Corre l’anno 2015 e volevo dire altre due cose. Le ultime, forse.

Certo, se avessi evitato di addormentarmi con la foto della Matricola appoggiata sul petto magari la notte sarebbe stata più semplice, ma scorrevo i contatti di We Chat e mi è capitata sotto il pollice la sua immagine profilo (l’unica che mi concedo di vedere), ho zoomato e poi mi sono incantato lì una ventina di minuti, prima di girarmi e provare e dormire disperatamente. Ovviamente, senza fortuna.

 – Gallo, corri che all’Esaltato gli sta ripartendo la ciavatta, ha la favella calda stasera e a sto giro si fa censurare…corri Gallo! Corri!

Tutto questo in realtà è avvenuto come normale conseguenza di ore e ore di pensieri. Avrai ragione anche tu Gabriè quando dici che il 95% della popolazione pensa un decimo di quello che penso io e che ha una psicologia molto più facile del sottoscritto. In realtà, i pensieri sono stati il primo risvolto della mia salita sull’Aventino. Sì, perché è bene abbassare un attimo il volume. Conviene. Il contrario potrebbe essere solo controproducente. Quindi, marcia bassa, motore sotto giri e tiriamo avanti così. Il troppo fomento del dopo venerdì è quanto di peggio esista al mondo per me, per carità. Caliamo rapidamente, e facciamolo pure in fretta, prima che sia tardi o troppo complicato.

La realtà è che mi sono rimaste un altro paio di cose da dire, un paio, veramente. Ve lo prometto. È come quando pensi che devi vomitare e hai la sensazione che un attimo dopo starai meglio. Forse. A me capitò a fine novembre 2011. Mi sentii meglio, poi mi venne una febbre tossica che durò giorni. Me la presi un sabato sera ad Ariccia, dentro caldo, fuori troppo freddo. Gli acciacchi che sentivo mentre ripulivo il palco dell’Auditorium dopo l’evento con Brignano erano degli avvertimenti. La mattina dopo, appunto, vomitai e rimasi inchiodato al letto. Tutto questo per dire che alcuni giorni dopo il primo post, sento di dover andare avanti e finire di vuotare questo ideale sacco che mi pesa sulla groppa da troppo tempo.

La domanda che mi sono posto, alla fine, è stata una e molto semplice: “Ma quale è la cosa che ti fa campare così?”, cioè “Cosa è che ti manca in realtà?”. La risposta è alla parola numero undici della prima riga del corrente post. Sì perché dopo tutto questo vagare, in fondo, la questione si potrebbe rendere molto più facile senza girarci troppo intorno. Perché in sostanza di tutto questo che me ne faccio? Anzi, se togliamo tutto ciò, o lo sostituiamo con elementi X, generici, casuali, randomici e però aggiungiamo anche Y che è la parola numero 11 della prima riga, io credo che tutto sarebbe migliore. E io semplicemente più felice. Anzi, no, felice e basta.

La cosa che più mi intristisce di fatto è una sola: ho commesso l’errore di non essere felice in questi anni. Certo, se tutto fosse dipeso da me l’avremmo fatta molto più semplice ma evidentemente non lo è. Per niente. Probabilmente non si può nemmeno definire “errore”, mica l’ho scelto io, però forse, riesco a rendere l’idea. Almeno dentro di me è tutto molto chiaro. Sinceramente farei a meno volentieri di questo ruolo di cavaliere errante, indomito e innamorato, ma d’altra parte si sa, l’armatura non si toglie così facilmente e un cavaliere non lo spogli con cinque minuti. Al di là del parallelismo, vivendo questo status da anni ormai mi ci sono abituato. E se torno indietro, so con esattezza una cosa solo: negli ultimi anni ho avuto solo dei gradevoli momenti di sollievo, nemmeno troppo lunghi, ma sollievo come quando ti mettono la pezza bagnata in fronte e hai la febbre a 39. Quel tipo di sollievo, mica altro. Solo settembre 2013, esula da questi discorsi, ma è una parentesi troppo breve e fugace per portarsi dietro più del dovuto. In quei 30 giorni è come se fossi andato in vacanza, poi sono tornato a casa e mi sono reso conte che c’erano ancora i piatti da lavare, l’odore non era dei migliori e mi sarò anche stramaledetto.

E per quanto mi sia mosso, mi sia spostato e abbia provato comunque a dare un senso a questi anni, di fondo non sono soddisfatto, non lo sono, più che altro perché che cazzo di senso ha tutto questo se poi non si è contenti, se non ti senti a posto e centrato? Nessuno. Non è tempo perso, certo, sarebbe stato peggio restare a casa però è cosi, questa è la verità. A buttarmi anima e corpo su un lavoro, su una professione più difficile dell’astronauta tanto per far finta di sentirmi realizzato o per potere dire: “Almeno faccio quello che mi piace”. Sarà pure vero, però poi, stringendo, sei contento? Se me lo chiedono rispondo che sono molto impegnato. E quindi non dico sì, che poi, alla fine della fiera è l’unica cosa che conta e definisce e impreziosisce la tua vita, tutte le altre chiacchiere vanno bene davanti a un bianchino al bar. Senza dubbio, ci sono priorità, per ognuno di noi diverse, ma nemmeno tanto in realtà.

Sarà bello dire un giorno che sono stato qua, che ho vissuto là, che ho visitato questo, che parlavo in tv, scrivevo, stringevo mani e le vecchie si volevano fare la foto con me, sarà divertente magari dirlo, ma poi penserò a quei giorni, ossia a questi, e penserò al tormento che avevo, e probabilmente avrò ancora, quando parlerò di oggi usando il passato remoto. Sì perché questo è lo spettro con cui faccio i conti da tempo, da troppo tempo, questa gabbia dentro la quale mi aggiro facendo pure un po’ finta per fare contenti gli altri.

Ma se potessi riavvolgere il nastro e tornare indietro di diverse puntate, di una trentina di mesi circa, e potessi fissare il tempo, con quelle condizioni, scegliendo un lavoro normale, pure lo spazzino dell’Ama, sarei più contento di oggi? Vi stupirò, ma temo di sì. Forse mi sarei sentito fuori luogo o incompiuto, sì, ma magari no. Ribaltando la questione e guardandomi oggi, credo che sarei stato meglio in quella situazione. Pensa te.

Lo so che nessuna approva ciò che dico, ma io non parlo mica per far felici gli altri, o forse lo faccio sempre, o troppo spesso, è parte del mio mestiere, essere giusto, equilibrato, non infastidire, ecco, almeno qui fatemi dire quello che sento, e che mi preme. Poi non sarete d’accordo, lo so, avrete le vostre ragioni, io invece ho le mie. Succede.

Giorni fa, proprio mentre abbassavo il mio volume interno, azione che è scattata come un antifurto, come quando alzi troppo l’audio delle casse e queste si sganciano, dicevo appunto, che pensavo una cosa molto semplice. “Ma una del genere può dà retta a te? Ma dai su, essi bono, c’hai pure 28 anni ormai e un po’ de mondo l’hai visto. Non te prende in giro da solo, ne hai viste troppe per credere a ste cose”. Richiamandomi all’ordine e dandomi ragione con tanto di morale pacca sulla spalla per la pulizia e l’onestà del concetto, staccavo il jack dalla presa e mi rimettevo nel mio posto. Con le mie certezze, i miei dubbi, e la sicurezza, che sarà sempre così.

E mentre tu, amico mio lontano che giaci a Xiānggǎng, nel porto profumato d’Oriente, speri che nessuna venga a fare tana libera tutti e a risolvermi dei problemi sui quali sostieni che la mia faccia debba continuare a tumefarsi a forza di sbatterci contro, ti dico che forse è giusto, però Gabriè, una liberazione, una tana libera tutti sarebbe un dono inestimabile. Come la pace nel mondo, come un altro Triplete, mi potrei dare un po’ di pace, non sollievo, ma pace. Non voglio entrare nella sfera della meritocrazia e quindi non asserisco che me la meriterei, un po’ di pace intendo, no, sostengo solamente che mi sentirei sollevato. In sintonia, per un attimo, con tutto il mondo, una sensazione che risiede nella mia notte dei tempi delle memorie.

Probabilmente non ti ricordi, ma proprio tu, mentre ero a Dublino, pochi giorni prima di Pasqua 2013, parlandomi mi dicesti che avevo perso tutta la luce e che non l’avevo più ritrovata. Quella frase mi è rimasta impressa e me la porto dietro proprio perché è la più reale e calzante che mi è stata detta negli ultimi anni. La luce, una luce che è stata spenta e mi ha creato un buio intorno impossibile da rischiarire nemmeno con le torce in dotazione all’FBI.

Sono questi quei giorni in cui mi isolo, in cui ho bisogno di starmene per conto mio, con me stesso. Distaccato e sconnesso. Quelle parentesi in cui mi raccolgo e in realtà riordino le idee e penso a quello che devo dire, come due settimane fa mentre mi aggiravo per High Park, o camminavo lungo lago, intervallando i passi con i sospiri. Che immagine poetica. Sono quei frangenti in cui torno indietro e mi rimetto a leggere vecchi post e vecchie mail, in cui riallaccio certi nodi e mi dico anche “Guarda dove stavi…”

È come se avessi bisogno di ricordarmi di certi periodi neri, che in fondo sono alle spalle, anche se non completamente a quanto pare. Mi serve però, ho bisogno di ricordare per dirmi semplicemente, “Quel punto rimane il più basso e drammatico”, e in fondo sono sopravvissuto, male ma sono vivo, anzi, aspetta, diciamo che esisto, vivo mi sembra un parolone inappropriato. Ma comunque, in sintesi, ci sono stati passaggi più complicati di oggi, in cui un po’ di mancanze iniziano a pesare, sotto molti aspetti.

Ripensavo a quel pomeriggio di fine aprile, un mese dopo quella chiamata di Gabriele, a me che dopo aver incontrato Gianluca a Dublino, a un punto decido di andare da Ballsbridge al Dicey’s Garden, solo per vedere se c’era Gabriella e ricordo quella lunga camminata in cui si palesarono tutta una serie di incubi e fantasmi, di demoni, e quella sensazione interiore che riconosco immediatamente e non so mai spiegare. Ricordo quel passo svelto e poi, dentro il mio amato locale di Harcourt non trovai nessuno. Mi tracannai una Guinness imprecando e risalii sulla Luas dove ovviamente c’erano quegli incubi, fantasmi e demoni che mi avevano fatto compagnia un’oretta prima.

Che poi non conta quanto fai, ne quanto tenti, sarà sempre così, e andrà sempre così, e che le cose non cambiano, i colpi di scena non capitano, le sorprese nemmeno. E visto che lo so, considerando che ho avuto solo conferme in tal senso, non capisco perché io a volte, anche per una decina di secondi, pensi il contrario.

Certo, altri 40 anni così devono essere una croce. Enorme. Angosciante al sol pensiero ma è bene che mi ci abitui. Eppure in fondo, sono esattamente quello che sono, la malinconia del genovese di scoglio stampata sul volto e l’atteggiamento del romano disilluso e disincantato, quello che non ci crede perché sa di non poter essere sorpreso, sono la sintesi perfetta del mio sangue.

Ma se potessi tornare indietro, magari a 8-9 anni fa, mi direi: “Oh, sappi che certe cose non cambieranno mai, non te fa’ strane idee. Proveranno a raccontartela, ma non ci credere.” Se potessi fare un salto all’indietro me lo direi, togliendomi il brivido dell’illusione ma sarebbe troppo severo e ingiusto verso un baldo giovane neo-universitario pieno di aspettative e carico di curiosità.

Che poi qualcuno dirà che non è così, ma io penso il contrario esatto, stavo così tanto bene e ero così felice, perché devo pensare che fosse sbagliato, cioè, ma che c’ho guadagnato in tutto questo? Dai su, Ilà, ma non è vero che me so scansato da una fossa, ma magari ce finivo dentro a quella fossa. Ma magari. Ma sai quanti patimenti mi sarei risparmiato, almeno la metà. E sarei stato felice. Molto più di oggi e degli ultimi anni che sono stati una via crucis emotiva, un peregrinare, un continuo rimuginare senza arrivare a nulla. Ci vorrebbe un miracolo, l’apparizione della Madonna di Fatima forse, ma temo che se me la dovessi trovare davanti mi potrebbe dare pure una brutta notizia, come dicevo giorni fa a David quando gli anticipavo che la mia De Fonseca stile scozzese era pronta a partire nuovamente.

Mi faccio una pena e una tenerezza inverosimile quando cerco di convincermi che qualcosa succederà, che questa strada mi condurrà da qualche parte, che questa espiazione emozionale mi regalerà una ricompensa. Lo penso, non spesso, ma capita, e ogni volta, mi vorrei dare un abbraccio, una carezza in testa e dirmi: “Non ti illudere, perché ancora pensi sia fattibile? Arrenditi.” “Ma soprattutto, non dare retta agli altri. Non ti dicono cose vere. Gli fai pena, pure a loro, figurati se ti vengono a raccontare cose che potrebbero infastidirti, ti incoraggiano per un senso di primo soccorso, non per altro.”

E se l’altra volta ripensavo a me avvolto nel bavero di ritorno da Milano, stamattina mi è venuta in mente una immagine fondamentalmente simile o riconducibile. Io seduto sulla transenna del primo anello a San Siro che guardo nel vuoto e dopo alcuni minuti, mentre vedevo la gente sfollare intorno a me a testa bassa mi ripeto: “Non ci credo, non ce la facciamo nemmeno stavolta. È impossibile, manco stavolta…” In quei momenti mi guardavo intorno quasi aspettandomi qualcuno che venisse lì a dirmi parole di conforto o a svelarmi che non era successo nulla. Quando smisi di ripetere quelle frasi, un misto di delusione, amarezza, incredulità, resa e di profonda rabbia – sentimenti molto attuali per l’appunto – diedi un colpo sul ferro della ringhiera, una botta di una forza inaudita che a distanza di anni mi spinge a chiedermi ogni tanto ancora come sia potuta rimanere la mia mano attaccata al polso. Un mistero della genetica. Resta una delle cose più inspiegabili della mia esistenza.

Tornando al discorso, come già detto, mi dico ma di tutto questo che me ne faccio? Io non lo so, o forse sì, nulla. Semplicemente nulla. È un riempire il tempo, un fare “tanto per” non avendo nulla di meglio, in attesa di Godot, un girare a vuoto, un dover raccontare perennemente le stesse storie, rassicurare che va tutto bene e bene invece non va un cazzo da anni. Da anni, cazzo. E sarà così per sempre, in eterno. Una agonia, una cazzo di agonia. Interminabile.

Penso di aver sviscerato tutto, almeno per stasera. Ci risentiamo ma non penso prestissimo. Non credo di avere altre cose da dire, anche perché nulla sarebbe all’altezza di questo post che fa il paio con il fratello maggiore di due settimane fa.

P.S. Oh San Giovanni, Abruzzo, parti da prima a rileggerti il blog. Il meglio sta dietro. Da sto post lo avrai capito, comincia dall’inizio e lascia stare verso ottobre 2012, tutto quello che c’è dopo è mondezza. Merda. Lì sono finito, dammi retta.