Come lui, c’è soltanto lui

C’è poco da fare, spiegare e raccontare certi personaggi è molto più complicato che descriverne altri. Ecco, Predrag “Sasha” Danilovic appartiene alla prima categoria perché probabilmente per farne un ritratto giusto bisognerebbe inventare dei neologismi, degli aggettivi mai sentiti, sarebbe necessario usare perifrasi ma poi uno si renderebbe conto di non averlo celebrato comunque in maniera opportuna.

Forte, anzi fortissimo, intelligente, sufficientemente provocatorio, guascone quanto basta ma soprattutto leader, leader nel senso più profondo del termine, con un carisma forse superiore al suo indicibile talento. Quando pensi a uno del genere la prima idea che riesci a elaborare è il senso di invincibilità che ti dava quest’uomo quando lo vedevi correre sul parquet, prendere il pallone e volare verso canestro.

Non c’è alcun dubbio che sia stato uno dei migliori cestisti europei di sempre, sicuramente il più grande negli anni Novanta, un concentrato di classe e potenza, di rabbia agonistica e voglia di primeggiare, sempre, a tutti i costi. Non ha giocato a basket, ha inventato pallacanestro, ha disputato anni a livelli mai visti prima, in Italia e in Europa.

Massimo Maccaferri nella biografia di Danilovic afferma che Sasha, con le debite e rispettose proporzioni, sia stato il Michael Jordan al di qua dell’oceano: numeri, vittorie e importanza non riescono del tutto a negare questa teoria che si deve considerare di conseguenza più che accettabile.

Racchiudere la sua immagine nel celeberrimo tiro da 4 del 31 maggio 1998 è inevitabilmente riduttivo, ma è indubbio che in quello scatto ci sia l’essenza di Sasha, la capacità di decidere e ribaltare una gara persa, la consapevolezza dei suoi mezzi, il peso della responsabilità di cambiare la storia di una partita e di quel campionato.

Ci sono decine di aneddoti che lo riguardano, per me uno dei più significativi rimane quello relativo alla notte di gara-2 contro Pesaro in finale scudetto nel 1994. Tornando in pullman verso Bologna, dopo una sconfitta pesante, Danilovic non parlò mai, arrivati davanti al Paladozza, quando mezzanotte era passata da un pezzo, si avvicinò al guardiano del palasport e si fece dare le chiavi. Entrò da solo sul parquet dicendo: “Non esco da qui finché non faccio almeno cento canestri ”, una sorta di punizione per la prestazione opaca offerta poche ore prima. Arrivò a casa alle tre di notte e la mattina fu il primo a presentarsi in palestra per l’allenamento. Fenomenale.

Danilovic è stato senza dubbio il più grande giocatore della storia della Virtus, per ciò che ha rappresentato, per quel famoso tiro, per i 4 scudetti vinti ma soprattutto per la Coppa Campioni del 1998, l’anno della famosa “doppietta”, la prima volta della V nera sul tetto d’Europa.

Sprezzante di ogni pericolo, inarrestabile, impossibile da intimorire, vincente, campione dentro ma con quel senso di colpa mascherato quando tu diventi ricco, ti diverti e dall’altra parte dell’Adriatico, a casa tua, i tuoi amici stanno combattendo e i tuoi ricordi vengono distrutti da una guerra infinita.

Ha vinto tutto quello che c’era da vincere, ha fatto parte di quella nazionale jugoslava che era stata costruita per non perdere mai, ha giocato in una delle Virtus più belle di sempre. Ha visto l’America e l’NBA da vicino, è tornato in Europa e ha rivinto ancora. Amava l’atmosfera del derby, adorava i duelli con Myers, la sua vedova nera tatuata sul braccio ha fatto impazzire Via Calori e tutta Bologna.

Domenica è tornato nella sua città adottiva e il pubblico gli ha tributato l’omaggio più grande: la sua canotta numero 5 è stata ritirata per sempre, nessuno potrà più indossarla, perché come lui c’è soltanto lui.

 

Già mezz’ora dopo il suo addio, brusco come i suoi modi, veloce come i suoi assalti a canestro, sotto i portici si discuteva se fosse stato il più grande straniero mai paracadutato in città sottintendendo, ovviamente, il più grande arrivato in Italia. Lo è stato. Per le sue cifre, per il suo impatto sulle gare, per la sua leadership su compagni e avversari, per il suo modo feroce di affrontare le partite e spesso ucciderle.

Carlo Cavicchi

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I miei derby di Natale

Alla fine è sempre così, quando ti ritrovi davanti al computer o alla tv, in attesa che esca il calendario a fine luglio, mentre sudi e bevi the freddo, la prima cosa che vai a controllare è la data del derby, te la stampi in mente e non devi sforzarti per ricordartela. Troppo importante come partita, troppo diversa dalle altre per emozioni e sensazioni, insomma, una roba speciale. Quando girando per il salone con i pantaloni corti ho appreso che la stracittadina sarebbe stata a ridosso di Natale, l’ultimo match del 2013, la mente è volata subito a quello del 2007 quando vincemmo regalando ai nostri dirimpettai un amaro 25 dicembre. Curioso il fatto che la reazione di “Cravatta Gialla” su tale coincidenza produsse uno strano commento dal tizio appena citato: “Non ricordo derby giocati così in prossimità di Natale, è la prima volta.” Mentre il pelato diceva questa frase insensata, palesando limiti di memoria notevoli o la voglia di dimenticare quanto accaduto solo sei anni prima, io inveivo prepotentemente dalla mia postazione di comodo (il divano) e gli lanciavo una maledizione che sottintendeva un altro triste e avvelenato Natale per loro. Alla fine è successo. Per la terza volta complessiva, per quanto mi riguarda, c’è stato un derby prima delle feste e personalmente posso sfoggiare il mio personalissimo tris.

 

KINDER – PAF 99-62 (23.12.2000)

È il derby del meno trentasette. Mai vista una roba del genere in campionato. È sabato ed è stato l’ultimo giorno di scuola. Alle 17.00 al Palamalaguti va in scena il primo scontro dell’anno. La Fortitudo è campione d’Italia in carica e arriva a Casalecchio con tanto di tricolore in petto. La Virtus è squadra giovane e rinnovata con tanto talento e molto atletismo. Non c’è partita e succede qualcosa che va al di là di ogni rosea previsione. La Virtus vola e la Paf cade clamorosamente. A fine terzo quarto il punteggio segnala -24 per gli ospiti (75-51). La partita diventa un massacro, entra di tutto e i campioni d’Italia vengono distrutti con tanto di tripla finale del giovane Brkic che firma il 99-62. La Virtus stradomina e aggancia la Fortitudo in testa, pochi giorni dopo la supera, è l’inizio della stagione più grande di sempre, quella che finirà con otto derby giocati (sette vinti) ma soprattutto con la vittoria in campionato, in coppa campioni e in coppa Italia. Il grande slam, ma tutto comincia a 48 ore da  Natale con un derby…

 

INTER – MILAN 2-1 (23.12.2007)

Il Milan è da poco campione del mondo, l’Inter è campione d’Italia e già in testa al campionato. Il derby arriva per la prima volta così a ridosso delle feste. Sciopero del tifo in curva, il Milan invece entra in campo fra gli applausi degli interisti (intesi come giocatori) che tributano ai neo campioni del Pianeta un giusto omaggio. Pirlo trova l’angolo giusto su punizione e infila Julio Cesar, poco dopo arriva la reazione rabbiosa nerazzurra che culmina con una mazzata di Cruz. Nel secondo tempo Dida si traveste da Babbo Natale, compie un papera clamorosa su un innocuo tiro di Cambiasso e ci portiamo a casa il terzo derby di fila. La stagione finirà con l’Inter ancora campione d’Italia ed il Milan fuori dalla Champions, loro, i campioni del Mondo…

 

INTER – MILAN 1-0 (22.12.2013)

Uno strano scherzo del destino ha fatto coincidere il mio ritorno da Dublino con il derby. Dopo mesi di streaming finalmente il piacere di rivedere una partita nel modo migliore, soprattutto considerando l’importanza della sfida. Incontro brutto, poco spettacolo e tanti errori, alla fine però conta il risultato e quello sorride a noi. Una magia di Palacio a quattro dalle fine mette il punto esclamativo sulla stracittadina, finisce con i milanisti obbligati ad ingoiare un’altra fetta di panettone avariato. Uno splendido avvicinamento alle feste, il modo migliore per chiudere il 2013 calcistico, anche perché, alla fine della storia quel che vale è che voi incassate e Buon Natale…

Luglio 1997…ottobre 2011

Luglio  1997, ottobre 2011. Per tutti saranno dei mesi qualsiasi, presi senza criterio in due annate a caso, ma non per me che trovo in questi due periodi uno straordinario filo rosso che li collega ed unendoli mi fa rivivere dei momenti assaporati e semplicemente fantastici.

È l’estate del ‘97, ho appena finito la quarta elementare e la voce di Ronaldo all’Inter prende sempre più corpo. Già a Pasqua si vocifera questo clamoroso botto di mercato, il Sabato Santo compro la Gazzetta nel bar di Sestri e leggo una dichiarazione del Fenomeno che parla di Moratti e di un portachiavi regalatogli dal presidente nerazzurro con una mezza promessa strappata per il futuro, qualora dovesse lasciare Barcellona l’Inter sarebbe la sua prima opzione. Passano le settimane e la trattativa parte realmente, l’Inter perde in modo drammatico la finale di Coppa Uefa con lo Schalke ai rigori a San Siro, finisce la scuola, parto per la Sardegna e mi godo la Coppa America seguendo il Brasile di Ronaldo sognando di vederlo in nerazzurro. Dopo un’estenuante negoziazione Moratti apre il salvadanaio e paga l’intera clausola rescissoria a Nunez, 48 miliardi di lire e porta il giocatore più forte e desiderato al mondo a Milano. Il Barça non vuole cedere, si appella alla Fifa che dà ragione all’Inter e così il 27 luglio Ronaldo sbarca in Italia e finalmente mi libera dal peso di questa trattativa che mi aveva coinvolto clamorosamente. A quei tempi Internet si poteva trovare negli uffici, in posti di lavoro, ma non a casa o non era certamente diffuso come oggi, tutto ruotava intorno a tv e giornali, la Gazzetta dello Sport che seguì l’affare minuziosamente divenne la mia Bibbia, i notiziari sportivi di Rai, Fininvest e Tmc furono i momenti che scandirono le mie giornate perché io ero lì appeso al teleschermo che cercavo di capire sviluppi e speravo che ci fosse sempre qualche aggiornamento positivo. Quattordici anni dopo sto rivivendo le stesse sensazioni anche perché molti fattori si stanno riproponendo chiaramente. C’è di mezzo il giocatore più forte del mondo (Kobe Bryant) c’è di mezzo la mia squadra (la Virtus) c’è una trattativa che si sta protraendo sempre di più, e poi ci sono io che seguo ogni ora l’evolversi della situazione con un certo stato d’angoscia. Bolognabasket.it e Skysport 24 sono i miei canali ufficiali dai quali cerco di carpire qualche news sulla vicenda con la speranza ed il desiderio di sentire qualche dichiarazione ufficiale importante, quelle che pesano e cambiano la storia. Oggi poteva essere il giorno, ma ancora ci sono degli slittamenti, Bryant in Italia resta una trattativa complicatissima, all’inizio era impossibile ora è probabile. Il lock-out dell’NBA sembra persistere e ciò aumenta le possibilità di vedere la stella americana a Bologna, nel frattempo io vivo con questo sogno e con la consapevolezza che sarà una cosa a tempo e limitata ma pur sempre un brivido di dimensioni enormi. Sono cresciuto con la Virtus di Danilovic, quella dei tre scudetti di fila, ho finito le elementari con il ritorno di Danilovic e la Virtus dell’accoppiata Scudetto e Eurolega, quella che vinse “le guerre mondiali” come ha scritto Enrico Schiavina. Subito dopo ho sognato con la Virtus di Ginobili, l’invincibile squadra in grado di vincere tutto in un anno, il gruppo del famoso Grande Slam del 2001 e ora sono qui con la nuvoletta di Bryant sopra la testa che mi accompagna durante ogni giornata da quasi un mese. Lo sport è magnifico, è spesso una valida metafora della vita ma soprattutto una magica regressione infantile, ho 24 anni e sto rivivendo le sensazioni di quando ne avevo 10 e sognavo Ronaldo. Non so se il colpo di Sabatini andrà a buon fine, se Bryant arriverà e la Virtus avrà un altro fenomeno nella sua leggenda, ma se ciò dovesse succedere, un giorno a mio figlio (che tiferà per le stesse squadre del padre ovviamente) potrò dire di aver visto giocare con le mie maglie del cuore due campioni inarrivabili, i più grandi per quelli della mia generazione.  

Ospiti a casa nostra…

Non credo che si debba essere eternamente schiavi e prigionieri della gratitudine e per questa ragione ritengo sensato e pienamente condivisibile il malumore che da diverso tempo serpeggia fra i tifosi della Virtus, nei confronti del nostro proprietario Sabatini. Quest’ultimo ha risollevato la Virtus nell’estate del 2003 evitando che sparisse del tutto dopo il fallimento di Madrigali, ha reso possibile l’affiliazione nuovamente e dopo 2 anni di purgatorio è riuscito a far risalire nella massima serie la squadra, portandola anche a dei buoni risultati soprattutto nelle prime stagioni. Sabatini ha i suoi meriti, va ringraziato per diverse cose ma è altrettanto giusto che venga criticato considerando il suo operato degli ultimi anni. Il budget cala costantemente, quello della Virtus di questa estate sarà un quarto di quello del Montepaschi considerando che dovrebbe aggirarsi intorno ai 4.5 milioni di euro, ma la popolarità di Sabatini stesso è in calo per i suoi modi talvolta plateali e per le sue iniziative al limite del ridicolo. L’ultima enorme questione che sta scoppiando definitivamente è quella legata al Palasport e durante una conferenza stampa del 10 giugno ha affermato che la Virtus il prossimo anno giocherà alcuni match a Ferrara, a 40 km da casa sua, a 40 km da Bologna. Nel lungo discorso il proprietario bianconero ha provato a fare chiarezza spiegando alcuni passaggi che si intrecciano inevitabilmente alla situazione della Fortitudo e quindi al PalaDozza, la casa della F scudata. Sabatini ha quindi dichiarato che non è corretto che la Fortitudo di Romagnoli dopo aver lasciato 6.4 milioni di debiti e dopo che il presidente biancoblù non ha tirato fuori una lira da quando ricopre tale carica, possa giocare al PalaDozza. Questo è giustissimo e mi sento di condividere la posizione di Sabatini anche perché il modo in cui si è comportata la giunta e il Comune è veramente assurdo ed inspiegabile. Appurato questo discorso, Sabatini ha poi deragliato affermando cose a mio modo di vedere paradossali. La Futurshow (il vecchio Palamalaguti) è di sua proprietà ed è luogo di concerti e di grandi iniziative per la città, ma prima di tutto è il palasport della Virtus. Per me è inaccettabile che si debba anticipare una partita o giocare altrove perché a metà maggio c’è il concerto di Shakira  e quindi bisogna trovare un’alternativa dato che al signore in questione fa molto più comodo un evento del genere per le sue tasche piuttosto che un partita di pallacanestro. Va bene tutto ma la Virtus deve avere la precedenza su ogni cosa, su ogni evento. Nel caso di Shakira Sabatini aveva chiesto di giocare al PalaDozza ma alla fine non se ne fece nulla. Se ci sono dei concerti o altri eventi per me è folle che si debba traslocare a Ferrara, non si può giocare una partita in casa “in trasferta”, è semplicemente paradossale. Su questo punto Sabatini si è espresso così: “Avremmo dovuto proporre ai nostri tifosi di giocare in un impianto con l’immagine di Pellacani e la curva Baron Schull? Io ci metto la faccia, ed è una cosa inaccettabile per un nostro tifoso, giocare nella casa della Fortitudo, che ottiene la gestione del palazzo come premio per aver lasciato 6.4 milioni di debiti”. Da tifoso della Virtus mi sento di dire un paio di cose su questa affermazione, esponendo la mia personalissima opinione. Preferisco giocare al PalaDozza a prescindere dalla foto di Nino Pellacani, preferisco giocare a Bologna e soprattutto nel luogo che per me non è la casa della Fortitudo, considerando che al PalaDozza di Piazza Azzarita è nato il mito della Virtus quando la Fortitudo era una squadretta di quartiere che si affacciava sui parquet d’Italia. In questo luogo mitico la Virtus ha scritto la sua storia prima di riempire pagine di leggenda al Palamalaguti di Casalecchio, lasciando quel campo alla Fortitudo. Ha ragione Sabatini sul fatto dei debiti è dell’ingiustizia riguardo la gestione del palazzo, ma la Virtus appartiene a Bologna e non può traslocare per nessun motivo al mondo nemmeno mezza volta, soprattutto per eventi del cazzo e per i concerti. Il pubblico virtussino è il più numeroso d’Italia, fa il maggior numero di abbandonati ed ha una storia ed una tradizione inarrivabile per chiunque altro e a Ferrara non ci andiamo. Meglio il PalaDozza con la foto di Pellacani che per l’occasione si potrebbe coprire con un bel telone bianconero che giocare a 40 km dalla propria città. La Virtus appartiene ai tifosi e alla propria storia, Sabatini talvolta se ne dimentica di questo aspetto, perché quella V nera su campo bianco per molta gente significa tantissimo, per lui forse no.

 

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 (Il PalaDozza di piazza Azzarita, dal 1957 al 1996, casa nostra…)