“Hai capito che era l’ultima volta quella?”

Me lo chiedo spesso se quella persona pensava che nel momento in cui stava facendo quella determinata azione, fatta altre centinaia o migliaia di volte, poteva immaginare che invece, quella volta, era l’ultima. Ci penso spesso e a volte l’ho chiesto a qualcuno.

Ci pensai anni fa, domandandomi se il “Super Eroe” fosse a conoscenza del fatto che mentre lasciava casa di Francesca sarebbe stata l’ultima, visto che il giorno dopo si sarebbero lasciati.

Anni fa invece, camminando per Budapest, chiesi a mio padre se l’ultima volta che era stato lì aveva pensato che quello sarebbe stato l’atto conclusivo dopo una serie infinita. La risposta fu: “Un po’ sì” alludendo al fatto che una era si stava per chiudere, e quindi, quel viaggio di ritorno verso Roma, in qualche modo poteva certificare uno sbarramento.

Mi incastro spesso in questa riflessione che ovviamente ha anche la versione più drammatica. Tipo di chi muore, magari in un incidente e quindi non si aspetta certo che la mattina possa essere l’ultima volta che vede la moglie o i figli. Ci penso frequentemente a queste cose, o almeno in modo puntuale quando capita qualcosa che mi conduce a questa considerazione.

Io, ad esempio, che il 29 marzo del 2009 fosse l’ultimo derby per tantissimo tempo mica lo immaginavo. Certo, speravo che la Fortitudo finisse in A2 ma mai avrei pensato che sarebbe passata una vita prima di incontrarci di nuovo, così come mai avrei creduto che potesse capitare nella serie cadetta.

A quella tripla di Vukcevic sulla sirena esultai come un gol al novantesimo, significava espugnare il PalaDozza e fare 2 su 2 nelle stracittadine della stagione, soprattutto dopo aver perso entrambe le sfide dell’anno precedente.

Il 2009 dicevo, una vita fa, sono passati quasi 8 anni, eravamo nel bel mezzo della terza serie, il terzo anno di università, tre giorni dopo lei mi avrebbe svelato il suo nome nascosta dietro dei Rayban verdi mentre indossava un giacchetto nero di pelle.

Più o meno un miliardo di cose dovevano ancora succedere e Mou si apprestava a vincere il suo primo scudetto, la Juve era invece una squadra qualunque. Una squadra neo-promossa l’anno prima in cerca ancora di identità e qualità.

Be, insomma, quello fu il derby 103 di Bologna, 93 mesi dopo è andato in scena il 104. Nel mezzo, retrocessioni, una squadra sparita, rifondata, sdoppiata, promozioni, mancati ripescaggi, una ridda di fatti piuttosto drammatici che hanno generato il primo derby delle Due Torri in A2, a Casalecchio.

Dopo anni, il mio sguardo è tornato così a cercare subito la data del derby al momento della pubblicazione del calendario. Sarebbe dovuto essere il 23 dicembre, e ricordo di aver pensato anche: “Sarò a casa, a Roma, e potrò guardarlo come ai vecchi tempi”. Manco per niente, invece.

Partita rinviata al 6 gennaio e io ero già qui, nuovamente. In un posto dove l’Epifania non è festa e pertanto non ho potuto vedere la gara. In poche parole, un colpo al cuore.

Aspetti 8 anni per vedere questa partita, te la piazzano nel calendario facendoti un regalo, sembra troppo bello, infatti la spostano e tu vivi la beffa.

Malgrado tutto, alla fine, l’attesa mi ha coinvolto anche a Toronto e ho aspettato la partita con enorme coinvolgimento. Per un attimo ho pensato anche di darmi malato. Il derby, è anche questo.

Ho seguito la gara sul sito della Legabasket, poi sono stato portato via da un meeting fiume, quando sono tornato la gara si stava avviando verso la fine con un equilibrio che manteneva tutto aperto. Col passare dei minuti sono piombato in una trance agonistica vera, mi sono isolato totalmente visto che la Fortitudo sembrava mantenere il piccolo vantaggio. Nel finale poi, pareggio nostro e la possibilità di vincere la partita per entrambe le squadre, fino all’epilogo del supplementare.

Il sito ad un punto ha iniziato ad impazzire inventando risultati in tempo parziale non veri come un certo 79-84 mai esistito ma che mi ha fatto sbiancare, a quel punto per capire meglio mi sono dovuto consegnare al mostro dell’angoscia per antonomasia: la radio.

Mi sono imbattuto in una radiocronaca di Radio Nettuno in cui dopo 5 secondi ho capito che chi parlava tifava non per l’altra parrocchia. E mentre vivevo gli ultimi possessi in apnea, pensando qualunque insulto verso i due e a tutto ciò che rappresentavano, mi sono reso conto che mi ero alzato in piedi con il cavo delle cuffie tirato, in pieno clima derby.

Paura soprattutto, oltre al fastidio di non poter vedere e quindi capire in prima persona quello che stava succedendo, ma ancor di più la smania di vincere e di batterli ancora. Per un paio di minuti credo di essermi estraniato da tutto e mentre la frequenza cardiaca aumentava, per un attimo mi sono ricordato perché tifo, perché in fondo quella canotta con la V nera significa qualcosa, un sentimento, e tutto il resto è solo conseguenza.

Mentre la Fortitudo sbagliava il possesso finale, quello del sorpasso, ho capito che mi stavo lasciando andare, anche forse a un semplice: “Merde attaccateve ar cazzo”.

Non l’ho fatto, e nel godimento profondo di sentire le voci roche e tristi dei due radiocronisti fortitudini, mi sarei voluto buttare a terra per la gioia ma pure per il dispiacere, sì quello di non aver visto e vissuto degnamente un derby così. Una gioia del genere.

Non pensavo che avrei dovuto aspettare otto anni, ma è successo, e chissà quando ricapiterà una roba di questo tipo, ma in fondo l’ho “perso”, e certe emozioni, non si possono rivivere.

Quando mi chiedono cosa mi manchi di più dell’Italia, una delle mie risposte è questa: il fatto che tutto quello che perdi poi non tornerà. È una certezza, nel bene e nel male. Certe sensazioni non hanno prezzo e non sai mai quando torneranno, anzi, a volte potrebbero passare e potresti non rivederle mai più.

Non ci è dato infatti sapere quando qualcosa ha deciso di succedere per l’ultima volta, spero solo che non sia questo il caso, perché nonostante tutto, è stata un Befana che ricorderò.

Perché sì, a Casalecchio di Reno, finisce 87-86 per la Virtus che vince il derby numero 104.

Laila

In questa sorta di estraniamento (non penso sia la parola corretta ma non me ne viene in mente una migliore) che vivo da queste parti ormai da un po’ di tempo, non so perché ma da alcuni giorni mi continuano a tornare in mente delle immagini e dei fatti del 2009.

La spiegazione non c’è ma sta succedendo e il ricordo che continua a farmi sorridere è uno del marzo 2009, una istantanea che si è fatta largo nei miei pensieri martedì scorso in un profondo momento di noia durante una riunione.

L’episodio avvenne nella settimana che portava al mio compleanno numero 22 e si consumò nei corridoi dell’università. Mentre attendevo che Fermata finisse la sua lezione fuori dalla T30, mi si avvicinò una ragazza che mi chiese se sapevo quale lezione ci fosse in quel momento nell’aula. Le risposi e iniziammo a parlare. Poche battute dopo si presentò, “Piacere Laila”, un nome insolito che perfettamente si abbinava ad una ragazza indubbiamente carina, ma soprattutto frizzante, quelle tutte pimpanti e sprint, quelle che in pochi minuti ti sanno attrarre per il loro modo di fare, per la capacità di saperci fare. Mentre parlavo piacevolmente con la mia nuova conoscenza, sopraggiunse di gran carriera il nostro Catto preferito che finita una lezione stava traslocando per raggiungerne un’altra. Dopo un paio di battute, David si presentò a Laila e successivamente si congedò dicendo alla ragazza “Laila, te schieri”, andandosene mi guardò e con una precisa espressione facciale ribadì il “Se schiera”. Trattenni il sorriso con palese difficoltà, poco dopo le porte della T30 si aprirono, Fermata uscii e mi raggiunse, mentre Laila imboccò in classe per intercettare il professore.

Due mesi dopo rividi Laila per la seconda volta ad una festa organizzata dalla componente comunistoide della nostra facoltà e nel buio di Tor Vergata non la riconobbi mentre lei mi salutò. In quell’incredibile e vorticoso 2009 ricco e denso di avvenimenti e passaggi importanti, Laila continua ad avere il suo piccolo ma intoccabile spazio, un po’ per il suo nome, un po’ per l’immagine memorabile di David che mi guarda da lontano e mi mima il “Se schiera”.

C’è a mio avviso un qualcosa di profondamente emblematico in tutto ciò ma soprattutto un qualcosa di assolutamente divertente. A me quella istantanea fa ridere a distanza di anni e proprio oggi gliel’ho voluta ricordare, un riferimento che ovviamente ha saputo cogliere subito.

Quel 2009 fu un anno troppo importante per milioni di ragioni, fu l’anno in cui “saltò il tappo” sotto tanti aspetti, un anno di porte girevoli, di incontri, di cambiamenti, di persone dentro e altre fuori, di arrivi e ritorni, di emozioni indubbiamente, nel bene e nel male.

Un anno diviso in due parti, fra rincorse di vario tipo, psicodrammi, l’estate a “Wigan Pier”, la Tesissea, fu un anno troppo importante perché col senno del poi fu la base necessaria per la memorabile annata successiva.

C’è un qualcosa di stupidamente (forse nemmeno tanto alla fine) epico in quel 2009, più che altro ripercorrendo certi passaggi ripensavo alla quantità di cose ed eventi che capitarono. Al saliscendi emotivo, al costante richiamo di stimoli.

Senza dubbio pagherei mensilmente una tassa per avere un decimo di quel fervore, di quel fomento, di quel continuo dentro e fuori, e la certezza che ogni settimana era realmente un altro giro di ruota. Fantastico.

Ci ripensavo questa mattina mentre cercavo di mantenere l’equilibrio camminando fra neve e ghiaccio, ripensavo a quel tipo di sensazioni, alla concezione di tempo denso e ricco, e mi è tornato in mente quanto invece ne sto sprecando, quanto mi annoio, quanto giro a vuoto, quanto non so che fare durante il week-end, quanto non mi appartiene questo luogo, ammettendo anche a me stesso quanto in gran parte ormai anche a Roma non mi senta più centrato del tutto, una sensazione vissuta proprio nel 2015 appena archiviato. Questo fatto di non sentirmi a casa in nessun posto, o di non sentirmici più come in passato, come appunto nel 2009 ad esempio, mi infastidisce, mi crea una sorta di vicolo cieco.

Giorni fa mi ponevo delle condizioni, nel senso che mi dicevo “Ma se dovesse succedere questo, come sarebbe? Quanto cambierebbe la mia percezione di alcune cose? E se invece capitasse quest’altro quanto inciderebbe? Alla fine di questo elenco ho avuto la convinzione che in fondo non sia nemmeno un fatto di dinamiche, di episodi o di un qualcosa che va in verso piuttosto che in altro, credo semplicemente che non ci sia troppo da fare.

Un discorso di stimoli e voglia, di desiderio, di piacere. Tutto queste cose non ci sono e quindi tutto sembra una grossa perdita di tempo, che poi magari ha ragione Cuomo quando afferma che per chi sa aspettare c’è sempre un meraviglioso arrivo e che le cose belle hanno il passo lento, io però mi sa che sono entrato in una overdose di noia, un po’ quando dici “Aho, ma io me so rotto il cazzo”.

Ecco, quella frase lì e quella sensazione lì, magnifica nella sua essenza e nella sua capacità di trasmettere il messaggio senza il rischio di essere fraintesa.

La grandezza semantica di certe esclamazioni.

Il periodo che mi descrive meglio

Non vorrei stare lì sempre a rivangare certe cose, però in fondo provo un piacere nel farlo che deriva da non so dove. Troppo facile la scusa del tipo nostalgico, la realtà è che ultimamente Gabriele mi manda le immagini della sua applicazione TimeHop la quale gli ricorda i suoi status su Facebook giorno per giorno scritti nei vari anni. Una sorta di enorme mostro che ricalcola e ti spedisce all’indietro. Più me li manda e più commentiamo. Un po’ perché sono il suo biografo, un po’ perché in quegli anni ci sono episodi e passaggi che si intrecciano, resta il fatto che questa app ci porta alla deriva fra riferimenti e ricordi.

Ultimamente, essendo dicembre, e quindi mese di lauree e di ricorrenze accademiche per entrambi, ho risposto a un suo vecchio status dicendo che quella è una delle sue versioni che ho più amato e che tuttora ho maggiormente a cuore. È lui al ritorno da New York, quello della seconda parte del 2009. Come ho detto quella è una sua edizione  profonda, drammatica e fondamentalmente letteraria, insomma, troppo magnetica per non considerarla interessante.

Mentre scrivo gli sto dicendo che quella attuale, lui che sta sulla metro alle 6.20 per andare a giocare a tennis a Victoria Park, acchiappa di meno l’attenzione. Troppo vincente, un borghesotto ripulito, uno yuppie alla Ezio Greggio trapiantato nel cuore di Hong Kong.

Ripensando a lui e alle sue varie versioni, mi sono soffermato su quella che mi dipinge meglio. Casualmente, il periodo è proprio lo stesso che citavo in precedenza: seconda metà del 2009. Lì senza dubbio si annida la mia essenza, la mia personale cartina di tornasole. Quei mesi furono un riassuntone del sottoscritto nei minimi di dettagli. Si andarono a condensare una miriade di fatti e incroci, sfighe e resurrezioni, tempi stretti e rincorse che non possono non definirmi.

In quel semestre ci sono io al 100%. Io che parto con un’idea e finisco dopo mille peripezie a fare tutt’altro e di fondo sono più contento perché era ciò che volevo, io che mi incasino e mi devo tirare fuori assolutamente da solo. Ci sono in tutto e per tutto mentre mi ritrovo a mettere in dubbio un sacco di cose: a correre contro il tempo e a sbattere fino all’ultimo istante prima di togliermi una soddisfazione. C’è il mio attendismo, il mio “Vorrei ma non posso”, il “Non si può fare”, il non aver in fondo coraggio fino alla fine. Ci sono una infinita di sfighe che si sommano e si assemblano in maniera quasi studiata, la mia capacità patologica di preoccuparmi sempre del dopo e di non godermi del tutto il gusto del successo e del traguardo. Io che ho il piano B, che mi sfomento e mi intristisco, la voglia di stare da solo e isolarmi per concentrarmi e fare pulizia sulla mia scrivania mentale. La complicità, un senso di totale fratellanza e condivisione, la pazienza che mi sfugge clamorosamente mentre mi ritrovo a dare un calcio di una potenza inaudita alle porte del treno della ferrovia Roma Nord. In quei sei mesi c’è il sudore e il timore di non farcela, l’eccitazione della rimonta, la rabbia e l’ironia della sorte, ci sono io, perché sono quello senza dubbio.

Non sono quello del 2010, troppo fortunato, vincente e perfetto, geometra del proprio destino. Sono quello del 2009, quello che ci crede, che sbaglia e paga e che raramente si pente per quello che ha fatto.