In nome dell’Odio, non di Dio

I ragazzi europei escano per strada e vadano ad ascoltare musica e a ballare, stasera, nelle nostre belle città autunnali. È il modo migliore di rendere omaggio a chi venerdì sera è entrato al Bataclan, e non è più uscito”.

Mi sento di condividere appieno queste frasi finali con cui Beppe Severgnini ha chiuso il suo articolo sul sito del Corriere venerdì. Sì, perché dopo un dramma del genere, il primo pensiero vola subito a quel che sarà, a come saremo e a come vivremo dal giorno successivo.

Qui, in questi pensieri, si annida la paura e il terrore, la sensazione che nulla sarà come prima o forse sì perché penseremo anche agli altri attacchi e ci ricorderemo che in fondo siamo andati avanti e le nostre vite hanno ripreso a correre e il tempo ci ha lentamente alleggeriti, come capita spesso. Quasi sempre.

Attaccare così una nazione, un popolo, una cultura, significa volere dimostrare di essere forti al punto tale da poter minare tutto questo. L’obiettivo rimane quello, diffondere il terrore, colpire nelle abitudini e spaventare, trasmettere la sensazione che tutto dipenda da altri, da persone (è dura definirle così, ma facciamolo) che hanno in mano il nostro destino e il filo che ci lega alla vita.

Questo è quello che vogliono. Questo è quello che dobbiamo evitare difendendo la nostra libertà ed è la prima e forse unica reazione che possiamo permetterci. Fra un po’ di tempo capiremo se a questa violenza ci sarà una risposta violenta in diverso modo: attacchi, raid e bombe, intanto noi possiamo reagire combattendo la paura che qualcuno che uccide in nome dell’Odio, e non certamente di Dio, aspira a farci vivere.

Papa Francesco nell’Angelus di ieri ha voluto riaffermare con vigore che la strada della violenza e dell’odio non risolve i problemi dell’umanità e che utilizzare il nome di Dio per giustificare tutto ciò è una bestemmia.

Anche l’Arcivescovo di Milano, il cardinale Angelo Scola, nella Messa in Duomo ha parlato dell’attacco terroristico e ha dichiarato che “Non dobbiamo rispondere a questo oltraggioso e vile atto con l’odio, non dobbiamo rispondere con la paura, anche se la paura è comprensibile, perché come cristiani siamo figli di Qualcuno che costantemente ci ha detto di non avere paura”.

Nel frattempo rimangono 129 persone uccise e tante altre ferite che lottano per sopravvivere, con il bilancio delle vittime che cresce lentamente generando una straziante agonia. Uno scenario terribile, come l’idea di giovani che ammazzano altri giovani, un qualcosa che inevitabilmente va oltre il discorso religioso ma che si intreccia con una giustizia sociale che latita in maniera palese.

Questo è comunque il risultato della follia di venerdì sera e mentre leggevo alcuni racconti e diverse testimonianze ho ripensato a quel filo rosso di dramma e strage che si ricollega alla storia del mio paese.

Quell’Italia ferita e colpita in maniera vigliacca per 40 anni, nella lunga e buia fase della strategia della tensione. Non c’erano nemici religiosi e nemmeno motivi geografici o culturali, c’era in primis la volontà di colpire il popolo e di tenerlo sotto scacco. Colpirlo nella sua vita pubblica, e come è successo a Parigi, in cui i luoghi del terrore sono stati un ristorante, un teatro e lo stadio, da noi si attaccava a tradimento nelle piazze, nelle banche, sui treni e alla stazione.

Quei posti in cui la gente si raduna, in cui vive la propria quotidianità, quei luoghi di cui nessuno di noi potrebbe fare a meno. Da noi si combatteva una guerra di potere, una specie di lotta civile in cui lo Stato aveva un ruolo chiaro ed evidente, in cui non c’erano mai responsabili ma solo vittime, di certo lo scopo era lo stesso, con le debite proporzioni e la giusta dimensione: attaccare il popolo, limitare la vita pubblica delle persone spaventandole senza pietà.

Questo è successo a Parigi, e sarà dura andare avanti facendo quasi finta di nulla, eppure, oltre al silenzio e alle preghiere, al rispetto e al ricordo, come ha scritto Severgnini sul Corriere, provare a continuare a vivere la nostra vita senza scivolare nella psicosi del terrore è il modo più autentico per omaggiare chi non potrà più farlo, gridando a chi vuole prendersi la nostra libertà che questo non potrà accadere.

La famiglia francese

Come detto nell’ultimo post, questo lungo fine settimana lo passerò da solo a casa perché la famiglia francese presso la quale alloggio se ne è andata a sciare a due ore di macchina da Toronto. Dopo un mese è arrivato finalmente il momento di presentarvi questa combriccola di galletti con i quali dovrò condividere le mie serate per un altro mesetto, prima di trasferirmi nel famoso e promesso appartamento downtown.

La mamma o la moglie (dipende da quale punto di vista la si vuol guardare), è una donna che pedala verso la cinquantina. Si chiama Marie e per me ha un qualcosa della Signora Pia, la mamma di Cristiano, colei che viveva al piano interrato da mia nonna. Livello di inglese bassino, ha appena finito delle lezioni ma le esitazioni e le lacune di vocabolario e grammaticali sono ancora notevoli. Le conversazioni inevitabilmente non possono andare troppo in là, devo limitare il mio inglese, parlare in modo elementare ma tuttavia le cose necessarie sono sempre molto chiare.

Non lavora, non ama cucinare, ha la donna delle pulizie (la cordiale e simpatica Adelina, portoghese di Leiria) e passa gran parte della giornata a lamentarsi che ha “lot things to do”. Disponibile, discreta, tendenzialmente sorridente, in realtà il suo unico problema e pensiero è il figlio: il mai domo Matthieu. Diciotto anni compiuti, alto, smilzo, faccia da giovanotto del centro Europa, potrebbe essere indistintamente tedesco, belga o olandese, invece è parigino. Stile un po’ fricchettone: gli piace il surf, suona la chitarra, felpe larghe e quell’atteggiamento sempre un po’ disordinato e da perenne ritardatario. Insomma, uno abbastanza lontano dalla mia orbita. Difficile definirlo, potrei cavarmela con un classico: “Se schiera e non se schiera”, resta il fatto che ha parte della mia solidarietà per le pressioni (alcune giuste, la maggior parte esagerate) a cui è sottoposto dalla madre.

Parlando fra loro ovviamente in francese quasi sempre (anche a tavola mentre ceniamo) capisco poco, di certo percepisco il numero di volte in cui la madre si rivolge a lui per qualcosa. Richieste, rimproveri, inviti ed esortazioni. Fra studio, sveglie non rispettate e una costante vena indolente, il nostro Matthieu penso che pagherebbe per fare cambio con me, o meglio, con il mio status. Ha la ragazza, frequenta il liceo francese e quindi anche il suo inglese non brilla parlando di fatto tutto il giorno la sua lingua madre, a volte crea discutibili mostri alimentari per cena ma è pur sempre un adolescente, abbastanza pressato e con un futuro tutto da scrivere.

Il futuro appunto, per chiarire cosa sarà della vita di questa famiglia, da sabato scorso è arrivato il padre, il signor Nicholas che nel frattempo vive e lavora a Parigi dopo essere stato qui in Canada per un lungo periodo. Faccia da francese, ma non fino in fondo, nel senso che per me il suo volto lo potremmo trovare anche fuori da un bar qualsiasi di Castrovillari senza problemi. Non ho capito ancora la sua professione, ma oltre ad avere un tono di voce un po’ troppo alto mi è piaciuto molto un suo discorso qualche sera fa a cena. Il figlio non c’era e quindi eravamo io e loro due, i genitori. Si è aperto il capitolo università, la questione che sta tenendo banco, e quale soluzione sia più adatta per Matthieu: rimanere qui da solo, perché loro a giugno torneranno definitivamente a Parigi, oppure una bella facoltà nella capitale francese. Alla fine entrambi si sono sbottonati, e tutti e due hanno espresso la propria opinione dicendo che preferirebbero tornare tutti a casa, figlio compreso.

Monsieur Nicholas però ha giustificato la sua opinione più o meno con queste parole: “Non voglio che mio figlio diventi un cittadino canadese o uno “alla canadese”. Non voglio che diventi come loro, che pensi solo ai soldi, al business, al traguardo e al successo. Conosco questi nordamericani e capisci come sono diversi da noi europei. Non voglio che lui sia come loro. Voglio per lui una formazione europea, non necessariamente francese. Voglio che la sua vita non sia solo soldi e business, ma voglio parlare con lui di altro, di cose che qui nemmeno contemplano, come…non lo so…” A quel punto sono intervenuto perché ho capito dove stesse andando, improvvisamente mi sono sentito in perfetta sintonia e ho detto una parola: “Beauty.” La risposta, dopo che gli hanno brillato gli occhi è stata: “Sì! Ecco, la bellezza. Parlare di quello, di arte, storia, filosofia, delle cose belle, di poesia, di cultura. Cose che qui non fanno mai.” Ho capito esattamente il suo concetto e mi è sembrato naturale, automatico.

Avere culture vicine, fondate sulla storia, la tradizione e la bellezza, avere delle radici impregnate di grandezza crea un ponte empatico, un legame di condivisione inevitabile. Se vieni da Parigi, uno che vive a Roma ti è molto più vicino di quanto tu possa immaginare, e per quanto l’Occidente sia inglobato in un’unica macro-area, di differenze enormi ne rimangono, e noi tre, l’altra sera, davanti a una pasta al pomodoro cucinata dal sottoscritto, ne sottolineavamo i pregi, scambiandoci ideali pacche emotive sulla bellezza di venire dal Vecchio Continente, ma soprattutto dalla Francia e dall’Italia.

A volte, capita anche questo.