Per la prima volta

Per la prima volta, ieri mattina, ho avvertito una sensazione diversa, una percezione tante volte dichiarata per scherzo o per tormentone ma che in questo sabato primaverile ha preso dei contorni diversi. Per la prima volta mi sono reso conto che se non è finita, non è che manchi poi così tanto al traguardo, questa considerazione è scaturita dopo un colloquio con il mio relatore della triennale che anche per la laurea magistrale vestirà tale ruolo. Abbiamo conversato per circa 25 minuti, abbiamo parlato del suo corso che dovrò frequentare, ci siamo spinti un po’ più nel dettaglio riguardo l’argomento della tesi che pare ormai stabilito definitivamente e poi si è discusso del post- laurea. Da tempo volevo porre una domanda al professore ovvero: “Cosa mi consiglia? mi dia un suo suggerimento o solo un’opinione su cosa sarebbe meglio fare considerando i miei interessi e le mie aspirazioni”, oggi c’è stata l’occasione e abbiamo parlato anche di questo. La conversazione è stata molto chiara ed onesta, ho ricevuto dei suggerimenti interessanti ed è stato piacevole poter chiacchierare di certe cose con un personaggio del genere che stimo moltissimo. Uscito dall’università mi sono incamminato verso la palestra e ho ripensato alla conversazione e a quello che mi aveva detto il professore, pesando e riflettendo le sue parole, ma soprattutto mi sono reso conto che per la prima volta ho parlato di certe cose ed in un determinato modo, con qualcuno che va al di là del nucleo familiare o degli amici. Ho parlato di futuro, di quello che sarà, con la persona forse più azzeccata per ovvie ragioni, mi mancano 4 esami e se tutto andrà bene chiuderò il discorso ad inizio settembre per poi dedicarmi alla tesi. Manca ancora un mese e mezzo di lezioni, poi ci sarà l’ultima vera ed impegnativa sessione di esami ed un’estate che farà da ponte per completare il mio percorso all’università. Forse manca tanto o forse no, oggettivamente non troppo tempo, se poi analizzo la rapidità con cui sono scivolati questi anni, i discorsi fatti con il professore potrebbero riguardare un futuro già qui dietro l’angolo. È questo che ieri mattina mi ha fatto uno strano effetto, parlare di certe cose e rendermi conto che in fondo non distano chissà quanto, anche perché quest’altro ciclo si sta per esaurire, c’è ancora un po’ di strada ma questa sta iniziando a volgere inevitabilmente verso lo striscione del Finish.

È lunga ma non così tanto o non come sembra, e se ieri ho sentito per la prima volta una sensazione insolita, un motivo ci sarà. 

Arrivederci Gabri

A certe cose non ci si abitua mai in realtà, ed infatti, anche stavolta, il saluto finale a Gabriele mi ha lasciato quel velo di amarezza che inevitabilmente ti avvolge quando un amico parte. Ieri sera si è consumato l’ultimo abbraccio con uno dei miei migliori amici in quel di Fiumicino, per il quarto anno consecutivo Gabriele è partito in questo periodo, ma la grande differenza rispetto alle tre precedenti partenze è che stavolta non c’è un biglietto di ritorno nella sua pesante valigia. Il suo terzo viaggio a partire dal 2008 con direzione Pechino è ben diverso, non sarà un periodo delimitato ma una partenza con un ritorno incerto, un ritorno che sarà decretato da come andranno le cose in Oriente, in poche parole dalla vita. C’era la Vecchia Guardia all’aeroporto tranne il mio omonimo che non è potuto venire, siamo arrivati con largo anticipo, abbiamo cenato al McDonald’s fin quando alle 22 gli abbracci finali sono stati il prologo della sua partenza e l’epilogo della nostra serata che ha preso ovviamente quella piega contraddistinta dalla tristezza. Parte un mio amico e parte un pezzettino di me, onestamente non me ne rendo ancora conto per bene, l’abitudine a queste partenze negli ultimi anni è in realtà fuorviante perché stavolta come ho già dettò sarà diverso, a fine maggio non saremo nuovamente a Fiumicino ad accoglierlo calorosamente. So che è partito ma non ho preso ancora contatto con l’idea che non tornerà e che magari per rivederlo dovrò andare da lui in Cina. Mi mancheranno tantissime cose: il piacere di una lunga telefonata, qualche consiglio profondo, una semplice chiacchierata in macchina a tarda notte sotto casa, tutte queste cose comincerò a rimpiangerle fra qualche tempo, quando mi renderò conto di non poterle vivere liberamente. Per Gabriele si è chiuso un ciclo, quello dell’università, dopo cinque anni era giusto partire, rischiare, assumersi certe responsabilità per fare qualcosa di importante. Condivido la sua scelta e gli faccio il più grande in bocca al lupo del mondo, ha scelto di azzardare e spero che la fortuna lo possa assistere così come il coraggio quando sarà estremamente necessario. L’ho salutato con un forte abbraccio e gli ho lasciato un bigliettino bianco in cui avevo annotato un pensiero breve ma molto semplice da dedicargli. È partito anche lui, ed in fondo, da ieri sera, sono un po’ più solo.

 

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(Voglio ricordarlo così, alle 5 di mattina che dorme su un gradone di marmo sotto l’Arco a Milano, dopo la finale di Supercoppa italiana che abbiamo visto insieme questa estate).

Saddam e Warren Barton come Gheddafi e Pazzini

È strano festeggiare qualcuno quando a 1000 km da casa tua sta iniziando un’altra guerra, è ancor più strano e in qualche modo paradossale, il giorno dopo, distrarsi durante una partita di calcio mentre bombe e sparatorie impazzano. Questo è quello che è successo nell’ultimo finesettimana, la Libia in guerra attaccata dalle forze alleate ed io che me ne andavo a spasso prima a celebrare un mio amico in partenza e l’indomani davanti alla tv a gridare per le gesta di Pazzini. Il calcio è uno spettacolo, uno show che va in scena a ripetizione e ha quell’effetto ritardante sulle persone come poche altre cose, ti porta inconsapevolmente ad una regressione infantile. È assurdo come lo sport a volte riesca a coinvolgere anche quando a 1000 km più a sud della tua poltrona ci sono persone che vivono il dramma di un conflitto, in questo caso di una guerra civile. Credo che solo un paio di cose al mondo abbiano un tale potere, la forza di estraniarti a prescindere dall’atmosfera e dal contesto che ti circonda. Nel mio libro preferito e tante volte citato anche su questo blog, ovvero Febbre a 90° di Nick Hornby, c’è un pezzo che fa riferimento alla Guerra del Golfo e l’autore intreccia magistralmente questo evento proprio ad una partita dell’Arsenal…

            Come poteva Highbury diventare il centro dell’universo, mentre a mille miglia di distanza un milione di uomini stavano preparando ad ammazzarsi l’un l’altro? Facile. Il gol di Merse all’inizio ripresa ci procurò una vittoria per 1-0, ma quando il calcio di punizione di Warren Barton portò il Wimbledon alla vittoria ad Anfield, e noi arrivammo in testa alla classifica per la prima volta in stagione, l’interesse si ridestò. A dicembre 8 punti di distacco e a gennaio 1 di vantaggio …Alle 5 meno un quarto Saddam era bell’e dimenticato, e Highbury era in fermento.

È evidente come questo pezzo estratto dal libro di Hornby ricalchi le sensazioni e anche le situazioni vissute domenica. La rimonta, il risultato di 1-0, la vittoria legata alla sconfitta di un’altra squadra, sono tutte cose che hanno reso questo parallelismo ancor più forte e mi hanno fatto pensare alla folle potenza estraniante del football.

            A dicembre 13 punti di distacco e a metà marzo soltanto 2, con il derby al prossimo turno di campionato. Alle cinque meno un quarto Gheddafi era bell’e dimenticato e San Siro era in fermento.   

 

Anche per voi

Le pessime condizioni climatiche ed una salute ancora non del tutto stabile mi hanno tenuto in casa fino alle 17, quando poi ho sentito risuonare in diretta tv l’inno di Mameli dentro al Parlamento, mi sono vestito ed in preda ad un fomento indicibile sono partito con direzione Roma centro. Volevo essere presente anche soltanto per un minuto a questo 150esimo anniversario dell’Unita d’Italia, è piovuto per tutto il giorno, tanto vento ed un cielo coperto che metteva quasi paura, ma alla fine, sono andato e sono stato felice di ritrovarmi davanti all’Altare della Patria con il tricolore in mano il 17 marzo 2011. Sono giunto alla stazione Termini e poi mi sono diretto verso Piazza Venezia, splendida l’aiuola verde-bianco-rossa ma soprattutto incredibile il flusso di folla che ho trovato, sembrava il sabato prima di Natale. Negozi aperti e migliaia di romani in giro per le vie del centro, il mio percorso è proseguito per tutta Via del Corso dove ho fatto sosta in San Giacomo in Augusta per arrivare poi a Piazza del Popolo, luogo in cui era previsto un concerto annullato a causa del maltempo. Sono arrivato quando gran parte delle celebrazioni erano concluse ma sono stato comunque soddisfatto del mio giro in solitaria, se non lo avessi fatto sarei andato a letto deluso e con il rimpianto di non esserci stato, di non aver partecipato nemmeno per un istante ad un avvenimento così bello. Mi sento italiano fino in fondo, l’ho ripetuto tante volte negli ultimi post, credo di essere diventato così grazie anche a mia nonna che da piccolo mi raccontava la guerra che ha vissuto, la borsa nera che era costretta a fare, i suoi viaggi sui respingenti dei treni e quando andava a Voghera a piedi. Mia nonna mi ha trasmesso il rispetto per il tricolore e l’amor di Patria e se oggi sento e vivo in questo modo le celebrazioni per l’Unità è anche per merito suo. Sono andato in centro per lei, per David che a migliaia di km avrebbe voluto tanto esserci, per gli italiani nel mondo che non dimenticano la propria terra, come mio cugino che sta da dieci anni in America ma che quando vede alla tv delle immagini di Genova, di casa sua, si commuove sempre un po’. Ieri ero lì per loro, le celebrazioni in questi due giorni hanno riscosso molto successo in tutta Italia e questo è il dato più significativo: malgrado tutto, noi italiani ci siamo sempre.

Ieri, oggi e domani, sempre orgogliosi di essere italiani.