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E meno male che avevo detto: “Adesso sorprendo tutti e me ne vado a letto presto”. Poi ho letto una cosa e mi è venuto in mente di scriverne un’altra. E così, addio sonno.

Sì, perché su un fatto sono d’accordo con me stesso, ossia stare qui mi aiuta. Cioè, non è tanto un discorso di essere impegnati, a Roma lo ero molto di più, è proprio il fatto di essere così lontano, di vivere generalmente un profondo senso di distacco, di sconnessione da tutto e tutti.

La lontananza appunto. Poi però capitano giornate come oggi che mi guardo intorno, mi fermo un attimo e mentre premo la barra per iniziare un altro paragrafo di un articolo mi domando: “Chissà che stara facendo, chissà dove cazzo starà. Mah”. E lo faccio poco dopo che “La mia compagna di banco” si è appena spostata delicatamente i capelli mostrando uno dettaglio di collo. Che poesia.

Non penso che mi verrà da vomitare mai fra Church Street e Queen Street come invece stava succedendo ad agosto all’angolo di Via Monza, però a volte mi blocco proprio e mi perdo nel bel mezzo di un articolo sull’Uganda.

Stare qui mi protegge. Un bene inestimabile, un aspetto positivo in una giungla di complicazioni e privazioni e a volte penso che sia meglio così. A Roma tutto questo non succede e sto meno bene. Chissà, arriverà anche un giorno in cui mi risintonizzerò sulle frequenze buone con la mia città, alcuni dei suoi angoli, alcuni dei miei posti, con un esercito di ricordi. Non lo so, forse sì, magari no.

Fra una settimana però sarà tutta una nuova storia. Probabilmente l’ultimo capitolo di un libro chiamato 2015 impossibile da poter aggettivare ma che spesso mi trascina ancora in altri mondi.

Sarà stata colpa di Forever Young partita a tradimento ieri dal computer.

Non mi piace mai, ma per certe cose preferisco dare colpe a casaccio. Meglio, conviene.