Roma – Francoforte – Toronto

Roma

Non è mai facile lasciare casa e anche stavolta è andata in questo modo. È difficile quando tutto quello che ha inseguito e atteso per mesi è lì per te. Roma è stato Natale ma anche un’altra quantità enorme di cose. Il profumo di casa, il sole, i colori, il cielo terso senza una nuvola. Il calore reale e figurato. Le facce che da tempo volevo rivedere e i piatti che desideravo assaggiare ancora. E poi Natale ha sempre un valore unico, al di là dell’età ha una magia tutta sua. Roma è casa, è troppe cose tutte insieme per non essere tristi quando la partenza è vicina. Come sempre, anche stavolta quando i giorni passavano e ne rimanevano sempre meno, ho avvertito quel fastidio del tempo che scorre troppo rapidamente e non ti concede un secondo in più. Ho gestito perfettamente il jet-lag, mi sono controllato nel sonno e ho sfruttato appieno i giorni anche restando semplicemente a casa. Come non mai infatti, ho avvertito il piacere è la necessità di stare a casa mia. Sono ingrassato e questo è buon segno, è stato un bel Natale e chissà se è stato l ultimo in un certo modo. Ci penso sempre. Ogni volta che saluto mia nonna mi viene sempre un po’ da piangere, e succede anche ora che scrivo. È così e non c’è molto da fare. È la vita. Penso questo mentre cammino verso il gate direzione Francoforte e rifletto sul fatto che se mi dispiace andare via ogni volta è perché tanto di buono e di bello mi accoglie sempre, e sapere che tutto questo è lì, a prescindere, è una splendida garanzia. Perché sì, hic manebimus optime.

Francoforte

Una parte di me è felice di partire non solo per il piacere ed il desiderio di rivedere la Ragazza del Venezuela ma perché so con certezza che sta per iniziare il mio ultimo semestre in quel pezzo di mondo. Vivo quasi l’impazienza di far scattare questo segmento. Prima vado, prima inizia, e prima, presumo, terminerà. È solo che a Francoforte mi imbatto in un contrattempo che mi ostacola e mi fa perdere il volo. Un documento mi viene richiesto malgrado il mio visto lavorativo, all’imbarco si materializza una grossa beffa e pagando l’incompetenza di un paio di persone rimango in Germania. Mi ritrovo così a guidare dall’aeroporto la compilazione del documento necessario a Roma, prenoto un hotel su booking e me ne vado dopo aver mantenuto una calma rara.

Metro, stazione, tram e arrivo facilmente all’Hotel Aria che costeggia proprio i binari. Intorno c’è poco, per terra ancora bottiglie e involucri dei botti della sera prima. Fa freddo e c’è un po’ di neve quando esco per trovare qualcosa da mangiare, sono fortunato e mi imbatto in una pizzeria da asporto dove prendo una margherita da portarmi in camera. La notte passa fra un pessimo cuscino ed un termosifone che fa rumore, ma soprattutto l’amarezza e il fastidio sono ancora a livelli tremendi. Penso che Francoforte inizia a starmi fortemente sui coglioni, almeno il suo aeroporto. Nel 2010 dopo avermi fatto partire con quasi quattro ore di ritardo mi fecero sparire il bagaglio a Fiumicino, lo scorso marzo ecco che mi ammazzano al bar con una cremina in un panino che mi scatenò una allergia ed ora ecco il colpo finale. Mi sveglio alle 6.10 e dopo un’ora sono in strada per andare in aeroporto. Stavolta riesco a imbarcarmi ma il volo è infinito. Lo soffro come non mai, in realtà il serbatoio di pazienza si è esaurito da un pezzo e sono molto provato da un viaggio durato praticamente oltre trenta ore.

 

Toronto

Attraverso Dundas Square con un profondo senso di sollievo, la stanchezza però vince qualunque sensazione. So soltanto che ho lasciato casa mia a Roma alle 11 del primo gennaio e sono entrato a casa mia a Toronto alle 21.40 (italiane) del 2 gennaio. Domani intanto si ricomincia, il giorno di riposo fra il viaggio ed il rientro me lo hanno sottratto e quindi ci si reimmerge subito nel lavoro e nella quotidianità, nel gelo e nel sugo della pasta che non sa di un cazzo, ma è l ultimo semestre, quello che mi conduce ai trenta e tanto altro.

E allora tanti auguri e buon 2017.

Toronto – Francoforte – Roma

Toronto

Una delle tante istantanee che mi vengono in mente riguardo il Natale e alla mia infanzia mi ha accompagnato nelle ultime giornate a Toronto. Risale a un ventina di anni fa, che sia 1995 oppure 1996 poco cambia, ma era dicembre, Natale si avvicinava e la fine della scuola altrettanto. L’istantanea riguarda me seduto dietro la Regata di mio padre con lui al volante in attesa del verde sul semaforo di via Filippo Meda, angolo via Monti Tiburtini. Quei viaggi serali di ritorno da casa di mia nonna erano scanditi in quel periodo da alcune canzoni di Celentano. Mio padre non ha mai ascoltato troppa musica in macchina, ne tanto meno in viaggio, per cui quel sottofondo aveva già una sua sfumatura insolita, di quella cassetta una canzone mi è rimasta impressa, probabilmente perché mio padre la ripeteva con maggiore insistenza, ossia “Un albero di trenta piani”. Un pezzo di denuncia del cantautore sulle infrastrutture che venivano tirate su nelle grandi metropoli fra la fine degli Anni Sessanta e del decennio successivo.

Tutti grigi
come grattacieli con la faccia di cera
con la faccia di cera
è la legge di questa atmosfera
che sfuggire non puoi
fino a quando tu vivi in città.

Questi versi che ho impressi e che per me significano in qualche modo Natale. Anche per questo ultimamente ho riascoltato questa canzone che mi sintonizza ufficialmente sulla modalità natalizia e mi conduce a casa. Sono passati venti anni da quei pomeriggi ma c’è un qualcosa di intimo e fanciullesco in quei frammenti: scuola, Natale, l’infanzia, quella magia che c’era in quegli anni. Ieri sera ho fatto la valigia sentendo anche questa canzone e quando l’ho chiusa stamattina, un mezzo vaffanculo fra i denti, quelli di stizza e di liberazione quando metti un punto tanto atteso, mi è scappato.

Francoforte

Sei ore e mezza di volo, ho dormito un po’ nella parte centrale e poi mi sono visto un film di Checco Zalone. È andata bene, le quattro ore e mezza di attesa qui mi preoccupavano forse di più. Ma è fatta. Mi sono allungato su tre sedie di un gate e sul fianco sinistro ho sonnecchiato. Internet non c’è e allora mi sono messo a scrivere questo post dopo un pretzel e un caffè dalla macchinetta Nespresso. Sei anni fa esatti transitavo qua di ritorno da Abu Dhabi da fresco campione del mondo, oggi invece da stronzo qualunque e piuttosto assonnato, ma sono bene che in questo lasso di tempo poteva andare peggio. Ora vado al bagno, anzi salvo prima sta cosa sul tablet e poi vado al gate. Fra dieci minuti c’è l’imbarco. Ora capisco che sto tornado veramente a casa.

Roma

Sono arrivato in orario e questa è sempre una bella notizia. Niente bagaglio da ritirare e quindi fuga da Fiumicino molto rapida. Mio padre, l’azzurro del cielo e il mare a portata di mano. Andavo alla ricerca dei colori dopo settimane di bianco neve e grigio cielo, eccolo qua subito l’azzurro in doppia versione. Niente pranzo, avevo superato da un pezzo la soglia del “non-sentire”: niente fame, niente sonno, nessuno stimolo, una cosa che mi capita puntualmente in situazioni abbastanza oltre i canoni. Solo la pizza bianca con il prosciutto, una delizia, un classicone, e poi la prima pennichella cronometrata. Sì, perché devo contenermi, desidero rimettere a posti i miei orari fin da subito a scopo di forzare. Come da tradizione, ieri sera cena con la vecchia guardia, pizza e 4 supplì, più una crocchetta. A seguire due limoncelli, nel posto della festa della mia laurea magistrale. Nel mezzo però, prima della cena, due botti sparati con Alfredo per una rapida regressione adolescenziale, dopo invece due passi in facoltà che brillava lì dietro ai prati. Al buio, tutto chiuso, un rapido ritorno alla prima giovinezza. Una serata di involontari richiami, bella, senza peripezie o nulla di esagerato, ma molto italiana, che per me, in questo momento, è la cosa più bella che ci possa essere.

 

 

Quel 25 aprile

Il giorno dell’anniversario della Liberazione è passato da tre giorni, ma mia madre ha avuto la brillante idea di farsi raccontare qualche ricordo da mia nonna riguardo il 25 aprile e ha pensato bene di annotare quello che sentiva. Questo è il racconto, vita vera, di sofferenza e fatica, fra la miseria e il dramma.

Se ancora oggi il 25 aprile è così importante per me è anche perché sono cresciuto con questi racconti. Se siamo un paese libero è grazie anche ai nostri nonni. Loro hanno combattuto per la libertà e loro hanno ricostruito l’Italia. Loro sono la nostra memoria storica vivente.

 

Quel giorno la mia famiglia, 25 aprile 1945

Mamma mi racconti di nuovo quei giorni…

Certo figlia mia, allora i bambini piangevano sempre e non avevamo ormai niente da mangiare da molti giorni. Il poco rimasto lo lasciavamo da parte per loro e per me e per Rosalba erano rimaste solo poche castagne secche e qualche noce. Noi andavamo a letto completamente a digiuno. Avevo 15 anni. Vittorio e Teresa avevano poco più di un anno, Vittorio era nato nel ‘43 e Teresa nel ‘44.

La mia mamma, povera donna, e Maxin ci avevano lasciate sole con i bambini da giorni per andare in Piemonte a fare la borsa nera. Farina o riso in cambio di tanti soldi, questo è quello che chiedevano i contadini e che dovevamo obbligatoriamente dare  in cambio di qualcosa da mangiare.

A Genova ormai da molto tempo non si trovava cibo; i contadini nascondevano il poco che avevano per paura di essere derubati dai  fascisti. Loro ti portavano via davvero tutto. Non avevano pietà ne dei bambini, ne tanto meno dei malati.

Il pane non si trovava e comunque era veramente cattivo, era amaro e mi sono sempre domandata cosa ci potesse essere dentro quel pane per essere così cattivo, forse il cemento?

Quando sei disperato Anto, e devi mangiare, fai tutto, anche quello che non vorresti.  Così avevamo già rubato della legna per riscaldarci e la notte andavamo anche a rubare qualche frutto da degli alberi gelosamente custoditi.

Non si poteva pescare, le barche non erano autorizzate ad uscire, c’era il coprifuoco e comunque se provavi ad uscire con la barca, al ritorno trovavi i fascisti lì pronti ad aspettarti e a portarti via tutto il pescato.

Il Piemonte a piedi era tanto lontano, così i giorni passavano e Mamma e Maxin non tornavano.

La disperazione, la profonda tristezza e gli stenti, ci avevano messo in una condizione veramente difficile.

Nessuno ti aiutava, nemmeno i parenti stretti. Eravamo sole e tanto stanche.

Quella mattina, il 25, ricordo che arrivò una persona a casa di corsa e ci disse: “Venite venite, i fascisti se ne vanno!” Rosalba rimase a casa con i bambini, io invece corsi in via Merano come tutti del resto. La gente era felice, suonavano, urlavano, piangevano, battevano le mani.

Le truppe stavano lasciando la città. Se ne stavano andando via veramente. Li guardavo e mi domandavo cosa sarebbe successo. Pensavo a Mamma, e mi chiedevo: “Saranno ancora vivi? Sapranno di questa cosa?”.

Dopo qualche giorno Rosalba era in strada e passò una persona di Voltri che era partito per fare la borsa nera insieme a Mamma e Maxin, “Sono vivi gli chiesi? Dove sono?”

“Sono ancora in Piemonte” rispose e mi hanno dato questi pochi soldi per voi. “Vedrai  Rosalba che presto torneranno”.

“Presto quando?” domandò. Non ce la facevamo più!

Dopo un po’ di giorni arrivarono,  la mia Mamma era distrutta. Mi raccontò che aveva avuto una emorragia. La vergogna per strada con quel sangue che le scendeva tra le gambe. Dovevano camminare vicino ai ruscelli per permetterle di lavarsi. Povera mamma, ma per fortuna erano tornati a casa anche se con pochissime cose da mangiare.

Per tamponare una situazione difficile andammo anche a bussare a casa dei genitori di Maxin, gli avevamo chiesto un po’ di patate per i bambini, del resto erano i loro nipoti, ma ci risposero che se avessero dato a noi le patate sarebbero rimasti senza loro. Così decidemmo insieme di lasciare mamma con i bambini e noi tre di andare a rubare nelle loro cantine appena era notte fonda.  Portammo via così fave fresche e patate, e per noi il giorno dopo  fu festa.

Mangiammo una zuppa talmente fitta di fave che se mettevi il cucchiaio al centro rimaneva in piedi…

Col tempo arrivarono poi gli americani, ci davano il pane bianco, la cioccolata, per almeno altri due o tre anni le cose furono sempre difficili, ma loro, i fascisti dico, non c’erano più.

La vita cominciò piano piano a riprendersi ed io andai a lavorare in Lomellina con la mamma.

Da li potevamo mandare le cose da mangiare a Rosalba ma non ricordo come facevamo a mandargliele, ci ha sempre pensato nonna.

Mamma, le dico: “Ecco questa è la nostra famiglia. Siamo sempre stati un’unica cosa”.

“Per forza, le persone quando gli parlo di noi non possono capire perché c’è un legame così stretto,  così forte,  così unico e lei mi ha risposto: “Sì, siamo sempre stati tutti una sola famiglia vera”.

 

 

Fateme tornà

Poche ore ancora e poi sarà Roma nuovamente. E aggiungo anche finalmente. Come a luglio un volo notturno mi riporterà dall’altra parte dell’Atlantico per riabbracciare un po’ tutti e vivere questo Natale a casa e in famiglia.

Sapevo che tornare qui per questi due mesi sarebbe stato difficile, sapevo che sarebbe stato un segmento ulteriore di fatica e lavoro ma dopo l’ultima febbrile e fastidiosa settimana, il traguardo è veramente qui, a un metro.

Sono contento che tutto sia finito, sono felice di tornare a casa e vivo tutto questo con un entusiasmo diverso. È tornato Alfredo, è appena sbarcato Gabriele, io sto per arrivare, in qualche modo ci sarà tempo per un’altra mini band reunion nonostante la sanguinosa defezione del Catto.

Arrivo al capolinea di questo anno, lavorativo e non solo, con la necessità di un break. Non penso che mi capiterà nuovamente in vita mia di lavorare undici mesi di fila senza un giorno di vacanza, se non quello preso il primo dicembre per il disastroso e faticoso trasloco.

Un anno così mi ha certamente fiaccato e il mio essere ormai in perenne modalità “polemica” non credo sia una coincidenza. Al lavoro gli ultimi giorni non sono stati semplici per diversi motivi, oltre alla mole di cose da fare, ci sono state delle dinamiche, delle conversazioni e discussioni piuttosto fastidiose, situazioni che verranno riprese più avanti, inevitabilmente, fatti per così dire spiacevoli che però utilizzerò per far passare un messaggio chiaro, che a questo punto diventa necessario.

Ritorno con la contentezza di chi sa che per 10 giorni si libererà da una serie di pesi e fastidi, torno con la felicità di sentirmi a casa, di sentire il profumo di casa nella sua vesta migliore quella delle feste. Sarà bello riabbracciare tutti, sarà brutto farlo praticamente subito dopo per un altro arrivederci che questa volta sarà molto lungo, di certo più lungo degli ultimi.

La valigia è pronta, per una volta ho preparato un bagaglio al contrario, ossia togliendo delle cose dal trolley anziché metterle dentro. Nella valigia ci sarà il computer, due regali, e due palle di Natale. Stop. D’altra parte vado a casa mia e al massimo mi ripoterò qui qualcosa per ampliare un attimo il mio guardaroba.

Il fastidio dell’ultima settimana, insieme al malessere degli ultimi tempi, stanno lasciando spazio all’entusiasmo che impone ogni ritorno. Il fatto che io abbia già deciso di volere andare a comprare i botti di capodanno come prima cosa mi dà un’idea chiara, un segnale estremamente positivo. Tornerò e la sera vedrò subito buona parte degli amici in un paio di round, a cena, e successivamente. Sarà un rientro lampo, è vero, così rapido che il pomeriggio del primo gennaio sarò già qui, e verosimilmente non potrò godermi nemmeno il 31 sera. Ma ora non è tempo di pensare a questo, ne al lavoro e ne a tutto il resto, non c’è tempo e modo per farsi influenzare da problemi e discorsi che possono generare anche un minimo di fastidio.

Spero per una volta di essere in grado di godermi qualcosa, me lo auguro, sarebbe il più grande regalo di Natale che potrei fare a me stesso, soprattutto ora, ed in particolare perché so quanto ne ho bisogno.

Anche perché, puoi essere stato in tutti i posti del mondo, anche nei più belli, ma a un certo punto hai voglia solo di tornare a casa. A casa tua.

Andiamo, che è il momento.