Roma, Napoli e la colpa agli altri

Girando per Napoli negli ultimi giorni ho trovato conferme su quello che penso da sempre.

Se è vero che il problema di Roma sono in primis i romani, i miei concittadini, stesso discorso vale per Napoli. Forzando il concetto, si potrebbe dire che in realtà il problema dell’Italia è sempre stato quello di essere piena di italiani.

La gente può continuare a dare la colpa ai politici, all’Euro, ai governi non eletti, alle organizzazioni criminali, va bene tutto, rimane il fatto che andare in tre sul motorino, non avere cura e rispetto della propria città, non seguire le regole basiche del vivere civile, è qualcosa che non si può imputare ai politici.

Possiamo poi accusarci di razzismo o discriminazioni reciproche, a me dispiace soltanto che posti splendidi di questo paese debbano essere ridotti in un certo modo. E camminando per i vicoli di Napoli, con tanti turisti sparsi per la città, mi sono domandato quanto debba essere bella l’Italia.

Sì, perché per un visitatore deve avere veramente qualcosa di unico, perché il modo in cui è tenuta, è vomitevole e avvilente.

Vivendo a 200 metri da San Pietro e lavorando lì, ogni giorno sono testimone di uno schifo, perché di questo stiamo parlando. Nel sottopassaggio Terminal Gianicolo, l’unica via di accesso alla Piazza di fondo da Via delle Fornaci, da mesi si sono stanziati dei senzatetto, disperati sui 35/40 anni che bevono Tavernello tutto il giorno.

Gente dell’Est, apparentemente poveracci, in verità elementi a cui non va di lavorare, immigrati che in Italia non vedevamo più dagli Anni Novanta, gente potenzialmente pericolosa, considerando la quantità di alcol che bevono quotidianamente, persone che oltre a infastidire sono un primo schiaffo al turista.

Arrivare in una delle piazze più del mondo e dover percorrere 30 metri in mezzo al degrado puro è qualcosa che un visitatore non merita, ancor meno un residente o un lavoratore della zona.

Eppure, nonostante diverse mie (e non solo) segnalazioni a Esercito e Polizia, spostare questa feccia è quasi impossibile. Bisognerebbe cacciarli ogni giorno e non dare loro la possibilità di tornare, operazione che mi è stato ribadito è quasi impossibile per dispiego di uomini e costi.

Superata questa prima pennellata di vergogna, il turista è accerchiato da extra-comunitari che dotati di un ridicolo cartellino cercano di vendere ingressi facilitati alla Basilica di San Pietro, i famosi “Skip the line”, ce ne saranno un centinaio a presidio del colonnato.

Altra gente che nasconde un business sporco e poco chiaro, gente che poi si somma ai barboni, ai mendicanti, e a tutta quella gente che contribuisce a sgretolare ogni minimo decoro della chiesa più grande e bella del mondo.

In aggiunta a questo vergognoso scenario, ci sono poi gli italiani, noi, che non facciamo molto per aiutare i nostri luoghi. Fra sporco e cattive abitudini, i 3-4 giorni che mediamente un turista passa a Roma non so come debbano essere.

Immagino che le bellezze storico-artistiche ed il cibo facciano un grande lavoro, certo è che non possiamo impressionare nessuno se tralasciamo questi punti di forza. Quelle uniche ancore a cui possiamo aggrapparci.

Mi avevano parlato bene di Napoli, di una città migliorata e in grande ascesa. Ci sono stato due giorni dopo 4 anni e mezzo e l’impatto è stato davvero negativo. Senza alcun pregiudizio, senza discriminazioni, senza opinioni già cristallizzate, senza quello che volete, a me non ha certo sorpreso e nemmeno meravigliato.

Il fatto che Napoli sia così, “prendere o lasciare”, è un concetto anche fine a se stesso. Napoli ha un suo fascino, è caratteristica come forse nessun altro posto in Italia, però dire che sia cresciuta o sia stata ripulita è veramente una tesi coraggiosa, o semplicemente irreale.

Lo sporco è superiore a Roma e questo mi ha stupito, sul resto ci sarebbe molto da dire. Da attento osservatore e grande camminatore, ho visto veramente di tutto e mi dispiace non aver intercettato nessun turista per chiedergli al volo un giudizio. Dal traffico fuori controllo, al clacson usato senza soste, metà della gente senza casco, famiglie intere sul motorino, cartacce ovunque, extracomunitari padroni di Via Nolana, spazzatura lanciata da un balcone, insomma è difficile non riportare queste cose.

Sì, il sole, il mare, la pizza che costa poco e i dolci, però, bisognerebbe anche svincolarsi da questa storia e prenderci le nostre responsabilità, di come curiamo, o meglio non teniamo da conto i nostri posti. E se Venezia, lo scorso febbraio, l’ho trovata migliorata nettamente rispetto al 2008 (altro discorso è la desolazione di Mestre in mano a spacciatori africani alle 20.30), Roma e Napoli continuano a marciare compatte verso il fondo, senza apparenti soluzioni. Ma intanto a qualcuno fa sempre comodo dire che la colpa è degli altri, sempre degli altri.

Ma in Italia si fa così e questi sono i risultati.

Toronto Atto VII

Qualche ora e poi tornerò a Toronto. Non è certo la fine di ottobre 2015 quando con il Sinodo quasi all’epilogo ero pronto a imbarcarmi nuovamente senza biglietto di ritorno, ma al tempo stesso è pur sempre un qualcosa di importante.

Mi aspettano poco meno di tre settimane canadesi, e fra lavoro e motivi burocratici per sistemare un po’ di faccende, non ci sarà tantissimo tempo per svagarsi considerando le moltissime cose da fare e i tempi serrati.

Il tempo è peggio del solito, la neve sta andando oltre la metà di aprile, cosa piuttosto poco usuale anche a Toronto, arriverò con la neve lungo le strade, come tutte le volte a parte un paio di volte, ottobre 2015 appunto e maggio 2016.

Ci sono ovviamente sensazioni particolari in questo ritorno, molte più di quanto avrei immaginato. Tornare in un posto in cui hai passato due anni e mezzo ha sempre un sapore speciale, è un riappropriarsi di certi immagini che per lungo tempo sono state quotidianità, la normalità.

Fin dalla prima volta che rientrai a Dublino da Liverpool, dopo i primi mesi di Irlanda, rimasi sorpreso da quella sensazione di quando torni in un posto che non è il tuo ma ti senti a casa, perché quella, effettivamente è la tua casa, o almeno lo è diventata. Toronto è proprio questo.

Indubbiamente è il posto in cui ho vissuto più tempo escludendo Roma: la città degli ultimi anni con la quale ho avuto un rapporto altalenante, di profonda incomprensione reciproca, ma che col tempo si è evoluto e gradualmente migliorato, soprattutto negli ultimi 10 mesi.

Volo da Roma e Toronto per la settima volta, tornerò in un luogo che ha segnato veramente un prima e un dopo nella mia vita. Un posto in cui ritroverò facce amiche, colleghi, sguardi e profumi. Il Crocodile, la redazione, Dundas Square e forse anche un pizzico di malinconia, quella però che ti fa sorridere.

È tempo di andare, anzi, di tornare.

“E’ colpa tua”

Una delle tante cose che ho imparato tornando a Roma è che per affrontare la vita italiana vige l’obbligo di sapere tutto. Pur essendo uscito da casa anni fa, in realtà non avevo mai vissuto per conto mio in Italia, ma sempre e solo all’estero, di conseguenza mi sono ritrovato a sperimentare nuove dinamiche che alla fine terminano sempre e solo con una certezza: è colpa tua.

Con mano sto toccando questa simpatica tendenza, forse una realtà sempre esistita ma che mi era sfuggita non dovendo affrontare alcune situazioni in prima persona, di certo, qualcuno ha stabilito che il cliente o il cittadino ha sempre torto.

Al di là di populismi, vittimismi o qualunquismi di sorta, nei miei ultimi giri questo è il dato che emerge: bisogna sapere tutto di qualunque cosa, argomento, settore e procedura, altrimenti qualcuno dall’altra parte ti addosserà la colpa subito e con un piacere nemmeno troppo celato.

Due settimane fa al commissariato, sono stati molti svegli nello sventolarmi –letteralmente – in faccia con enorme piacere un regolamento. Era colpa mia, avevo sbagliato io a leggere.

Peccato però che loro non abbiano fatto altrettanto su una altra questione che invece parla chiaro e dava ragione al sottoscritto. Fra accuse che la poliziotta ha prontamene smentito “Non sono accuse” e toni di voce un po’ troppo alti e fuori luogo secondo me, la colpa era mia che non mi ero informato anche perché citando testuali parole: “Passate il 99% del vostro tempo con il telefono fra le mani e non cercate quello che dovreste”. Inconsapevolmente ha trovato chi passa gran parte del suo tempo a fare ricerche e a documentarsi per motivi professionali, rimane il fatto che era colpa mia in generale. A prescindere.

Io dovevo sapere, informarmi, capire in precedenza, Sfortunatamente però, loro non sapevano una cosa che avrebbero dovuto conoscere, come se io non fossi a conoscenza del mese in cui ci sarà il Sinodo. La loro mancanza però valeva stranamente zero, la mia era invece una specie di capo di imputazione.

Bisogna anche sapere che sulla bolletta della luce, se non si è residenti in un appartamento, si paga il 20% in più. Strano che nessuno al momento della voltura lo abbia detto o almeno menzionato, strano anche che il proprietario di casa non l’abbia mai riferito, strano pure che l’agente immobiliare al momento di parlare delle utenze si sia scordato. Evidentemente nessuno sa, ma io invece dovevo esserne al corrente. Certo.

Il punto, il cazzo del punto se mi permettete, e me lo permettete, è che è sempre facile dare colpa agli altri, lavarsi coscienza e mani scaricando il tutto sugli altri. Probabilmente dovremmo passare 20 ore al giorno a studiare ed imparare ogni cosa su qualunque argomento. Vivere studiando.

Nessuno invece che si prenda mezza responsabilità, nessuno in grado di parlare chiaro, spiegando e argomentando in modo decente. “Lei lo avrebbe dovuto sapere” è la frase che continuo a sentire, strano però che nessuno faccia mea culpa. La superficialità con cui si tratta un cliente o un cittadino, o chiunque cerchi informazioni, quella non vale. Di conseguenza, se chiedi, ti dicono le cose a metà, sembra che tutti siano terribilmente impegnati, come chi non si è premurato a dire che la prima bolletta del telefono arrivava via bollettino postale e non con l’addebito diretto sul conto come dalla seconda in poi.

Ecco, tutti bravi a fare le persone svelte, rapide ed efficienti, peccato però che poi non ti dicono informazioni necessarie e quando ti ritrovi a pagare prezzi maggiorati o strane tariffe la colpa è tua che non ti sei informato.

Ovviamente.

“Nessuno che dice se sbagli, sei fuori”

Lo Stato Sociale, Una vita in vacanza.

It is time to go

“Se la curiosità è una emozione, allora io sono emozionatissimo”.

Da giorni ho coniato questa espressione e l’ho ripetuta diverse volte per descrivere la situazione e questo ricongiungimento. C’è un grande mix di sensazioni e pensieri naturalmente, anche se penso di aver vissuto l’avvicinamento nel modo più sereno.

Il 27 agosto all’aeroporto di Bogotà sapevo che non era un addio e in questi cinque mesi non ho mai cambiato idea. Era un arrivederci e così è stato, anzi, così siamo riusciti a renderlo.

Certo, raccontata in questi termini sembra facile, ma non lo è stata. Mai ho sottovalutato la distanza, anche se a fine ottobre, dopo due mesi, ho iniziato ad accusare una certa fatica, in quel momento però abbiamo anche cerchiato una nuova data sul calendario, e da lì in poi è iniziato un countdown molto lungo ma che almeno ci ha rianimati, consapevoli di correre verso un obiettivo comune.

Non è stato semplice, ma siamo stati bravi. In un mondo in cui la gente impazzisce per un messaggio visualizzato su Whatsapp al quale non si replica immediatamente, vivere per cinque mesi con 7 (e poi 6) ore di fuso, limitazioni lavorative, orari scomodi e mai sovrapposti in qualche modo, è davvero dura, ma noi siamo andati oltre.

Rispetto, fiducia, forza. Le energie mentali spese sono state naturalmente tantissime, mai siamo stati determinati a venirne fuori nel modo migliore, insistendo sempre.

Un traguardo è stato raggiunto, un traguardo che però dall’altro lato recita la scritta “Start”, un nuovo inizio, un altro inizio direi. Ci sarà molto da scoprire e questa è la meraviglia che genera la mia curiosità menzionata all’inizio. Comincia veramente un nuovo campionato che ad oggi, biglietti alla mano, sarà di tre mesi, un campionato che dura come quelli di GoalUnited, la speranza non nascosta  però, è che possa essere l’anticamera di qualcosa di altro, possibilmente di più duraturo.

Ricordo ogni momento in cui si è parlato di questa ipotesi, di questo grande piano di riunirci a Roma. Sembrava a suo tempo, febbraio scorso, una cosa molto grande, forse fin troppo, eppure con il tempo l’idea non è mai svanita ma si è solo rafforzata. Abbiamo disegnato le nostre traiettorie anche per arrivare a questo appuntamento.

Ricordo la prima volta che ne parlammo, a casa mia, vicino ai fornelli in attesa di buttare la pasta, o da Burgerator a Kensigton Market un sabato sera.

Ripenso anche alla conversazione a maggio, seduti al Cineplex di Dundas Square guardando Yonge Street, oppure quella volta che a Zipaquira camminavamo per guadagnare la stazione dei pullman per tornare a Bogotà.

Non sono state parole buttate, non sono stati discorsi fatti per fantasticare. Io ci credevo e lei evidentemente pure, forse più di me considerando che è la persona in procinto di muoversi.

“Bisogna crederci e ci dobbiamo provare” ho detto spesso, era doveroso darci una possibilità diversa, su un campo differente e tutto ciò sta per compiersi.

Da domani inizia un altro viaggio, è tempo di andare.