Torturare se stessi

 

Credo che uno dei miei limiti maggiori sia sempre stata l’incapacità di godermi i momenti, quegli attimi di felicità e pienezza che magari non capitano così frequentemente. È un limite, se vogliamo anche un problema, un aspetto indice di una personalità definita ma con tante sfumature inattese.

Se guardo indietro mi accorgo di come i grandi momenti per varie ragioni li ho sempre vissuti meno bene di quanto avrei dovuto e potuto.

Penso agli ultimi anni, e mi tornano in mente ad esempio gli esami e le lauree e al mio modo di affrontare tutto questo. Mi sono sempre tormentato l’anima, mai goduto nel modo giusto il piacere di ottenere qualcosa. Un esame superato, dopo 10 minuti per me era già storia, passato, in archivio e quasi inutile, avevo la testa al prossimo. Ho sempre apprezzato poco il traguardo raggiunto, piccolo o grande che fosse, per proiettarmi avanti. Anche nelle lauree non ho vissuto come dovevo due eventi rari. Nel primo caso pensavo al calo di motivazioni successivo alla discussione, nel secondo già immaginavo il mondo dopo l’università. Due episodi che mi hanno soffocato il gusto di assaporare appieno giornate indelebili. Lo stesso discorso vale per il lavoro o lo stage, vivevo la quotidianità, ma pensavo a quando sarebbe finito tutto con troppa insistenza.

Questo sfinirmi rimane un problema, il guardare già al prossimo impegno, il non apprezzare magari ciò che si è ottenuto, disonorando quasi il risultato. La testa sempre al dopo. Negli anni vivere è diventato sinonimo di conquistare, di mettere una bandierina dopo l’altra, di incasellare obiettivi, di avere sempre una cosa più stimolante da fare, di andare oltre ma non tanto per allargare il numero di risultati ma quanto per migliorarmi. L’ossessione di progredire, di correre sempre di più, di vedere nella mancanza di miglioramento solo una perdita di tempo. In questi mesi, in cui sono fuori da tutto per stare vicino a mio padre, soffro il non avere una motivazione, subisco il non poter fare.

È brutto ammettere di non sapere gioire quando c’è stata l’occasione, quando diventi un avido consumatore di situazioni, stimoli e emozioni. Quando ti massacri per ottenere l’obiettivo e dopo che lo hai conquistato pensi immediatamente a quello che verrà, oppure temi di perdere ciò che hai avuto e allora ti torturi in un altro modo.

Dovrei rasserenarmi, questo è ovvio. Credo veramente che ci sia stato un momento in cui ho gioito e assaporato tutto al 100% senza pensare all’immediato futuro, al domani. La sera del 22 maggio 2010. Ricordo il mio essere libero e fluttuante in una situazione sognata da troppo tempo per progettare cosa sarebbe successo nei giorni successivi. Ricordo anche l’ansia appena svegliato l’indomani, ero in albergo, accessi subito la tv dopo aver dormito due ore scarse. Misi subito SkySport24 per sapere se avevamo vinto davvero o avevo sognato tutto. Ricordo il McMenu mangiato davanti la Stazione Centrale guardando il vuoto e quella sensazione di benessere che mi accompagnò in seguito per settimane, mesi.

Mi dovrei dare una calmata forse, campare senza guerreggiare, senza quel senso del dovere di spingermi sempre a migliorare, lasciando andare un po’ le cose e mettere nel ripostiglio quel mio personalissimo senso di competitività con me stesso.

Mi farebbe bene, mi aiuterebbe un sacco, è questo forse ciò che mi renderebbe migliore.

Definire la felicità

 

Alcune settimane fa, mentre andavo a Viterbo da mio padre su RDS parlavano di felicità, o meglio, di come si possa definire una cosa tanto grande, astratta e importante nella vita di ciascuno di noi. Percorrendo il lungo pezzo di statale prima di entrare finalmente in città, ho potuto ascoltare le opinioni di alcuni radioascoltatori e i loro giudizi, riflessioni che mi hanno in parte soddisfatto, mentre altre non mi hanno per niente convinto. Io onestamente non saprei dire tantissimo sulla felicità. Il punto è uno: il benessere è felicità? Cioè, stare bene significa essere felici? E soprattutto da cosa si riconosce la felicità?. Non lo so, ho delle idee a tal proposito e provo a riordinarle.

Sono certo di essere stato molto felice in alcuni momenti della mia vita, in particolare negli ultimi anni, diciamo dal 2006 in poi. Sono stato quasi sempre bene e poi ho avuto dei picchi straordinari, ma allo stesso tempo ricordo come se fosse ieri una calda mattina di agosto del 2009 quando mentre stavo per andare a prendere la macchina sotto casa mi chiesi: “Ma io sarò ancora felice in vita mia?”. A questa domanda esistenziale, che scaturiva da un periodo piuttosto cupo, non trovai risposte, anzi la sensazione da cui fui pervaso era quella molto vicina ad un NO. La vita mi stupì a più riprese e a quell’interrogativo dopo un po’ di tempo risposi con un Sì, un sì a caratteri cubitali. Ultimamente mi è ricapitato di farmi quel genere di domanda e la risposta è stata sempre NO, una negazione molto decisa oltretutto.

Spesso mi capita di osservare gli altri, di sentire ciò che dicono e penso che molti di loro in fondo fingano bene, o meglio, la loro superficialità ha dipinto loro un bel mondo, ma nell’animo non sono certo che siano felici. Giorni fa sono rientrato mezz’ora sul mio profilo di Facebook e guardando quasi tutte le bacheche dei pochi amici che ho sul social network, ho percepito una grande gioia. Sembravano tutti contenti e non lo dico perché ora “il giardino del mio vicino è sempre più verde”, no, per me non è così, lo dico perché ho percepito questo alone di contentezza, che a mio avviso è anche molto strumentale, di apparenza, per far vedere agli altri che stiamo bene. Mostrare la propria felicità obbligatoriamente, vera o finta che sia, mi sembra una cosa al giorno d’oggi molto trendy, alla fine per me è sempre meglio mostrare ciò che si è, senza maschere, è la strada più conveniente. Credo che per essere felici uno si debba saper guardare dentro e capirsi, non deve essere piatto e tanto meno superficiale, non deve avere paura di ascoltarsi, dei propri sentimenti e di ciò che sente.

La persona felice inevitabilmente deve essere stata triste, altrimenti non potrà mai riconoscere certe cose.

 

 

Di seguito, riprendendo il gioco di RDS, metto le mie personalissime definizioni di felicità.

 

1)      Felicità significa non voler essere mai altrove.

2)      La persona felice non ha mai bisogno di qualcosa altro o di qualcun altro rispetto  a ciò che già ha.

3)      La felicità sono undici maglie nerazzurre che corrono dietro ad un pallone.

4)      La vera felicità è non aver bisogno di felicità (Seneca).

 

 

 

 

“Rabbia stupore la parte l’attore

dottore che sintomi ha la felicità”

 

Mi fido di te – Jovanotti