella sua fase da bollino rosso. Gli scenari sono sempre i soliti: verde, montagne, qualche angolo di acqua ma soprattutto campagna. Proseguiamo a inoltrarci nella country-side slava e rimango stupito di come le abitazioni non siano per niente peggiori delle nostre, nemmeno in posti dimenticati dal Signore.

Verso le sei si intravede Sarajevo, arriviamo e come al solito, dopo essere sceso, mi rivolgo all’ufficio informazioni per avere notizie per il giorno dopo e il pullman diretto a Belgrado. Mi dicono che ce n’è uno solo alle 6 di mattina, l’alternativa è andare in una stazione periferica e partire da lì. Per forza di cose questa opzione sarà la mia scelta, nel frattempo punto verso il centro città e faccio tappa in un Mall. Mi infilo gli occhiali da sole subito perché ho capito che la situazione è simile a Spalato, e fissando ogni ragazza non vorrei mai che sbucasse un bosniaco incazzato a dirmi qualcosa. Pur essendo semplicemente ammaliato da cotanta bellezza, riesco a orientarmi subito e a capire come Sarajevo sia stata veramente ricostruita per ampi tratti. Il vialone che mi porta sempre più verso il cuore della città sfodera grattacieli specchiati e nuovissimi, facciate ripulite, spazi verdi e un look tipico da capitale all’avanguardia.

Cammino per un kilometro e spero di inciampare fortunosamente nel memoriale dedicato a Mirza Delibašić, chiedo ad una poliziotta indicazioni per l’hotel e arrivo nella parte vecchia della città la quale è in alcuni sprazzi Mostar in versione gigante. Ho tagliato in due Sarajevo, l’ho attraversata completamente e ho percepito le sue anime quasi immediatamente. Minareti e palazzoni, brand multinazionali e targhe sulle guerra, un mix completo che racconta senza tergiversare la profonda anima poliedrica di questa luogo. Trovo l’hotel che si arrampica su una via, la signora mi accoglie calorosamente ma non sa una parola di inglese. Mi offre caffè e succo d’arancia come drink di benvenuto, cinque minuti più tardi mi posiziono nella mia camera. È la più piccola di tutte: pulita, giusta per una notte, ma con un bagno microscopico nel quale è oggettivamente impossibile farsi la doccia.

Riparto per cena, per una sera scelgo McDonald’s ma prima passo subito nel celeberrimo luogo dove Gavrilo Princip sparò a Francesco Ferdinando e alla moglie Sofia, innescando sostanzialmente la prima Guerra Mondiale. Passeggio davanti la storia e stavolta non è un modo di dire, la via “Ulica Obala Kulina Bana”, il ponte e il fiume, la lapide che incastona e incensa questo posto, il museo che fa angolo raccontano questo pezzo di città. Mi mescolo nuovamente alla folla, un fiume di persone vero e proprio lungo la strada principale, percorro la via attraversata in precedenza e mi fermo davanti alla cattedrale dove spicca la statua enorme di Papa Giovanni Paolo II. Al McDonald’s me la cavo con 8 Marchi (4 Euro) e poi risalgo verso l’hotel. Ottengo le indicazioni per il pullman diretto a Belgrado e cambio un po’ di soldi, osservo alcuni bambini “fare la vasca” per il corso puntando i polli da derubare, e rientro. Le condizioni fisiche non sono ottime, anzi, vivo la notte più complicata visto che non riesco a risposare praticamente mai non riuscendo di fatto a respirare. Nel frattempo ho preso le misure a Sarajevo e ho visto già qualcosa, ma soprattutto, so come dovrò muovermi il giorno successivo, il giorno del viaggio infinito, quello che mi porterà verso la mia ultima tappa: Belgrado.

(CONTINUA)

Chiudete le valigie, si va a Spalato, Mostar, Sarajevo e Belgrado!

“Il mondo è un libro, e quelli che non viaggiano ne leggono solo una pagina.”

(Sant’Agostino)

 

Ci siamo signori, il viaggio che citai per la prima volta al Gallo ormai quasi tre anni fa, prima di andare a correre sui go-kart, sta per cominciare. Poche ore ancora e poi sarà un volo EasyJet a portarmi sull’altra riva dell’Adriatico, precisamente a Spalato, così chiamata da Aspálathos, termine del greco antico con cui ci si riferiva alla ginestra spinosa particolarmente comune nella regione.

È tutto pronto, mi attende una notte praticamente insonne, ma il volo alle 7 con partenza da Fiumicino mi impone una levataccia, una camminata alle 3 per raggiungere la stazione Tiburtina e poi mi recherò in pullman all’aeroporto. Hotel prenotati, informazioni necessarie ottenute, appunti pronti, scarpe comode scelte con particolare cura, gli strumenti del mestiere sono tutti affilati e lucidi per dirla un po’ alla Ranieri. Ancora una volta, mentre molti rientrano io parto, una trend che per il quarto anno accade senza volerlo, evidentemente è destino che io debba andare controtendenza. Sono naturalmente entusiasta, contento di essere riuscito a organizzare questo tour, felice di partire e di farlo in solitaria. Credo con massima onestà che questo sia un viaggio da fare per conto proprio, al massimo lo avrei potuto condividere con David perché il Gallo è ‘nu piezz ‘e core, oppure con Alfredo il quale mostrò un particolare interesse verso la regione balcanica già ai tempi dell’università. Per il resto, va bene così. Niente confronti, libero di muovermi e di cambiare qualcosa in un programma che per forza di cose dovrà essere abbastanza rigido.

Spalato, Mostar, Sarajevo e Belgrado, attraverserò i Balcani dirigendomi nel cuore di questa macro regione tanto frastagliata quanto avvolgente per storia e diversità, terrore e poesia. Ogni giorno sarà un capitolo diverso, con la necessità di orientarsi quanto prima e di perdere poco tempo, individuando le stazioni dei pullman per il giorno successivo. Kilometri e paesi, religioni e colori, etnie e capitali, mi aspetto questo, con le sorprese che in un viaggio on the road non possono mancare. Parto da solo per la quinta volta in vita mia e rimango sempre più dell’idea che l’avventura solitaria abbia un fascino impareggiabile, il viaggio, forse, è proprio questo.

Dopo che troppe persone ultimamente si sono riempite la bocca con il mio slogan pre-partenza, è bene che questa frase torni in possesso del proprietario legittimo e unico, e allora:

 

CHIUDETE LE VALIGIE, SI VA A SPALATO, MOSTAR, SARAJEVO E BELGRADO!

 

“La Jugoslavia ha sei repubbliche, cinque nazioni, quattro lingue, tre religioni, due alfabeti e un solo partito.”

(Tito)

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