“Raccontami domenica 31 maggio 1998”

Ho sempre sperato che qualcuno mi chiedesse di raccontargli il 31 maggio 1998 ma non è mai successo. Chi lo ha vissuto non ha bisogno che ci sia io a rammentarlo, ovvio, chi non sa cosa sia, non ha interesse a saperne di più, ma visto che il blog è mio e ci scrivo quello che voglio, la domanda l’ho fatta a me stesso e quindi devo rispondermi.

“Matteo, ma quella finale scudetto del ‘98?” Che storia, ma prima di arrivarci bisogna raccontare i 450 mila dettagli che intercorrono dall’estate del 1997 a quella domenica di maggio. La corsa agli armamenti inizia sotto l’ombrellone e mentre Seragnoli svuota il salvadanaio per accaparrarsi Fucka, Rivers e Wilkins, Cazzola rilancia e riporta sotto le due torri Danilovic, al quale affianca Rigadeau, Sconochini, Nesterovic e Frosini che ha appena fatto il salto del fosso e al derby d’andata sarà omaggiato dai tifosi avversari con un sacco di denari e chiamato Badoglio.

Le due superpotenze iniziano la stagione consapevoli che dovranno battere sempre l’altra per aggiudicarsi tutto quello che c’è in palio e la prima collisione arriva alla decima di campionato, vince la Virtus e Danilovic si riprende il palcoscenico immediatamente. A gennaio, in coppa Italia, vince la Teamsystem che poche ore dopo superando la Benetton TV metterà in bacheca il primo storico trofeo dell’aquila biancoblu. Danilovic a fine partita dirà semplicemente: “A me della coppa Italia non me ne può fregar di meno, li batteremo quando servirà”. Capiterà. Perché a marzo, a pochi giorni dalla prima storica stracittadina europea, la Fortitudo si porta a casa il derby di ritorno ma nessuno ci fa quasi caso, si pensa alla doppia sfida in settimana. Gara-1 dei quarti di Eurolega, si trasforma nel famoso (N)Euro-derby. L’adrenalina che accompagna le squadre è esagerata e alla prima scintilla divampa l’incendio. Savic e Fucka litigano sotto canestro, si allacciano ma non si mollano, l’italo-sloveno tira una pallonata al virtussino, Abbio reagisce e lo spintona: scoppia la rissa. Entrano tutti in campo mentre Danilovic e Myers si cercano in ogni modo pur di venire alle mani. Tentano di picchiarsi tre volte, il tappo è saltato, e il nervosismo mescolato alla pressione che opprime le due squadre da settimane esplode così. Vince la Virtus, la F scudata chiude con 3 uomini in campo per via delle espulsioni, ma le conseguenze più grandi ci saranno in Gara-2 che si gioca in casa della Teamsystem 48 ore dopo. C’è Danilovic ma manca Myers squalificato. Dante non avrebbe potuto immaginare una bolgia infernale più grande, e mentre il PalaMalaguti ribolle ed è assetato di sangue bianconero la partita scivola via finché la Virtus rimane attaccata alla sfida e piazza il colpo del k.o. nel momento decisivo. Finisce 2-0 la serie, la Kinder vola a Barcellona a giocarsi la sua prima storica Final Four, con i pochi tifosi bianconeri che dal settore ospiti cantano ai cugini: “Vi mandiamo una cartolina!” e di cartoline a Bologna, un mese dopo, ne arriveranno a centinaia.

La Virtus si porta a casa la Coppa Campioni e mentre Messina ricorderà: “Siamo stati i primi ad avercela fatta, non conta chi verrà dopo di noi” rilanciando la sfida all’avversario di sempre, ci si rituffa nel campionato che ha visto la Virtus chiudere davanti alla Fortitudo in regular season. Ovviamente quarti e semifinali sono una formalità, la finale annunciata arriva e si comincia in casa Virtus. Il fattore campo salta subito, vince la F scudata, Gara-2 farà infuriare Seragnoli per le decisioni arbitrali, Danilovic la decide con due liberi sul finale. La terza sfida la Teamsystem la gioca meglio, vince, e si porta a un passo dal tricolore. Titola così anche SuperBasket, “Ad un passo dalla storia”, perché giovedì 28 maggio 1998 sembra essere il giorno per il primo scudetto dell’aquila biancoblu. La partita è la fotocopia di Gara-2 di Eurolega, anche nel punteggio, e la Virtus la tiene in vita prima di vincerla con Abbio che punisce con una tripla un accoppiamento difensivo sbagliato voluto da coach Skansi. Si va così a Gara-5, domenica 31 maggio e si arriva alla partita più importante della storia di Bologna con una statistica che recita: 9 derby giocati in stagione e 619-619 come punteggio totale. Totale equilibrio. Prima della corrida finale, la leggenda narra che Messina non abbia detto nulla ai suoi nello spogliatoio a pochi minuti della palla a due, se non un “Giochiamo un partita da Virtus” che significa resistere con l’orgoglio e la tenacia a una Fortitudo superiore e più brillante a livello atletico.

La Teamsystem scappa via e la Virtus arranca, al terzo quarto guida con un +10 che sembra mettere al sicuro la partita. La V Nera rientra un passo alla volta e Messina sfodera ancora la zona che paralizza l’attacco biancoblu costruendo l’ennesima rimonta stagionale, con la Kinder Band che va anche contro regolamento pur di ricaricare la molla ad un pubblico esausto da un braccio di ferro infinito con i nemici di sempre. Punto dopo punto la Virtus torna sotto e nel finale succede di tutto, succede l’impossibile. A 18 secondi dallo scadere, sotto di 4, Danilovic entra per sempre nel mito, sa che è il suo momento, perché i grandi campioni sono tali anche grazie alla capacità di riconoscere quegli attimi. Decide di scolpire il suo nome nella leggenda e senza più legamenti alla caviglia, diventa immortale con il tiro da 4. Tripla più fallo, Zancanella dice che c’è stato il contatto. Sasha infila il libero, pari. Rivers perde il pallone al possesso successivo ma la Virtus non trova il canestro tricolore e si va ai supplementari ma lo scudetto è già stato assegnato sul tiro di Danilovic. La F si scioglie, il serbo domina letteralmente e regala lo scudetto 14 alla Virtus, mentre Myers in panchina, fuori per falli, assiste al dramma fortitudino. Finisce con Danilovic che fa l’inchino, l’invasione e la gioia del pericolo scampato ma soprattutto la certezza di aver vissuto qualcosa di irreale. Il numero 5 bianconero a fine partita dirà il famoso: “C’è chi può e chi non può, io può!” e piazza Maggiore si colora di nuovo di bianconero un mese dopo, per la prima storica doppietta della Virtus.

Ecco, questo è quello che è successo domenica 31 maggio 1998.

“Sì, ma secondo te, era più forte quella Virtus, quella della doppietta del 1998, o quella della tripletta del 2001?”

Mi rispondo magari il 19 giugno…

“Caro David” – Lettera dal futuro

Caro David, come stai?

È tanto tempo che volevo scriverti e finalmente sono riuscito a trovare l’ispirazione giusta e l’umore adatto per prendere carta e penna e raccontarti un po’ di cose.

Sono ormai 4 mesi che sono tornato qui a Toronto, tutto procede nel modo migliore, il programma è cominciato da poco, ma presto inizieremo uno speciale che andrà in onda ogni settimana e stiamo lavorando moltissimo in questi giorni per essere pronti.

Nel frattempo mi hanno raggiunto finalmente Maria Grazia e la piccola Elena. Cresce di giorno in giorno come puoi immaginare, ma avere qua entrambe è davvero tutta un’altra cosa. Finalmente siamo riusciti a ultimare questo altro trasloco, loro sono arrivate venti giorni fa e inevitabilmente ora si aprirà un’altra parentesi.

Fermata è contenta di essere qui, per quanto ovviamente la sua prima preoccupazione sia quella di accudire Elena, penso che fra un po’ di tempo, quando ci saremo veramente sistemati del tutto, anche lei troverà qualcosa. Onestamente abbiamo già delle idee e io ho qualche contatto ma è abbastanza prematuro parlarne ora.

Per il resto, ti dico che la casa nuova in cui stiamo è veramente bella. Grande, luminosa, dotata di ogni comfort e arredata in maniera semplice, adesso che Maria Grazia è qui avremo anche modo e tempo di sistemarla e renderla ancor più piacevole. Il distacco dall’Italia per loro non è stato indolore ma credo sia normale, tutti sappiamo che era comunque la soluzione migliore e poi, di certo, Elena crescerà parlando 3 lingue perfettamente: italiano, inglese e presumo il siciliano…

Tu cosa mi racconti? Che mi dici? L’hotel Malaga di Fiuggi immagino vada a gonfie vele! Sono curioso di avere qualche tua notizia, ma soprattutto voglio sapere come prosegue la gravidanza di Rossella. Quando dovrebbe partorire? Come sta il piccolo Gianfranco?

Giorni fa ripensavo ad Alfredo, e con massima sincerità ti confido che io la mossa di aprire sto ristorante vegano a Bombay con il suo amico, Alessandro, il Macaco, bè non è che l’abbia proprio capita. Però, ti dico anche che da lui sono giocate da fuoriclasse assoluto che ti devi aspettare e sappiamo che spesso ha fatto centro.

Vorrei dilungarmi, farti altre mille domande, però fremo dalla voglia di imbucare questa lettera e di ricevere quanto prima la tua risposta.

Caro Catto del mio cuore, ti abbraccio forte e ti mando un saluto grande da parte mia, di Fermata ed Elena.

A presto,

Matteo

Faccio un salto in America, anzi due

Certo, dopo l’ultimo post che altro vuoi scrivere? Niente. Anche perché rimango dell’idea di aver pubblicato qualcosa di fantastico e unico, per quanto molti possano pensarla diversamente e non condividere. Rimane indubbiamente il mio post migliore in sette anni. Sublime per tutto quello che sono riuscito a dire, liberatorio per il flusso dirompente che ad un punto ad iniziato ad avere.

Mentre pensavo a PF e Quattrodenari, perché l’ultima situazione ha qualcosa di analogo, soprattutto nel bad-timing della scelta, e del momento sfortunato con congiunzioni astrali non favorevoli, riflettevo sulle ultime due settimane, da mercoledì 13 maggio, che sono in fondo una summa della mia vita. Da protagonista assoluto e conoscitore discreto delle mie vicende, negli ultimi 12 giorni tutto mi è sembrato molto in linea con me stesso, calzante alle perfezione.

Disguidi, ritardi, beffe, fastidi, pensieri, ipotesi, speranze, sfortune, dettagli minimi che prendono una strada errata, tutte quelle cose che sommate creano un mosaico a me molto familiare. E mentre riflettevo su tutto questo e la constatazione è stata un amaro: “Non vinco veramente mai”, mi sono sentito meglio. Una ammissione che mi ha quasi tranquillizzato. Bene, bene così, ora procediamo. Perché il peggio, ovviamente, deve ancora venire. E ve lo scrivo stasera e ve lo confermerò fra un paio di settimane quando accadrà. Salvatevi sta frase.

 

Era una premessa dovuta prima di spendere qualche riga sul week-end a Rochester. Dieci anni dopo ho rimesso piede negli States, in una cittadina dello stato di New York, a tre ore di macchina da Toronto e ad un’ora e mezza dalle Cascate del Niagara. Due giorni sereni, di sole, di americanismo profondo. Dalle bandiere a stelle e strisce che si vedono ovunque, a dei classici paesaggi statunitensi, perché in fondo è così, l’America vera, è questa, non è New York, Boston o le goderecce Miami e Los Angeles. Sono queste case fatte di carta pesta, i canestri affianco al garage, il prato tagliato perfettamente, l’attesa della parata patriottica per il Memorial Day ed il barbecue sul retro da utilizzare il sabato sera con gli amici, esperienza che ho appunto vissuto.

Poi che altro? Sì, l’università di Rochester è magnifica, quei classici campus che vedi nei telefilm e ti esaltano al solo pensiero, mi sono ingozzato di hamburger ed hot-dog, avevo trovato moglie da Bill’s, un fast-food lungo lago e alla dogana non abbiamo ottenuto il visto che cercavamo. Strano. Un dettaglio, un piccolo codice modificato a febbraio ha fatto saltare tutto rendendo il viaggio inutile. Quella sensazione di beffa e rodimento, molto familiare che capitava puntualmente a qualche esame, oppure nella consegna dei documenti per la tesi. Per questo motivo, domani torno in America. Faccio un salto al volo e vediamo che succede. Così, per mettere un po’ di pepe ulteriore ad una settimana che onestamente non ne necessitava ma è tutto molto “da Matteo Ciofi” quello che sta succedendo. Tutto.

E sono veramente curioso di vedere fin dove si spingerà questo flusso, questa corrente, campo ormai solo per vedere con quale scientifica puntualità avverranno delle cose che io già so da prima, ma mi diverto così, a vivere solo per una ulteriore constatazione.

Ormai il livello è questo. Che bello.

 

Corre l’anno 2015 e volevo dire due cose. Solo un paio.

Eppure, deve essere successa una cosa del genere, una specie di consiglio d’amministrazione, di board meeting in cui sono state prese decisioni importanti, consegnate delle virtù e abilità ed io devo essere rimasto a casa. Non so perché, forse a vedere la partita. Magari ero andato nei giorni prima a prendermi un po’ di pazienza e di educazione, quelle cose che ti consigliano le nonne, pensavo potessero bastare, facevo affidamento a tutto ciò e non mi sono presentato al ritiro del pacco con dentro la leggerezza, il piacionismo (non si dice così, ma ci siamo capiti), e le intuizioni.

Allo stesso modo devo essere rimasto a letto anche quando hanno distribuito delle etichette, sarò arrivato tardi, stranamente, essendo un puntuale, e mi sono accontentato di quello che rimaneva. Rovistando nelle scatole, cercando le ultime rimaste, mi sono preso quella che recitava tipo “Piacere alle mamme, meno alle figlie.” Sarò stato ancora del tutto assonato, e non capendo bene il concetto me la sono messa in tasca, sicuramente, anche con la certezza di avere fatto un qualcosa di intelligente, o magari mi sarò detto: “Vabbé, meglio di niente, non si sa mai…”

Quello stesso pomeriggio devo aver saltato anche la sessione in cui di fondo veniva diviso il mondo in coppie, soprattutto qui in Canada, chissà, magari non pensavo che ci fosse una totale e netta sovrapposizione e credevo che pur non andando qualcosa in giro sarebbe rimasto. Invece no, mi sbagliavo. Quel giorno erano esattamente 3,5 miliardi di maschi e altrettante femmine che gremivano non so quale pianura sterminata in attesa dell’abbinamento. Ora che ci penso, quel pomeriggio penso di essere uscito con David. Non credo un aperitivo, penso un giro in centro. Forse a qualche mostra bizzarra, sì, una roba del genere, e nel frattempo ci sentivamo anche cool per essere lì a darci un tono, spalleggiandoci reciprocamente.

L’altro giorno, sabato per la precisione, ho percepito quella frustrazione di una sera di oltre dieci anni fa, quando su un treno che mi riportava indietro da Milano, avvolto nel bavero del mio colletto, a denti stretti, e sottovoce, mi continuavo a ripetere una frase, una specie di mantra che sintetizzato risuonava più o meno così: “Mi sono veramente rotto il cazzo di vedere gli altri festeggiare, tutti contenti e noi mai. Non ne posso più.” Anni dopo, mentre mi abbracciavo con Alfredo nel piazzale sotto la Nord, quando le 2.30 del 22 maggio erano già passate da un po’, mi tornò in mente quel flash. Una istantanea che in realtà stavolta non ha nulla a che vedere con gol, coppe e partite, no, ma con un qualcos’altro che ad intervalli regolari torna a frustrarmi, scatenandomi la stessa sensazione. Per questo, caro amico mio del Basso Lazio, ieri ti scrivevo così. Perché sento una strana identificazione fra situazioni, con il risultato, che quell’amaro in bocca, mi risuona piuttosto familiare. E forse, carissimo mio, il punto sta proprio lì, nel tempo che intercorre fra una e l’altra, fra un tentativo e quello successivo. Tempi troppo lunghi, dilatati esageratamente per pensare possano essere giusti. Come ti dicevo, se provi ad andare in bici e cadi una volta, è sbagliato risalire in sella l’anno dopo e pensare di andare bene. Ricadi. Sicuro. Ricadendo però, starai poi un anno a lamentarti e a curarti le escoriazioni, ma la non-pratica non ti verrà in soccorso per il tentativo successivo. Anche perché, fra uno e l’altro, appunto, quella non leggerezza, che mi sono dimenticato stupidamente di ritirare in uno di quei giorni là, viene meno, anzi, lascia spazio alla pesantezza, all’opposto. All’amica che vorremo evitare ma con la quale ci troviamo a spartire poi tanto tempo. Sì, è proprio così, ne sono certo. E però, tutto questo infinito circolo si tramuta in un cane che si morde la coda. Un circolo impossibile da spezzare, a quanto sembra. Perché sì, se prendo ‘sta bici, sempre sta cazzo di bici e cado, penso che non mi piace e che non faccia per me, lascio stare, quando mi riviene voglia, la riprendo, ma non la so portare e rivado lungo. A quel punto bisognerebbe riprenderla due ore al giorno per tutta la settimana, o per un mese e magari qualcosa verrebbe fuori di buono. Invece no, la pesantezza sale, le leggerezza affonda, la bici la si parcheggia in cantina di nuovo, a fianco al boccione dell’olio che ci ha portato Alfredo dalla Puglia e finisce lì. Il tempo Dà, quello. Però poi come fai? Cioè, ma se certe cose non ce le hai nelle tue corde, ma puoi veramente inventartele? Magari sì, io onestamente non ci credo tanto. Perché quel giorno, qualcosa avrò saltato colpevolmente ma un po’ di fiuto mi è rimasto e come mai che allora non mi sorprende mai nulla? Cioè, perché come scrivevo l’altra volta, succede sempre quello che penso e mai quello che mi piacerebbe succedesse? Mistero. Forse sarò troppo intelligente, o probabilmente sono troppo arguto per vicende che poi mi si ribaltano contro.

No perché, Ilaria mia, tu mi hai fatto molto ridere l’altro giorno quando ti ho scritto per primo e la tua risposta è stata: “Non osavo chiedere”. Mi hai strappato un sorriso, nella tua educata presenza, costante e vicina. Mi hai fatto ridere. Però a differenza tua, a certe frasi fatte, ci credo un po’ di meno. Sarà pur vero che contiamo solo al 50% perché le cose si fanno in due, sono meno dell’idea del Drastico che dice: “Basta una volta sola”. Sarà pur vero, ma è bello pensare che sia così ogni volta che cominci, ogni volta che ti ritrovi a fantasticare anche dieci secondi per la prima volta su un viso nuovo e un nome fino qualche tempo prima per nulla familiare. Resto dell’idea che poi, le esperienze, siano sempre una mano santa. T’aiutano. Ti fanno capire dettagli che altrimenti ti sarebbero rimasti coperti e non svelati. In realtà, più ne conosci e più capirai ciò che vuoi e che desideri. Più ti addentri e più avrai un’idea. Perché sai quante volte pensiamo a un qualcosa e poi non è effettivamente così? Tantissime. E se non capita, non va bene. Non si nasce imparati. Me lo dice sempre mia nonna. Questo per dire, che “basta una volta” non mi esalta come frase.

Che poi mi rendo perfettamente conto che spesso non riesco a far passare il messaggio che vorrei. Cioè, non so esattamente se mi riesco a spiegare nel modo giusto, ma forse esistono dei concetti e delle idee, mescolate a sensazioni, che solo noi stessi capiamo fino in fondo e di cui ne abbiamo una totale percezione. Presumo che al mio interlocutore, volendo anche un interlocutore fidato, sfugga sempre qualche virgola del sottoscritto. Temo di sì. E mentre io so benissimo che certi aspetti sono limiti, gli altri pensano siano problemucci, incastri mentali, robetta.

No, non è così. E lo so. E lo so ora come lo sapevo sei anni fa, nel frattempo, appunto, sono passati altri settantadue mesi. Essere all’estero avrà anche il vantaggio di reinventarsi come si vuole, hai ragione Gabriè, e quello spesso cambia tutto il contesto. Perché chi ti gira intorno avrà un’idea di te diversa rispetto a quella a cui tu sei abituato, diversa da quella che pensi abbiano ovviamente i tuoi compagni ben noti. Le nuove persone non ti conoscono, ma soprattutto non sanno il tuo passato e può essere un bene questo scenario, apre una nuova via. Perché in sintesi, se ci provi con quella, agli occhi degli altri passerai come “colui che c’ha provato con quella” che non è come “quello che al liceo non aveva la ragazza”. Sarà pur così, però credo che debba passare del tempo e debbano succedere delle cose prima che questo cambio avvenga del tutto, anche perché il contesto esterno, non solo lavorativo, è importante.

Perché mentre pensavo a me di ritorno da Milano che mi sfogavo chiuso nel mio bavero, domenica scorsa ricordavo la festa di Halloween del 1999 quando forse per la prima volta, la prima di una cazzo di lunga serie, capii certe crudeltà e il fatto di non essere il prescelto o comunque il secondo. Semplicemente non il primo. Sì perché in quella festa al Free Time, il nostro locale delle medie, uno scantinato, nemmeno malaccio, davanti scuola, nell’ottobre del 1999 chiesi a Veronica di ballare, mi disse di sì, aggiungendo che sarebbe successo al suo ritorno dal bagno. Non ci andò mai in realtà, io mi distrassi un attimo uscendo fuori dalla sala, quando mi guardai intorno, era lì che ballava con Scuteri. Uno che tornando dagli allenamenti giorni prima, aveva fatto una testa al padre in macchina perché essendo basso, un nano, voleva comprarsi le scarpe alte che a fine millennio scorso andavano forte. Si prese poi delle Zone, nere, non beige, ed effettivamente guadagnò quelle due tacche utili, probabilmente decisive visto il risultato e il suo ballo con Veronica. Io invece stavo là, che mi guardavo Vincenzo stupito. Con i miei pantaloni blu dell’Invicta e la t-shirt bianca e celeste dell’Adidas che mia nonna mi aveva accuratamente stirato e che non ho mai voluto buttare. Sono rimasto lì magari. A vivere quella delusione. L’idea di aver strappato un sì che poi si rivela un no. Anzi, un no, perché è meglio un altro. Rifiuto? Forse è un parolone, di certo è un vocabolo che nel mio dizionario, nemmeno tanto tascabile, è rimasto bello in vista senza il bisogno di un segnalibro per marcare la pagina.

Sì perché ieri facevo una folle statistica sulla metro e contavo quanti no ho collezionato. Il punto infatti non sei tu Monica, perché sei un volto e una persona, certo, ma potresti chiamarti Elena o Milena, potresti quindi venire da anni lontani e addirittura pre-maturità. Il fatto è che c’è un perenne filo rosso che si srotola e unisce situazioni e punti, che alla fine compongono un quadro da voltastomaco. Avrai ragione tu Gabrié, non lo metto in dubbio, dico che hai ragione te quando mi fai notare che la lista, se paragonata all’arco temporale, non va bene per il numero, scarso ed esiguo di persone in rapporto agli anni. È vero. Verissimo. Però, qui torniamo al punto prima. Alla leggerezza, all’incapacità di risalire in bici subito, al crogiolarsi lamentandosi di un destino beffardo e segnato da qualcuno. Al non avere un grande feeling con questo sport e poca dimestichezza con lo strumento.

Sì è così, perché a volte pensi anche: “Ok, ma a noi quando tocca?” La risposta sembrerebbe mai, e ti capisco Gallo quando dici che ti sei arreso. In fondo, anche io, o forse solo un po’. Io sono fregato dalla mia tigna come si dice a Roma, dall’essere un tignoso, da “Una tigna che me se porta via” uno che in fondo accetta, ma a tempo, e poi si ribella, esce dal guscio, prende un paio di legnate e poi rientra in tana. E così via, ciclicamente.

Perché certo, se quella domenica di ottobre, non ti fosse partita la brocca forse io non sarei qui, forse non sarei mai partito, e per partito in questo caso intendo fare i bagagli e girare qualche città e un paio di nazioni. Di certo non starei qui a scrivere sto post infinito. Magari mi sarei salvato le natiche, avrei chiuso una serie di problemi nello stanzino e avrei tirato avanti felice. Ancora oggi, quasi sempre, penso che sarebbe stato meglio, pensa te. Invece no, la vita è pure così, colpi di coda, e calci volanti, capita. Ci sta.

Perché oltre al rifiuto, sensazione che bene o male, in diversi campi, tutti abbiamo provato, quella di essere rinnegato capita meno e quella a me non è mai andata giù. Mai. E non mi interessa se ieri, te, che non sei quella a cui mi riferivo prima, mi scrivevi e dialogavamo piuttosto serenamente, no. Non mi interessa quello, per me conta il prima, visto che sono rancoroso, sì perché mentre rovistavo negli scatoloni ho trovato anche un paio di boccette di rancore e me le sono accaparrate senza batter ciglio. No dicevo, a me sta cosa di essere affossato idealmente, chiuso come un capitolo di cui vergognarsi, seppur in modo diverso e con ragioni differenti non l’ho mai digerito. E su questo aspetto vi sfido, nel senso che il rifiuto è più comune, l’essere rinnegati, molto meno. E non ve lo suggerisco. Me la porto ancora dietro sta sensazione e anche dall’altra parte del mondo mi accompagna. E non mi scivola, anche perché è raddoppiata, si è moltiplicata diversamente. E pesa quindi ancor di più.

No, perché oggi non parlo più nel bavero, o forse sì, me lo ripeto in testa, soprattutto ora, lontano e solo, e mi domando perché non gira una volta diversamente e mi viene in mente quando con David ironizzavamo sul fatto che: “A me piace una, a lei piaccio io, a posto. Finita lì, perfetto. Perché non capita mai una cosa che sembra così semplice e naturale?” Non lo so Dà, ci pensavo in questo ultimo cazzo di week-end e quando mi è venuta in mente ad High Park, ti ho scritto subito, ricordandotela.

Perché tu vali come loro, nel senso che la lista è quella, nome più, nome meno, cazzo cambia, cambia il fatto che gli obiettivi non sono mai giusti probabilmente, e questa è un’altra colpa, ma non è un caso, anzi, è tutto molto collegato ad altre inadeguatezze e lacune. Però sì, non che pensassi chissà cosa, che poi forse, a volte, a posteriori, ti dici pure: “Meglio così”, sarebbe bello dirlo dopo mezz’ora però, con la famosa leggerezza, ah sì, la leggerezza. Che poi di obiettivi sbagliati sono anche un maestro di primissimo livello. Non so se la prossima avrà la gamba di legno come pronosticato da Andrea, so che fallisco subito perché scelgo l’obiettivo errato. E ripeto, non sarà un caso. Ovvio. Sì perché a me piacciono quelle fidanzate, come sostiene Alfredo. Capita spesso, d’altra parte se una sta da sola, un motivo ci sarà pure, no? E poi, sono un esteta, mi piace il bello. Cazzo volete.

Perché poi mi ci incazzo ancora. E forse faccio bene, perché non sono un superficiale, perché ci tengo, sempre, a qualunque cosa. Non importa. È come la voglia di voler vincere, ce l’ho sempre. Non è essere competitivo, è voler proprio vincere. Migliorarsi. Non riesco a farmi scivolare addosso certe cose, o meglio, mi faccio scivolare gran parte delle cose, non alcune però, non quelle che mi toccano e mi entrano dentro, solleticando un nervo sempre troppo scoperto. Perché cara Donna Ilaria, come asserivi giorni fa, questo aspetto, soprattutto al primo impatto che ho di persona fredda, distaccata, quasi priva di emozioni, sai che non è così. Sai che sono uno che ci tiene. In generale, sempre. Uno che ci pensa, che analizza e riflette. Pure troppo.

E chissà, magari è proprio quello che mi ha fregato in questo labirinto nel quale brancolo da tempo, da anni. Ma diciamo anche da sempre, suvvia. Quella sensazione che segue il famoso primo principio di Murphy: “Se qualcosa potrà andare male, ci andrà”. E non è tirarsela, ste cose da quattro lire le lascio a voi. Che vuol dire tirarsela? No, è che la sensazione che le cose andranno nel verso sbagliato ce l’ho, ma nonostante tutto me la gioco, magari male, certo, ma non è che mi faccio condizionare. Non è l’ottimismo la chiave, vi prego, non mi dite sta cretinata. Non lo è e non lo sarà mai e nemmeno la convinzione nei propri mezzi. Anche perché se fosse così dove vado? Sì, se leggo la lista dell’altro giorno dei rifiuti dove posso ottenere la convinzione? Nowhere. Appunto. Quindi pare un baratro, un pozzo senza fine, che più scavi e più finisci giù e fai la fine del povero Alfredino. Rifletto ad esempio su come sia umanamente possibile che Fermata sia potuta stare con certa gente e io non sia mai entrato in quel circolo di papabili. Dopo anni, ancora me lo domando. E se qualcuno mi dice che ero “troppo”, sappiate che vi risponderò male. Perché a tal proposito allora direi: “Vabbé oh, sai che c’è, meglio essere come questi a sto punto.” No?

Bisognava averci i soldi o essere troppi belli, che ne so. O avere un po’ di culo che come sempre non guasta mai, ma io non ho un particolare rapporto con la dea bendata. Anzi, non ci facciamo nemmeno più gli auguri di Natale, quindi di che mi lamento…È proprio così quindi, complicato, anche un po’ ingiusto. Come quando pensi a certi ricordi, e torno da te, amico della Ciociaria, e magari per dieci secondi anneghi nel piacere di quelle memorie, poi ripensi a come si è evoluto il tutto e ti rammarichi o ti incazzi direttamente. Sarebbe bello ricordare qualcosa che poi si è trasformato in altro, di ancor più esaltante. È così, e hai ragione, te l’appoggio appieno e sai quante volte mi ingrippo su questo? Milioni di milioni Dà.

Perché poi sono tutte gioie effimere, belle in quel momento, ma oggi ti infastidiscono più che rincuorarti, esattamente per lo stesso motivo per cui a me sta loser medal ha rotto i coglioni. Così come vedere gli altri contenti che festeggiano, mentre uno mi dà una pacca sulla spalla e mi dice: “Vabbè dai, non ci pensare, sarà per un’altra volta.” Ma quale però? Fatemi capire. Segnatemelo sul calendario, così mi metto l’anima in pace e basta. Perché una boccata d’aria ci vorrebbe, aria nuova, fresca, dal sapore diverso, magari inatteso, sai che meraviglia? No. Non ci è permesso, evidentemente dall’ordine delle cose del mondo, dall’allineamento dei satelliti.

Avrai ragione tu Gabriè, sicuro, servirebbe un cambio epocale, un cambio di mentalità clamoroso, come l’arrivo di Berlusconi al Milan. Sì, sarà così. È solo che io mi spavento a volte quando penso le stesse cose che pensavo al liceo, nel senso le stesse frasi che mi ripetevo a quei tempi, un po’ di resa, un po’ di presa di coscienza. Perché tu, Elena mia, dimmi come si fa a preferire quel pupazzo tuo coetaneo di 16 anni, quando un maturando come il sottoscritto, più grande di due e quindi, “con il fascino di quello del quinto”, s’approccia a te in quel garage di Tivoli, nel giugno del 2006 durante una festa di cui nemmeno mi ricordo il protagonista. Dimmelo. Che poi a me quei pantaloni bianchi che portavi mi sono rimasti impressi, non per il colore ma per un’altra cosa. Non so che dire, in realtà ho detto pure troppo. Però le risposte non è mica che escono da qui.

Mandami un messaggio, dove ti pare, e dimmi che ci hai ripensato e che si può fare. Così per un po’ mi scrollo dalla pelle ste cose, almeno per un po’, come quando stacchi e vai in vacanza e ti sembra di vivere un’altra dimensione. What else? Certo, potrei fare di più io, ma a volte mancano proprio le condizioni. A me di uscire tutte le sere e di stare nei locali fino a tardi non mi va dai, non c’ho nemmeno tutti sti soldi per fare sta bella vita. Poi se la trovi lì, significa che ogni venerdì e sabato bisogna fare sta vita, non si può dai. Sono pigro per queste cose, lo sapete. Mi toccherebbe tornare all’università, li c’era un tale movimento e una tale rete di possibilità e incontri, anche banali e casuali, che qualcosa si poteva rimediare. È solo che quei tempi, meravigliosi certo, sono andati. E allora? Boh Catto, non lo so. Posso finire il post così, con un “non lo so”? Sarebbe bello. Ma non lo faccio. È che bisogna soffrire, come sempre, fino all’ultimo con la speranza che ci sia una ricompensa, ma io stento a crederci, ste cose non mi capitano, non mi hanno mai riguardato.

Che poi, altro che non fissarti…guarda come è venuto tutto fuori sta settimana, il tappo è saltato e…bum! Avrei tanto altro forse da dire, di certo comincerei ad aggrovigliarmi su me stesso e a ripetermi, come oltretutto già ho fatto. Però è così. E in questo caso specifico, c’è qualcosa in quel messaggio che mi sfugge, ve l’ho detto. Non mi è chiaro e quando non vedo chiaro mi infastidisco ulteriormente. Anche perché ci sono un paio di dettagli che ci sfuggono, la cosa del lavoro per me era vera, ma fino a un punto. Però mi dico pure: ma per essere onesta, come pare sia stata, poteva esserlo fino in fondo no? Boh. Non lo so Dà, magari si sta vedendo con uno, con un altro, che te devo dì…mi sa di sì, magari sbaglio. Mah.

Malgrado tutto, vorrei che uno da dietro mi dicesse: “Cosa vuoi che sia, passa tutto quanto, solo un po’ di tempo e ci riderai su”, e sì, ma quando accadrà saremo pronti ad un’altra sveglia, e nel frattempo avremo visto, avrò visto, qualcun altro festeggiare e io mi sarò ripetuto altre tremila volte, che di queste cose, di questi momenti, non ne posso più.

Come quella sera sul treno di ritorno da Milano.