Il ragazzo della Via Gluck

In modo piuttosto casuale questo mio ritorno alle origini, a vivere nel complesso in cui sono di fondo nato e soprattutto cresciuto fino a 19 anni, è stato accompagnato da una canzone: il ragazzo della Via Gluck.

Venuta fuori per caso in quarantena, mi è rimasta in testa per un verso: “Ma verrà un giorno che ritornerò ancora qui”, una frase che è diventata slogan, mentre il trasloco si avvicinava e poi nuovamente allontanava a causa di ritardi dovuti alla situazione di emergenza.

Tornare e non avere mia nonna perché ricoverata poche ore prima, durante la notte, è stata la beffa più grande che potesse riservarmi il destino. Per questo, in modo molto intimo, non mi sono sentito “tornato” fin quando anche lei non è rientrata dall’ospedale, dopo due settimane di ricovero.

Non ero perfettamente in sintonia poi per via della casa in sostanza vuota e in attesa dei mobili, ma a consegna effettuata, lunedì pomeriggio, mi sono finalmente sentito a casa.

Ci sarebbe molto da dire su un mix di sensazioni davvero particolari, mi limito a dire che nella vita in fondo è tutto un fatto di prospettive. La mia ora è dalla scala B e posso vedere le finestre di casa di mia nonna, controllo e vedo se le serrande sono su oppure giù.

Mai avevo visto questo spazio da certi angoli, e ogni piccolo dettaglio è un ricordo, e in fondo un sorriso.

Un capitolo nuovo è veramente iniziato e non è forse un caso che sia cominciato il 18 maggio, con la ripartenza del dopo lockdown. Speriamo di avere miglior sorte di quei malcapitati di ristoratori e commercianti, a loro va tutta la mia solidarietà in un momento così.

Sì, domani

Sul treno da San Pietro a Tiburtina, rientrando da una giornata di lavoro, riflettevo che questo avvicinamento a domani è stato involontariamente molto significativo.

Vivere questo mese abbondante e casa di mia nonna, in una rivisitazione di anni passati insieme, con l’aggiunta di mia madre, ha dato un tocco particolarmente suggestivo a questo matrimonio.

È stato come tornare a casa prima di un grande evento, riadattarsi a vecchie abitudini, suoni familiari, profumi di infanzia e adolescenza. È stato come tornare da un viaggio e rivedere con piacere dopo tempo volti conosciuti, in poche parole sentirsi a casa.

Non sono suggestioni ma sensazioni vere quelle vissute in queste feste, e in questi giorni a casa di mia nonna, in un quadretto familiare che mai avremmo immaginato fino a poco tempo fa.

Eppure, ci siamo ritrovati a condividere spazi e divani, letti e bagno – sfortunatamente uno – a stilare programmi, a organizzare sempre qualcosa in una sequenza di appuntamenti di rara intensità.

Il rumore del portone, il mio letto, i libri e il mio personale archivio che non va oltre il 2006, dettagli e frammenti che mi hanno riportato ad altri tempi a cui continuo ad appartenere nonostante i calendari passati nel frattempo.

Casa di mia nonna come rifugio e tana, e se c’è un luogo in cui dovevo vivere questi giorni, quello era il più sensato, il più adatto.

Ho trovato il senso di questo mese anche nel suo accompagnarmi a domani, e non sarebbe stato corretto non andare all’appuntamento più importante senza la mia macchina. Da giorni non funzionava, per giorni ci ha fatto impazzire non riuscendo a trovare il problema e quindi nemmeno la soluzione.

Il rischio logistico e pratico di non avere una macchina per domani si sommava a qualcosa di più personale per me, non compiere questi km seduto alla guida della macchina che negli ultimi 13 anni mi ha portato dove volevo.

Ieri siamo riusciti a risolvere questo ultimo contrattempo, a superare l’ennesimo ostacolo, e ora, si va.

Anzi no, si aspetta, senza dormire bene ovviamente, come quando l’indomani c’è qualcosa che ti attende e non chiudi occhio pensando a quel che sarà. Una laurea, una partenza per una nuova esperienza da qualche parte, una finale sognata, stasera è una di quelle nottate: l’attesa e la smania, il tempo che passa in modo irregolare e la voglia che sia già domani.

Sì, domani.

Il padrone di casa

Ho comprato lo spazzolino nuovo ieri, bianco e verde, medium della Colgate, un classicone, una azione che faccio ogni due mesi più o meno, perché ho letto così una volta, ho letto che lo spazzolino va cambiato ogni 8-10 settimane.

L’altro però non l’ho buttato, l’ho tenuto da parte perché ci devo pulire i bordi dei rubinetti del lavandino in bagno, quelle cose che impari a casa, vedendo tua mamma.

Non sarà casa mia ma me ne prendo cura, mi sembra qualcosa di normale, un po’ perché lo sporco mi fa schifo, un po’ perché mi viene automatico adoperarmi così.

Domenica scorsa mentre uscivo da Eaton Centre, erano le 7 e mi sono fermato a Dundas Square, a due passi da casa, uno dei cuori pulsanti della città. Avevo fame e mi sono preso un hot dog, anche se il fatto che fosse aumentato di 0.50 centesimi mi ha dato fastidio. Avevo fame e ho mangiato. Normale, ma fino a un certo punto, perché quando stai da solo fai veramente come ti pare, mangi quando vuoi, fai merenda alle 7, ceni alle 10, ti dai orari e li cambi a tuo piacimento. Un qualcosa di impagabile.

In tutto questo bailamme il passaggio da “uscire da casa” a “vivere da solo” ha preso tempo ma ha segnato pure un passaggio importante, un piacere reale. Perché la cosa che continuo ad apprezzare di più è proprio questa indipendenza e libertà, e quando la decade dei 20 è quasi arrivata al termine, ha un valore innegabile.

Sono l’unico dei miei amici che vive da solo. Gli altri convivono, si sono sposati, sono ancora a casa, o come Antonio sono nel mezzo del guado. Oggi non scambierei questo status con nient’altro, forse perché me lo devo vivere ancora un po’ o eventualmente migliorare. Alla fine poi non fai nulla di speciale e folle, ma è la sensazione di gestire tutto a tuo piacimento, di cucinare quello che vuoi, di mangiare quando vuoi, di avere il lavandino sempre pulito e i piatti lavati prima di andare a dormire, cose che non sempre succedono, a dire il vero quasi mai, quando vivi con altri, con coinquilini di varie nazionalità.

Onestamente è un tipo di condizione che non era più sopportabile per me, troppe cose, troppi room-mates e quant’altro ho già visto e vissuto, pertanto quella parentesi era giusto che si chiudesse. A volte ho la sensazione che tutto funzioni proprio perché tutto è sotto il mio totale controllo.

La lavatrice ogni 10 giorni, lavo quante volte mi pare, la finestra rimane aperta, vedo quello che mi pare, la colazione la faccio con la musica dell’Ipod, non devo parlare per forza con nessuno, faccio la spesa quando devo, ma anche quando mi fa piacere.

La bottiglia del Ramazzotti l’ho aperta quando ho deciso che era il momento, mentre quella di Chianti “Rubentino” è lì che mi guarda in attesa. Ho una pizza nel surgelatore, lo dico e non me ne vergogno, di certo è anche l’ultima spiaggia, la soluzione disperata. Gli stracci li cambio una volta al mese, ogni mattina butto la spazzatura, tanta o poco che sia, non dormo più già da diverse settimane con il lenzuolo perché malgrado tutto dentro casa fa caldo.

Le scarpe sono stipate in veranda, mentre la porta-finestra di vetro da qualche settimane è difettosa e non si apre più bene. Tutto dipende da te, un peso, ma attualmente è ancora un piacere, o meglio un onere accettabile, che ne vale la pena. Oggi alle 5.40 ero a casa, mi sono messo a letto e mi sono addormentato per un’ora, poi ho deciso che volevo andare a correre e l’ho fatto, avevo voglia di pasta con il tonno e l’ho mangiata, volevo scrivere questo post e l’ho fatto. Fantastico.

Dovessi tornare a Roma domani il problema sarebbe tornare a casa a tempo eventualmente indeterminato, ma non c’è nulla di strano, è semplicemente fisiologico. Dal primo dicembre scorso si è aperta una nuova pagina che malgrado mille difficoltà e sfortune iniziali ha inaugurato un altro percorso, uno di quelli che fanno parte della vita, e l’unica cosa che mi auguro veramente è che vada avanti e che se dovessi condividere i miei spazi ancora, spero solo che sia per scelta e piacere e non più per necessità.

Ogni volta che torno

C’è qualcosa di strano che mi accompagna ormai quando penso a Roma e a casa. Una sensazione veramente difficile da spiegare, che capisco e avverto in prima persona ma che fatico a chiarire, soprattutto se la devo raccontare.

Penso che uno dei danni principali causati da questi ultimi anni in giro, soprattutto l’ultimo anno e mezzo, è la percezione di scollegamento che vivo. Per quanto oggi le distanze geografiche si sono ridotte e la tecnologia ha abbattuto molte barriere mettendoci tutti in contatto senza troppi problemi, esistono ancora situazioni e incastri emotivi che perdurano.

Vivere così lontano e con un fuso orario piuttosto scomodo amplifica certe distanze, migliaia di km che inevitabilmente ti allontanano e ti rendono più distaccato e meno coinvolto. Non è menefreghismo o egoismo, è soltanto che tutto ti arriva in modo diverso, filtrato, e quindi con un peso diverso.

Roma e tutta una serie di cose mi sembrano lontane in ogni senso, quello che succede in Italia anche. È come se fossi sempre meno interessato alle vicende pubbliche quanto magari a cose familiari. Non penso che tutto ciò sia dettato dal fatto che essendo da solo ho già abbastanza problemi e situazioni da dover affrontare, è solo che alcune vicende nemmeno mi sfiorano, ma allo stesso tempo so che se fossi lì avrebbero un peso diverso.

Esserci o non esserci fa tutta la differenza del mondo, la verità è questa, e la lontananza distorce il tuo interesse, modifica l’emotività ed il tuo coinvolgimento.

Ogni volta che torno a Roma sono sempre braccato da due sensazioni: il naturale piacere, l’entusiasmo di tornare a casa e di sentirmi a casa in tutti i sensi, così come una strana forma di timore, vedere che durante la mia assenza magari è cambiato qualcosa, soprattutto in senso negativo, anche semplicemente cogliere qualche ruga in più nel volto di qualcuno.

Questo timore è il riflesso del fatto di non esserci stato e del renderti conto come in fondo, quel mondo che ti appartiene, ma che più che altro ti è appartenuto, va avanti senza di te e prosegue, come è normale e giusto che sia.

Quel mondo appunto, già in passato mi è capitato di dire che c’è una sensazione in fondo che mi infastidisce, ossia il non sentirmi più pienamente o in un certo modo a casa a Roma, e tanto meno dove sono attualmente. Per quanto la mia vita sia qui, il mio mondo di riferimento rimane quello, eppure non mi sento centrato al 100% in nessuna delle due realtà.

Non so se sia una conseguenza di un graduale distaccamento, di un passaggio esistenziale, di una normale conseguenza della vita, non lo so, e non lo riesco a capire, di fatto avverto questo non avere patria e non sentirmi più legato in un certo modo.

Non è tanto un discorso di sentirsi italiano e di patriottismo, tutt’altro, è proprio non avere più quella sintonia con un luogo come hai avuto per la stragrande maggioranza della tua vita.

Credo che l’essere di passaggio e il non aver tempo per riabituarmi incida, lo scorso anno, solo dopo qualche mese, mi sono sentito a casa, però c’è un qualcosa che non torna più come vorrei e il discorso mi urta inevitabilmente. Sostengo infatti che non sia un caso che quando penso al dopo Toronto, non penso a Roma, non è il posto in cui vorrei tornare se avessi scelta. Almeno non ancora, e non ora. Capiterà, ovviamente, e magari sarà il momento per risintonizzarmi su quella frequenza.

Intanto ci torno, per alcuni giorni. Poi, vediamo.