Il Tour dei Balcani: “Questa sera, c’è il delirio al Marakana…”

Le donne di Belgrado mi affascinano meno di quelle viste nelle città precedenti. A mio avviso hanno qualcosa di diverso, i tratti tendono all’Est più vero, sono una via di mezzo fra russe e albanesi-romene. Ho la convinzione che un volto del genere lo potrei trovare comodamente al mio fianco su Via Casilina aspettando il 105. Ogni tanto spunta qualche ragazza notevole, ma il livello è senza dubbio più basso. Faccio questo riflessione mentre vado in centro, inizia l’ultimo giorno del viaggio e fortunatamente il sole è bello pieno e si fa sentire. A Piazza della Repubblica incappo in una “buca” del signore incontrato il giorno prima, non si presenta all’appuntamento, non mi avvisa e dopo 20 minuti di attesa me ne vado, consapevole che in fondo sia meglio così, il timore di rimanere magari un po’ incatenato c’era, e rischiare di non vedere qualcosa mi avrebbe infastidito.

(Per dovere di cronaca, mi ha scritto venerdì scorso scusandosi e ricordandomi che le porte a Singapore sono sempre aperte).

Viro così verso la Cattedrale di San Michele e poi passo davanti l’imponente edificio della National Assembly. Sarà il cirillico, saranno i volti, ma a Belgrado ho la netta sensazione di essere veramente a Est, più nell’orbita di Mosca che in quella di Roma, al di là di storici allineamenti mancati. Punto dritto verso il sud della città, destinazione stadio Marakana, l’impianto della Stella Rossa. Cammino più di mezz’ora, mi godo uno scorcio nuovo di Belgrado, un discesone che incrocia una specie di circonvallazione. Da lontano scorgo i riflettori e seguo la strada, all’improvviso lo stadio si svela davanti a me dopo una serie di alberi enormi. Lo circumnavigo e passo dalla parte sbagliata, camminando arrivo a un punto in cui trovo un cancello aperto e senza tentennare un attimo entro. Il Marakana è lì sotto ai miei occhi, 54 mila seggiolini vuoti, sono sul lato della curva e mi torna in mente ancora la storica frase di Davide: “A Mattè, al Marakana è ‘na bolgia, non se passa…” Credo sia effettivamente così, quasi 60 mila serbi incazzati potrebbero veramente farti tremare un po’ le gambe quando calchi un terreno del genere. Mi avvio verso il museo, risparmio 450 Dinari mostrando la tessera stampa e mi metto a parlare con il responsabile, uno di quelli che vivono per il club e se gli dai un ruolo del genere sai di renderlo l’essere più felice al mondo. È un almanacco vivente, parliamo della squadra della leggenda, quella in grado di compiere l’impresa del 1991 vincendo la Champions e poi entro in tribuna stampa, mi faccio scattare un paio di foto e ripenso al tormentone dell’estate, la canzone simbolo dei mondiali, quella di Emis Killa “Maracanã”. Nell’anno della coppa del Mondo, anche io, nel mio piccolo e ironicamente, potrò raccontare di essere stato al Marakana.

Dopo aver visitato lo store e aver ricevuto un invito con tanto di accredito per vedere un derby dal gentile tipo del museo, mi allontano e punto lo stadio del Partizan, cinque minuti di camminata e sono lì, più piccolo e meno scenico, impossibile entrare, guardo la struttura e riparto. Mi fermo in una specie di fast-food locale, prendo un panino con i ćevapčići, me ne mettono dentro 6-7 con un sacco di maionese, è buonissimo e gustoso, la pezza giusta per arrivare fino a cena. Dirigendomi verso l’hotel mi fermo ancora al tempio di San Sava, la sua imponenza mi affascina così come le persone che entrano e dopo aver pregato baciano i quadri della Madonna, un gesto ricorrente e normale per gli ortodossi.

Rubo un po’ di wi-fi all’albergo e riempio il tempo prima di imbarcami per l’aeroporto dissetandomi con un bel Mojito analcolico e comprando un paio di gadget, tra cui il portachiavi della Jugoslavia perché sono uno storico e un nostalgico. Rimango stupito per l’ennesima volta della disciplina dei serbi che si fermano sempre e a dieci metri dal pedone se devi attraversare, un rispetto che ho visto in vita mia solo a Montecarlo. L’episodio rafforza nuovamente la mia tesi secondo la quale se vuoi avere una mezza impressione di un popolo lo devi vedere a casa propria, noi inevitabilmente abbiamo un’idea sbagliata e negativa degli slavi, tendiamo a generalizzare ma personalmente in una settimana a spasso per i Balcani, non ho avuto un problema e ho riscontrato grande cordialità, rispetto ed educazione.

L’ultimo prodezza che mi regala l’hotel Slavija è la possibilità di prendere il bus diretto per l’aeroporto attraversando la strada, una comodità unica, 300 Dinari e sono a bordo, sono le 19:00, il volo è alle 21:30, sono sereno e comodo con gli orari, imbocchiamo finalmente un’autostrada, il sole tramonta, Belgrado svanisce alle mie spalle. Il viaggio è finito, si torna a casa.

 

Cosa ti è piaciuto di più? Questa è la consueta e ovvia domanda che ti senti fare al ritorno da un’esperienza del genere, a tutti però ho risposto nello stesso modo: “Mi è piaciuto il viaggio”. Se devo essere sincero, il viaggio nella sua essenza è ciò che mi porterò dietro, il fatto di essere stato costantemente in viaggio, di aver sperimentato qualcosa di diverso. Ricorderò scorci e volti, odori e nomi di vie, ma è il valore del percorso che pesa, le emozioni e quello status del solitario alla scoperta di nuovi luoghi. È stata una magnifica parentesi e onestamente quello che ho capito fino in fondo è una cosa in particolare:

“I Balcani, non sono una regione geografica. I Balcani, sono uno stato d’animo”.

(Sergio Tavcar)

(FINE)

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Il Tour dei Balcani: Бeoгpaд / Beograd

L’hotel Slavija è uno degli alberghi storici di Belgrado. Palazzone di evidente timbro comunista anni 70-80, posizionato in una zona strategica e a 15 minuti dal centro città. L’arredamento è un pochino datato ma il servizio offerto è ottimo, considerando anche l’ufficio cambio e il ristorante, se a tutto ciò si aggiunge il prezzo di 15 euro a notte e colazione compresa, è evidente che siamo dinnanzi ad un affare.

Il maltempo della sera precedente lascia lentamente spazio al sereno, l’Oki preso prima di dormire mi ha ristabilito e la mia tappa iniziale è la fortezza. Per raggiungerla percorro il corso cittadino e la zona pedonale, Belgrado si differenzia da Sarajevo per tanti motivi, il primo e più facile da intravedere è l’effetto della guerra. La capitale serba, rispetto a quella bosniaca, l’ha sofferta molto meno, non è stata distrutta e gli edifici lo testimoniano, il colpo d’occhio è diverso. Il bianco a Sarajevo è grigio a Belgrado, le facciate dimostrano il peso degli anni, non c’è stata nessuna ricostruzione (se non in funzione della guerra con il Kosovo del 1999), di conseguenza tutto è meno nuovo. La fortezza si innalza all’interno di un bel parco, curato e circondato da attrazioni diverse: i campi da tennis in cui i bambini prendono lezioni da un’istruttrice notevole, l’area con i dinosauri, cannoni e carri armati qua e là, mentre sul versante nord il panorama sono i due enormi fiumi, Sava e Danubio che si incrociano. Il sole inizia a riscaldare l’aria, lascio la mia prima meta, faccio un giro per Piazza della Repubblica e visito il National Museum che espone tre esibizioni. Punto successivamente Skadarska, la via bohemien della città la quale non mi affascina più di tanto e poi decido di andare a camminare lungo fiume, ai bordi del Danubio. Un cameriere mi invita a prendere il bus gratis, senza pagare, io desisto e me la faccio a piedi, dopo mezz’ora il poderoso Danubio si staglia davanti a me. Di fatto mi ritrovo sotto la fortezza e decido di risalire facendo un percorso alternativo.

Tira vento, ma fa caldo adesso, sono passate le 14:00 e mi fermo a una specie di rosticceria per uno spuntino. È il penultimo giorno del viaggio e rifletto sul fatto che ancora non c’è stato un grande personaggio, che non mi sono ancora imbattuto in qualcuno da ricordare. Azzanno l’hot-dog e un signore affianco a me attacca bottone, parliamo serenamente e dopo aver sbrigato i soliti convenevoli: provenienza, motivo della visita e quant’altro, ci incamminiamo insieme per il centro. Mi offre un caffè, conversiamo amabilmente, si parla di lavoro e ognuno della propria vita attuale, il tizio in questione è un serbo di 36 anni che da 15 gira il mondo, vive attualmente a Singapore, parla 5 lingue ed è a Belgrado per visitare la famiglia. Il personaggio è scaltro e di cultura, parla e sa quello che dice, si capisce che non è uno sprovveduto, anche se io rimango sempre un pochino sulla difensiva e vigile.

Si candida a guida personale, vorrebbe regalarmi un libro di storia serba in inglese dopo aver compreso i miei interessi ma non troviamo nessun testo di questo genere. Mi ripete che non ha alcun doppio fine, ne soldi ne tanto meno sesso, lo sottolinea perché evidentemente capisce che una tale disponibilità, al giorno d’oggi, può essere facilmente male interpretata, soprattutto da un turista. Mike, così si fa chiamare, si rivela un personaggio sorprendente, sa una marea di cose e il fatto di aver vissuto in Siria, Etiopia, e in altri posti, si capisce che gli ha dato molto. Mi accompagna così al tempio di San Sava, la chiesa ortodossa più grande del mondo, incrociamo i tifosi del Partizan che si incontrano in questo luogo sacro prima di raggiungere in corteo lo stadio e mi spiega la differenza delle tifoserie di Belgrado.

L’ultima tappa è San Marco, prima ci dissetiamo in un bar e poi mi chiede se mi interesserebbe lavorare magari con lui a Singapore. È un consultant in un’azienda di telecomunicazioni, dice che potrei essere senza dubbio all’altezza, insomma, mi formalizza praticamente un’offerta di lavoro. Gli spiego la mia situazione ma l’opportunità l’annoto mentalmente, non si sa mai mi dico e con questa crisi, potrebbe essere un jolly da tenere nel taschino. Ci salutiamo dopo 4 ore di piacevole compagnia, gli lascio la mia mail, decidiamo di rivederci la mattina successiva e rientro in hotel. Mike mi ha raccontato molte cose ma nonostante tutto anche lui, uomo di mondo, mi sottolinea come nella guerra dei Balcani i serbi avessero ragione e argomenta la sua tesi in maniera per alcuni aspetti interessante.

Dopo cena cedo alla tentazione e mi infilo nel casinò-sala scommesse adiacente l’ingresso del mio albergo, un giro alla roulette devo farlo, di camminare ancora non ne ho più voglia e quindi mi piazzo intorno al tavolo. Parto piano, entro con 100 Dinari, perdo subito e ne metto altri 100, perdo ancora e ne infilo dentro 200 cominciando la mia risalita. Ho studiato il tavolo, continua a uscire nero ma a un punto cambia tutto. Cerco mentalmente di anticipare le mosse, ne becco parecchie, la roulette è magnifica perché dannatamente democratica, non ci sono tattiche e abilità, ma io sono sempre convinto che un po’ di ragionamento sia utile. Vinco, perdo, mi sto per alzare all’ultima puntata ma azzecco “nero e pari”. Comincia la scalata, mi rimetto in linea di galleggiamento, è quasi l’una e intorno al tavolo siamo in due. Supero la quota giocata, ossia 400 Dinari e quando arrivo a 715 premo cashout e riscuoto. Ho vinto una miseria, ma non ho perso. Alla roulette conta questo, è un discorso di onore. Sono felice come se avessi guadagnato chissà quale somma, entro in camera festoso fra canti e cori da stadio. Forse sono già in clima, perché una delle destinazioni dell’ultimo giorno è proprio il Marakana di Belgrado…

(CONTINUA)

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Il Tour dei Balcani: “In Kosovo non ci si arriva neanche in spalla di Dio…” a Belgrado invece?

Sarajevo si risveglia con un sole caldo, quello che cerchi quando ti ritrovi a passeggiare all’ombra, sembra una mattinata di fine ottobre a Roma, intanto, decido di puntare dritto verso i due musei principali, prima però passo nuovamente sul luogo del delitto, quello di Gavrilo Princip per vederlo con la luce del giorno. Quello che mi appare evidente è il fatto che dovrò muovermi con i tempi giusti perché dovrò raggiungere con un taxi la famosa autostazione in periferia non oltre mezzogiorno visto che alle 12:30 parte il pullman per la Serbia, perderlo significherebbe mandare all’aria molte cose. Percorro ancora il vialone del centro città, chiedo informazioni ad un poliziotto e mi avvisa che il Museo Nazionale è chiuso mentre quello Storico è aperto, onestamente sono contento di non dover rinunciare a quello più interessante. Arrivo in prossimità dell’edifico e faccio un piccolo video, Sarajevo è davvero marchiata da questi enormi palazzoni, quello alle mie spalle non saprei decifrarlo in piani.

Il Museo Storico ruota intorno alla guerra, ma un’ala è dedicata solo al conflitto degli Anni 90 con una apprezzabile mostra fotografica che srotola il nastro di quel periodo immortalando i volti dei civili e la quotidianità del popolo bosniaco. Non è facile concentrarsi su ciò che si vede perché in sottofondo si sentono le testimonianze dei sopravvissuti, l’audio della sala video è toccante, soprattutto i pianti che spesso mi distraggono. Ritagli di giornale, documenti, immagini, ricostruzioni di come erano le case di un tempo, oltre ai prodotti classici che venivano mandati come aiuti umanitari, c’è veramente tutto, oltre a un immancabile percorso utile a riepilogare i fatti della guerra. È tutto molto interessante e mi tornano in mente dei flash di quando ero bambino e vivevo ogni giorno questo dramma con le notizie del telegiornale, ripenso a tutto ciò e capisco veramente che il motivo per cui sono qui è proprio quello, questa familiarità inspiegabile e terribile con quegli eventi. Al piano inferiore si trova un salone in cui viene ripercorsa la storia della nazionale bosniaca la quale ha disputato per la prima volta nella sua storia un mondiale proprio due mesi fa.

Lascio il museo e mi incammino verso un viale leggermente periferico in cui mi metto a caccia di un taxi, dopo dieci minuti non ne vedo nemmeno mezzo. Ad un punto, ne scorgo uno che mi sorpassa essendo occupato, dopo 50 metri vedo l’automobile tornare indietro e a voce alta esclamo: “Dimme che te stai a fomentà e torni indietro per me, dimmelo su…”. Succede questo, il tassinaro si esalta e mi raccoglie, gli indico l’autostazione, mi dice tempo e costi e partiamo. A un punto si ferma ad un distributore di benzina, scende e toglie la barra luminosa del taxi da sopra il tettuccio, mi dice che è meglio così visto che non potrebbe uscire dal distretto cittadino. In 15 minuti arrivo, pago e compro il biglietto per Belgrado, 20 euro, prendo acqua e patatine, sistemo il trolley e aspetto beatamente la partenza.

Il pullman per il viaggio più lungo è il peggiore, non sono fortunato ma questa attraversata la faremo in pochi, arriveremo nella capitale serba in 5, reduci e invasati senza dubbio. Mi preoccupa un po’ il viaggio, otto ore sono molte, sono solo, non sto bene e ho sulle spalle altri due viaggi fatti nei due giorni precedenti. So che devo “gestirmi” e pianifico un po’ il mio pomeriggio, fino alle 16.30 devo dormire o sonnecchiare, poi mangio, musica, leggo e poi vedremo…Partiamo in orario, dopo 45 minuti ci fermiamo per la prima sosta. Un serbo ci riesce a tradurre ciò che dice il compare dell’autista quando avvisa noi passeggeri, il conducente ha qualcosa di Danilovic e il dettaglio mi rincuora. Ripartiamo, ci fermiamo, mille soste, ad una un tizio al bagno mi guarda e mi fa l’occhiolino, mi riguarda, mi fissa, io lo punto e gli dico: “Oh ma che cazzo vuoi con sto sguardo così…”. Chiudo e apro gli occhi in continuazione, per un’ora penso solo ad un discorso, il tempo passa, il paesaggio è sempre lo stesso degli altri spostamenti anche se noto meno acqua. Rifletto e ripenso ad una famosa frase di Sergio Tavcar: “In Kosovo non ci si arriva neanche in spalla di Dio…” e a Belgrado invece, mi dico? 378 km in otto ore, è normale? I due ragazzi olandesi non parlano quasi mai fra loro, sono amici e viaggiano quasi separati, penso che io e David non saremmo stati zitti un attimo e al primo silenzio un “Ueeeeee” a caso avrebbe fatto ripartire la giostra. Mi informo da una ragazza quando arriveremo alla frontiera, mi dice un’ora, dopo dieci minuti siamo lì. Sale l’agente bosniaco e requisisce i documenti, ripartiamo poco dopo, facciamo 100 metri e arriviamo alla frontiere serba, sale un poliziotto che mi terrorizza solo a vederlo. Enorme, sguardo di ghiaccio, armato, agli olandesi fa una serie di domande, a me no. Ci riconsegnano i passaporti in tempo di record, cerco subito i timbri e noto che insistono nel farli quasi tutti su una pagina e non so perché. Il viaggio ricomincia, bevo, mangio le patatine, mi attacco la musica, il tempo scorre, ormai vivo una dimensione sub-umana.

A Belotic ci fermiamo, manca un’ora e mezza, chiamo i miei, ovviamente c’è il wi-fi, siamo in campagna e le macchine che continuo a vedere sono i modelli della Golf fine Anni 80. In Serbia il tempo è pessimo, in lontananza vediamo lampi a ripetizione, non manca troppo a Belgrado, siamo su una superstrada e poco prima del casello ci blocchiamo senza motivo. Il compare dell’autista scende e carica dal bagagliaio di una Palio bianca una serie di scatoloni che infila nella pancia del pullman, sono molto curioso ma evidentemente non saprò mai il contenuto. Piove, diluvia, entriamo in città e il maltempo imperversa. Sono le 20 passate da poco, arriviamo e fuori c’è un clima invernale, piove a vento, mi bagno in sei secondi, ma appena scendo vengo avvicinato da un signore, un tassinaro che mi propone un passaggio. Gli mostro l’indirizzo, gli dico che ho solo Marchi e non Dinari non avendo ancora potuto cambiare e mi conferma che sa un po’ d’inglese, mi dice “A little”, un attimo dopo capisco che “little” è l’unica parola che sa. Ci capiamo comunque e mi porta all’Hotel Slavija, la macchina al semaforo si muove per quanto vento c’è, gli dò questi 30 marchi e anche se so che ho pagato il doppio del dovuto, considerando la stanchezza, la salute e il tempo infame, mi dico che va bene così. Check-in e salgo in camera, scopro di essere fortunato in quanto dentro l’hotel, uno degli alberghi storici di Belgrado, c’è sia l’ufficio cambio che il ristorante interno. Prendo quasi 3000 dinari, ceno e so che sto a mezzo centimetro dalla febbre, spero di cavarmela perché forse il peggio è passato e finalmente sono arrivato a Belgrado.

(CONTINUA)

 

Due giorni dopo

Parlare dopo è sempre facile, dare il proprio giudizio a giochi fatti è una delle cose più convenienti, soprattutto quando si può criticare. Ho aspettato volutamente oggi per scrivere un post riguardo la folle notte di Marassi, ho atteso i resoconti del giorno dopo e le mille chiacchiere di cui si sono riempite radio tv e giornali. Dopo aver ascoltato attentamente tutti questi discorsi, cerco di tracciare la mia opinione, sconfessando anche delle affermazioni che ritengo tuttora inammissibili.

I tifosi serbi hanno avuto un comportamento pessimo già dal pomeriggio quando hanno avuto la geniale idea di imbrattare Palazzo Ducale e creare il panico per le vie della città. Non condivido il corteo che gli è stato concesso, soprattutto se si considera il percorso non breve che hanno fatto: da via XX settembre a Marassi (oltre 2 km e mezzo). Questo ha permesso ai delinquenti serbi (non tifosi) di mettere a soqquadro un bel pezzo di Genova. È ridicola invece la giustificazione che qualche esponente della polizia ha provato a dare riguardo l’arsenale e gli oggetti contundenti che i serbi hanno potuto portare nel loro settore. Considerando la situazione all’esterno dello stadio, questi teppisti sono stati fatti entrare dentro rapidamente, senza controlli e quindi con tutte le facoltà e i mezzi per poter mettere a repentaglio la sicurezza di almeno 20 mila spettatori. Zero controlli, pessima l’idea del corteo scortato, sciagurato il pensiero di far intervenire i poliziotti nel settore ospiti. Qualcuno ha detto che sarebbe venuta fuori una carneficina se le forze dell’ordine fossero intervenute in quel modo, l’affermazione è fin troppo banale mentre è assurdo che qualcuno si compiaccia del fatto che ciò non è avvenuto: non sono stati “bravi”, hanno semplicemente ragionato anche perché non si poteva fare diversamente. L’unica azione fattibile poteva essere quella degli idranti, i quali sono stati anche srotolati ma poi accantonati, l’acqua avrebbe potuto sedare un po’ la situazione senza creare danni esagerati.

La protesta è stata solo ed esclusivamente politica. I facinorosi serbi hanno scelto l’occasione migliore, ovvero una partita di calcio internazionale con buona risonanza, per manifestare alcune delle loro idee. La sconfitta con l’Estonia di quattro giorni prima e il “tradimento sportivo” di Stojkovic c’entrano poco, soprattutto dopo che i giocatori erano stati già “punti” con il folle gesto del petardo lanciato sul pullman della nazionale serba. La  protesta ha preso così i contorni prettamente politici e sociali, in particolar modo dopo il “Gay Pride” che si era tenuto a Belgrado pochi giorni prima. Anti europei, nazionalisti, anti-Nato, i serbi hanno rivendicato la loro opinione sul Kosovo e lo hanno fatto in una nazione che ha mandato truppe in aiuto nel territorio in questione. Scatenare l’inferno in Italia mentre si manifestava per il Kosovo, in un’occasione in cui si commemoravano 4 soldati italiani uccisi in Afghanistan, è stata una situazione che gli ultra-nazionalisti non potevano farsi sfuggire. In sintesi, la violenza dei serbi, è stata prettamente politica sfruttando una manifestazione sportiva.

Lo stadio non era di certo il migliore a livello strutturale e nemmeno a livello di posizione per ospitare un evento del genere, ancor meno per accogliere una delle tifoserie più calde e violente del panorama europeo. Lo stadio “molto inglese” di Genova non ha aiutato le operazione delle polizia sia dentro che fuori, mentre le tribune attaccate al campo, non hanno permesso che si giocasse. Considerando la capienza, la posizione e la struttura interna dello stadio, Bologna o Catania sarebbero stati più indicati, di certo la partita si sarebbe potuta giocare ed i portieri non avrebbero rischiato di trovarsi fumogeni in mezzo ai loro piedi con una tale facilità. Per quanto riguarda la scelta delle sede dove ospitare l’incontro, le autorità italiane hanno sbagliato completamente.

Come è possibile che tanti criminali serbi con precedenti noti, pur non essendo cittadini dell’Unione Europea, abbiano messo piede in Italia con tale semplicità? È chiaro che non ci siano stati grandi controlli alla frontiera, altrimenti personaggi come Ivan Bogdanov, che ha avuto la sua mezz’ora di popolarità, non sarebbero entrati. È strano per non dire preoccupante, vedere che personaggi potenzialmente pericolosi possano girare per l’Europa armati e con evidenti intenzioni, senza un minimo di controllo.

In una delle serate più buie della Nazionale italiana, ha perso lo sport e ha stravinto il violento fanatismo politico; qualcuno pagherà sicuro, la stangata dell’Uefa è bene che colpisca duramente la Serbia ma anche l’Italia, non dal punto di vista sportivo ma di sicuro sotto l’aspetto organizzativo.