Le mie storie mondiali (Parte 3)

Ho due mondiali nel cuore: uno è quello di USA ’94 perché è il primo che ricordo e il secondo, ovviamente, è quello di Germania 2006 con l’Italia campione. Otto anni dopo gli esami delle elementari mi ritrovai a fare quelli della maturità, impegno ben diverso e ostacolo decisamente più complesso. Naturalmente, la mia mente era rivolta solo alla coppa del mondo consapevole che sarei stato promosso con un voto fra il 70 e il 75 e quindi, più di tanto, era inutile affannarsi. Be, se devo essere sincero ero diviso in due perché l’altro interesse si chiamava Elena e stava in 3°A. Andai un giorno in chiesa, entrai a San Romano da solo e chiacchierai con l’Altissimo per una buona mezz’ora. La sostanza fu questa: non ti chiedo nessun aiuto per la maturità, ma fammi vincere il Mondiale o come consolazione regalami Elena. Quest’ultima svanì in una cena di metà giugno a Tivoli e lì capii che avremmo vinto la quarta coppa. Tutto iniziò ancora a casa di Vincenzo come all’esordio nel 2002, mentre con gli Usa soffrii in veranda da solo. L’ultima partita del girone invece si giocò il pomeriggio fra la seconda e terza prova di maturità. Alle 14,30 mollai il mio compito di matematica copiato totalmente e tornai a casa per vedere la partita delle 16,30. Anche stavolta, come nel 1998, vidi il match decisivo per gli ottavi con Paolo e Chicco. Superato lo scoglio Repubblica Ceca (indossavo un t-shirt verde della All-Star e i bermuda neri) tornai a casa per ripassare due cose in vista del quizzone. L’angoscia degli ottavi con l’Australia mi riportò a Italia – Nigeria e ancora un dieci, ancora su rigore e a tempo scaduto, ci liberò da un macigno. A casa, da solo, con mia madre in veranda, mi lasciai andare quasi a un pianto di sollievo al gol di Totti. Nel frattempo erano uscite le date degli orali e io capitai il primo luglio, l’indomani della sfida con l’Ucraina. Invitai Simone che a ogni gol sparava botti dalla mia finestra, vincemmo comodamente e malgrado l’impegno che mi attendeva, alle 2 ero ancora a Piazza del Popolo con la bandiera a cantare. Non studiai nulla, la mattina dopo, entrando in aula, mi guardò la Prof.ssa Vulpiani che sapeva della mia passione sportiva e mi disse: “Ciofi, se mi dici che ieri non hai visto la partita per studiare ti faccio domande facili”. Sicuro che non avrebbe creduto a una versione non da “Matteo Ciofi”, le dissi: “Professoressa, mi conosce, e sa che ieri ho visto la partita…”

Archiviata la pratica esami, mi concentrai finalmente e definitivamente sul mondiale anche perché la storia si faceva interessante e alle porte si intravedeva il duello contro i tedeschi, la Partita per antonomasia. Andai a casa di Gabriele che mi strappò alla concorrenza, soffrimmo e esplodemmo in maniera mostruosa al gol di Grosso, così come al raddoppio immediato di Del Piero, certamente i tre minuti più pericolosi della mia vita a livello cardiaco in seguito a delle urla e dei brividi mai vissuti prima. Festeggiamo ancora a Piazza del Popolo, Gabriele si buttò in fontana, il “Patata” continuava a gridare senza motivo “Oddio l’ItalTrap!” dopo averci deliziato con il suo memorabile “Oddio Tevez, ma che sta a succede?!” al gol di Grosso.

Dei cinque giorni fra semifinale e finale non ho memoria, in trance, inghiottito da tutto, fra paura ed esaltazione e con una frase in testa, una convinzione, un mantra: “Non penso di essere ancora maturo per sopportare un’altra finale persa, e per di più con la Francia. Non sono pronto. Lo so.”

Ricordo quel 9 luglio, l’afa, la tensione e il pranzo da mio zio. Accompagnai mia cugina di 9 anni a prendere il gelato e le dissi: “Non ti invidio perché non puoi capire a cosa stiamo andando incontro…io invece lo so e ti assicuro che è un momento storico”.  Cenai da mia nonna, pollo al forno e patate alle 19, poi impugnai il mio tricolore, mi vestii come in semifinale e andai ovviamente da Gabriele, come nel 1994 non cambiai per scaramanzia il posto in cui vedere la partita decisiva dopo la semifinale.

Camminai su Via Tiburtina e assaporai quell’attesa magica, quell’esaltazione mischiata a paura. Sentivo le persone parlare del 1982, sognavo una serata così. Passeggiai lento per gustarmi ogni centimetro, l’attesa ha un potere magnetico e mi ripetevo: “Vale veramente la pena campare anche solo per momenti così”. Terrore dopo il rigore di Zidane, ossigeno al pari di Materazzi. Fui l’unico a non esultare al gol annullato di Toni, avevo già visto tutto. E poi, poi i rigori, ancora. Sempre loro e in mezzo la Francia, ma il calcio quasi sempre ti restituisce ciò che ti ha tolto in maniera beffarda e quel rigore di Grosso ci ricompensò di anni sprecati e sofferenze illimitate. Io ero sulla poltrona e credo che quell’urlo sia entrato di diritto nella mia personale top five. Che dire di altro? L’inferno, la festa, un paese impazzito, tutti stretti e uniti, tutti italiani avvolti nel tricolore perché quando c’è da celebrare siamo unici. Il centro imbandierato e il ritorno a casa alle 3. Il mio mondiale è stato questo, di Elena me ne sono fatto una ragione, l’Altissimo mi aveva dato retta ed era stato di parola.

L’estate del 2006 è stata quella della maturità e del mondiali, se ci hanno girato un film, “Notte prima degli esami. Oggi” un motivo ci sarà, quel film è nostro perché parla anche di me…

(CONTINUA)

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Le mie storie mondiali (Parte 2)

I mondiali di Francia ’98 per quelli della mia età iniziarono molto prima, in primavera, grazie a World Cup, il gioco per la Playstation che pompato dalla musica dei Chumbawamba ci condusse all’estate, e per entrare ancor più in clima io mi comprai anche il pallone ufficiale della manifestazione il “Tricolore” a 35000 Lire. Nonostante gli esami delle elementari di mezzo seguii le partite lo stesso: mi svegliai in tempo per vedere la gara di apertura Brasile – Scozia dal divano di casa di mia nonna, mentre l’esordio con il Cile lo vidi dalla nonna di Simone, e al rigore del 2-2 di Baggio scappammo a festeggiare per strada, su Via Tiburtina. Per la gara con il Camerun fui ospite di Cristiano, per la terza partita del girone invece ci radunammo tutti a casa di Paolo e Chicco. Festeggiammo insieme il raggiungimento degli ottavi prima di scendere di sotto a giocare replicando le gesta di Vieri e Baggio. Il lettone dei miei tornò ad essere il teatro per vedere gli ottavi contro la Norvegia, partita per la quale mi ero procurato uno dei miei oggetti preferiti: la fastidiosissima ma elettrizzante tromba da stadio. I quarti, invece, tappato nel salone di mia nonna per il caldo, li vidi insieme a lei. L’angoscia di sfidare la Francia padrona di casa era tangibile, decidemmo non so per quale mio gesto scaramantico di sintonizzarci su TMC e non sulla RAI e iniziò l’agonia.

Ancora i rigori, i beffardi e fottuti tiri dal dischetto, come quattro anni prima, furono la pietra tombale sui nostri sogni, transalpini avanti e noi a casa, con Bergomi e Vieri in lacrime, anche se l’immagine emblematica per me rimane quella di Baggio che con le dita mima di quanto poco fosse uscita la palla nell’occasione sciupata in partita.

Per le semifinali ci spostammo al mare, al Circeo, la Croazia sfiorò il miracolo, il Brasile fu fortunato nuovamente ai rigori e volò a Saint-Denis per sfidare la Francia. La sera della finale celebrammo da mia nonna il compleanno di mia madre e mio zio con quattro giorni di ritardo. Ricordo il mistero Ronaldo, la scioltezza con cui i Blues si imposero (tifai Francia) e mio zio che rischiò di far scoppiare casa facendo suonare la mia onnipresente tromba da stadio vicino la fiamma delle candeline sulla torta. Sfiorata la tragedia tornammo a casa, il mondiale era finito…

 

Quattro anni più tardi, dopo aver vissuto nel frattempo la cocente beffa a Euro 2000, mi rituffai nel Mondiale di Giappone e Corea del Sud del 2002, la gara inaugurale fu prima del solito, il 31 maggio con la scuola ancora in corso. Il famoso SeneGol (come titolò la Gazza il giorno dopo) superò la Francia mentre noi ci radunammo a casa di Vincenzo per un pranzo in vista dell’esordio contro l’Ecuador del temibile De la Cruz, mediocre laterale che la stampa italiana era riuscita a far passare come fenomeno inarrestabile. Ancora stordito dal 5 maggio, iniziai a farmi prendere dall’atmosfera lentamente. Perdemmo una partita incredibile con la Croazia che vidi in sala a casa mia con mio padre (mia madre e mio zio erano fra Genova e Alessandria) e poi, dopo la beffa, andammo a pranzo da nonna.

Dall’altra mia nonna mi isolai per soffrire in occasione di Messico – Italia e Del Piero ci risolse parecchi problemi regalandoci il duello con i padroni di casa della Corea del Sud. Fu un mondiale strano per orari e atmosfera, svegliarsi la mattina e vedere le partite era alienante, così come pranzare con la Nazionale in campo. Con il passare delle partite fui inghiottito dalla tensione, motivo per cui iniziai a isolarmi perennemente. Che dire su Italia – Corea? Sembrava in discesa grazie a Vieri, poi Moreno salì in cattedra e la storia la sappiamo tutti. Una beffa, una vergogna, una rapina a mano armata senza mezzi termini, affogai la mia tristezza andando a giocare con un caldo mortifero a basket in chiesa, ovviamente da solo.

Conclusa la nostra breve e opaca esperienza in Oriente, la finale la vidi in Puglia a casa di amici di famiglia (tifai Germania, sempre contro il Brasile…), a Mola di Bari, prima di procedere per Monopoli e raggiungere il famoso Cala Corvino, sì quello del telefilm “Professione Vacanze” di Jerry Calà, l’unico aspetto positivo di un inizio di estate abbastanza deludente…

(CONTINUA)

 

http://www.youtube.com/watch?v=sp5yXNqN–A

Le mie storie mondiali (Parte 1)

Da otto settimane, ogni sabato, Sky ci sta accompagnando per mano verso il grande appuntamento dei Mondiali con le storie raccontate da Federico Buffa per quello che è indubbiamente il programma più bello dell’anno. Attorno alle vicende sportive di una coppa del mondo del passato, vengono snocciolati racconti con una serie di spunti che vagano dalla letteratura, alla musica, passando per il cinema. Il calcio diventa pretesto e ossatura della puntata, la capacità aneddotica di Buffa e la sua proverbiale sapienza condita da infinità abilità lessicale, rendono il tutto semplicemente magnifico. Ripercorrendo queste storie e questi mondiali, molti dei quali non ho potuto vivere di persona per ovvi motivi anagrafici, mi sono fatto comunque trascinare in questo vortice e non posso esimermi dal raccontare un po’ le mie storie mondiali, soprattutto ora che mancano 13 giorni a Brasile 2014.

 

Ho due flash di Italia ’90: uno al mare al Torvajanica, la tv accesa con noi intorno al tavolo ed un altro relativo alla finale per il terzo posto giocata a Bari. Quella partita la guardammo a Roma, in veranda. Finestre aperte e urla da fuori. Il mondiale in casa, quello che mi avrebbe travolto del tutto ho avuto la sfortuna di viverlo così, due istantanee e il rimpianto di non essere nato dieci anni prima.

 

La mia prima vera coppa del mondo è quella del 1994 negli USA, sette anni e la prima elementare appena terminata, di quei 30 giorni ricordo tutto, veramente, come se avessero giocato ieri sera. Eravamo al mare sempre a Torvajanica, ricordo l’esordio e la gara contro la Norvegia viste sul mega schermo allo stabilimento “Da Gigi”, a un passo dalla spiaggia, io e mio papà. Contro il Messico tornammo a casa prima giocando di pomeriggio, erano venuti Zio Vincenzo e Zia Margherita. Con tanto di sabbia ancora sotto i piedi mi avvitai al divano per vivere la gara che valeva il passaggio agli ottavi. Ecco, gli ottavi appunto, credo sia la partita delle partite. Se penso alla sofferenza penso a quell’Italia – Nigeria, è stata la gara dell’angoscia della mia infanzia, come Italia – Olanda nel 2000 è stata la partita dell’ansia dell’adolescenza e Barcellona – Inter della mia giovinezza. La guardammo da mia nonna, anche Alessandro rimase lì dopo aver giocato in cortile nelle ore di attesa. Fu proprio lui a dirmi che gli africani erano passati in vantaggio mentre stavo recandomi al bagno. Ho ancora la piena sensazione della sofferenza, della fatica, e poi quel gol di Baggio a risollevarci quando era già finita. Miracolo, magia, non lo so, direi più che altro liberazione. Noi bambini scendemmo di sotto a festeggiare, fu lo stesso quando il Divin Codino la risolse dal dischetto. Impazzimmo letteralmente, e pensare che era solo l’inizio. Con la Spagna la vidi sul lettone dei miei, serrande giù per ripararci dal caldo, ventilatore accesso e remake in parte dei patimenti vissuti pochi giorni prima, ma poi, ancora lui, l’idolo per antonomasia, quello che veniva chiamato da Pizzul per nome (sento ancora nelle mie orecchie quel crescente “Roberto, Roberto, Roberto, sì!”) all’ultimo respiro, di nuovo, ci porta in semifinale. Andammo da zio Remo per la sfida con la Bulgaria, sempre con Baggio protagonista e finale in tasca. Ricordo il finestrino della nostra Regata tirato giù, Via Casilina per tornare da Frascati e io che tengo forte la bandiera fuori, accarezzata dal vento. Ovviamente, anche la finale, la vedemmo da zio Remo, la scaramanzia è tutto in certi casi, un obbligo morale da rispettare, un vincolo che dodici anni dopo mi avrebbe riportato a casa Falcone dopo la sfida vinta contro la Germania. Della partita di Pasadena ricordo la paura e il timore di finire ai rigori, una sofferenza in più, dopo un mondiale di agonia. A me, dopo 20 anni, fa ancora male ripensare a quella serata. Di certo quello è stato il primo grande shock della mia vita, ma un dramma sportivo del genere, per un bambino di sette anni, ha un peso enorme. Ho impiegato anni a riprendermi, solo il 2006 ha di fatto cancellato in parte quella personale tragedia, resta il fatto che da quel giorno ho iniziato a detestare il Brasile con tutto me stesso. Non tanto la nazione, i giocatori, ma coloro che nel momento in cui io piangevo stavano festeggiando. Crudeltà dello sport, il fascino della competizione. Il sale di ogni duello.

Ancora oggi che ho 27 anni non sopporto l’idea del Brasile. Per carità, nulla contro nessuno, anzi, il destino ha voluto che nella mia famiglia arrivassero anche due brasiliane a cui vogliamo ovviamente bene, però, però non lo so. Difendo ancora quel bimbo a cui hanno fatto del male, una specie di torto, e se sogno di vincere un mondiale sogno di batterli, e se esce l’Italia tifo contro di loro, per me il Brasile è come il Milan, la Roma e la Juventus messe insieme. Per me USA ’94 è la beffa dopo la cavalcata, la favola spezzata da undici uomini vestiti in giallo, l’eroe con il codino che sbaglia nel momento decisivo rovinando il copione perfetto…

(CONTINUA)

BAGGIO

Elena

Qualche giorno fa, leggendo un’intervista rilasciata da Marcello Lippi ad un giornale, mi è ritornato in mente un fatto, una cosa che penso di non aver mai raccontato a nessuno.

I Mondiali del 2006 l’Italia li vinse per merito mio, di Elena e del Padreterno.

Per spiegare questa frase piuttosto ad effetto devo tornare indietro di qualche anno, esattamente ad aprile 2006. Sono gli ultimi mesi di scuola prima della maturità ed un pomeriggio, dopo pranzo, torno al Plinio per una conferenza alla quale siamo obbligati a presenziare. Mentre salgo la lunga scalinata che dall’ingresso porta alle aule del primo piano mi ritrovo dietro ad una ragazza.

Mi ritrovo in realtà a salire con il suo fondoschiena davanti, a un metro dagli occhi, avendo un ritardo di due gradini da lei.

Rapito dalle sue forme, rispondo ironicamente a Giulio che parla di altro, lei si gira, mi sorride, scambio di sguardi e scintillona che scocca, almeno per me. La ragazza in questione si chiama Elena, fa il terzo e ha quindi 17 anni, due in meno del sottoscritto. Da quel pomeriggio in poi mi porto questa ragazza in testa, e ad ogni ricreazione e a ogni possibile incrocio i nostri sguardi entrano in contatto e non solo per la mia volontà. Ai primi di giugno (ora tutti penserete: “Ma hai fatto passare un mese e mezzo? Che aspettavi?” ricordatevi sempre che sono uno dei fondatori della Società Fabiana…) mi butto. Attraverso amicizie in comune, se così si può dire, mi faccio avanti e l’impatto non è dei migliori, almeno, questo è quello che penso.

Pochi giorni prima della fine della scuola, senza motivi particolari, mentre rincaso da via Tiburtina decido di fermarmi in chiesa. Non prego, non mi affido al Signore, non voglio protezioni per la maturità. Vado a parlare con l’Altissimo così, per fare due chiacchiere e già che ci sono sposto il discorso su Elena. Al Signore chiedo lei. Non mi interessa del diploma, del voto, di queste cose, voglio Elena della 3°A.

Prima di alzarmi dalla panca, la mia follia mi porta a pensare al Mondiale alle porte, e, non so per quale maldestro collegamento, mi fermo e rilancio l’offerta: “Se però Elena non riuscissi a portarmela, fammi vincere il Mondiale”. Esco soddisfatto e non racconto a nessuno il mio dialogo con Dio. Un paio di settimane più tardi, vado con i miei compagni di classe ad una festa vicino a Tivoli ed Elena mi rifiuta, non si può fare nulla. Apre quindi la maledizione femminile che mi porto ancora appresso e che inaugurò due estati prima Milena.

Triste per il NO secco e deciso, entro in una voragine di tristezza. Sostengo nel frattempo le prime tre prove e poi mi gusto Italia-Australia. Quando Grosso cade in area e l’arbitro indica il rigore, mi viene in mente Elena, e ripenso al “patto” con il Signore. Totti la butta dentro e comincio a pensare al mio scambio, all’altare sacrificale sul quale ho messo in qualche modo Elena.

Il resto è storia: a Berlino diventiamo campioni del mondo domenica 9 luglio e rientrando a casa quando le 3 sono trascorse da un po’ passo davanti la chiesa. Penso al mio discorso fatto un mese prima, a Elena, al patto, e al regalo che mi ha fatto il Padreterno e mi rendo conto che, dopo aver vissuto quel genere di emozioni, è stato meglio così.