Little Britain

“Nobody knows the way it is gonna be” cantavano gli Oasis in Stand by me nel 1997, singolo del loro terzo album che dava seguito ai precedenti due capolavori, due emblemi della Cool Britannia di metà Anni 90. Il 1997 appunto, l’anno della fine del dominio quasi ventennale Tory con il conseguente insediamento di Tony Blair alla guida del paese.

Era una Gran Bretagna pop, giovane e ruggente, che aveva appena ospitato gli Europei del 1996, una realtà che tornava a guidare le fantasie dei giovani, una replica contemporanea di quella degli Anni 60, quella del “You have never had it so good” del primo ministro Harold MacMillan, frase pronunciata nel luglio del 1957 mentre l’antica Albione cavalcava il primo boom post seconda guerra mondiale.

Ci sono molte analogie fra quelle due epoche, due squarci Brit a distanza di 30 anni, due istantanee che parlano di una Gran Bretagna che nel frattempo è cambiata, evoluta, che si è mescolata nel nuovo millennio, ma che da alcune ore però è fuori dall’Unione Europea.

L’esito del referendum sorprende ma ci racconta tante cose. Ad esempio tutte le previsioni di voto sono state rispettate: Londra e la sua area circostante hanno votato per rimanere, le due roccaforti laburiste come Manchester e Liverpool hanno scelto remain, così come la Scozia che compatta in modo quasi surreale ha chiesto di non uscire. Tutto ruotava intorno alle campagne, alla gente che vive lì, lontana dai grandi centri, a quanto questa fetta di popolo avrebbe votato compatta il leave. Loro hanno spostato la bilancia dando un colpo decisivo all’esito finale.

Molti sostengono che anziani, gente con problemi di lavoro, nazionalisti e persone senza nulla da perdere abbiano composto il fronte del leave e in ciascuna di queste categorie si ritrova facilmente il motivo del voler abbandonare l’unione. Chi ricorda la GBR prima del 1973 e dell’ingresso nella CEE, chi spinto da un sentimento distorto di patriottismo, chi sostiene che il Regno Unito fuori possa portare dei benefici ai britannici stessi. Posizioni rispettabili ma indubbiamente miopi. E sì, perché ora l’attenzione si sposta su quello che sarà, sull’impatto che questo uragano avrà per l’Inghilterra ed il resto d’Europa.

I britannici non si sono mai sentiti europei, hanno sempre avuto un sentimento contorto verso il continente, da isolani, da gente di mare e scollegata dal resto del mondo. Pirati di natura, commercianti nati, isolati e fieri, dentro l’Europa ma sempre con distacco, sì all’Unione, ma no all’Euro. Compromessi e status speciali, ma soprattutto un equilibrio che non è mai stato veramente solido, supportato da quel sentimento un po’ troppo comune di sentirsi, in fondo, diversi.

Ha vinto la democrazia, questo rimane un dato di fatto. Ha vinto la possibilità di scegliere, di votare. Senza delegare parlamentari o altre persone, ma assumendosi delle responsabilità, senza poter poi rivoltare su qualcun altro le conseguenze, se non magari sul vicino di casa che aveva votato diversamente. Dovrà cambiare qualcosa ora, ma nessuno sa bene cosa e in che termini. Chi si sforza a fornire analisi non può andare troppo in là e chi lo fa a mio avviso non è credibile perché, appunto, “Nobody knows the way it is gonna be”.

La GBR ha scelto, e per quanto sia giusto che siano fuori per un discorso naturale e di sentimenti, la scelta costerà cara, ma intanto nessuna delle 3 squadre ha lasciato l’Europeo ed almeno una raggiungerà sicuramente i quarti.

Ironie della sorte, scherzi e coincidenze in questa estate appena cominciata e con una Union Jack piuttosto scolorita a fare da sfondo.

Una bella storia

Se il gol di uno che di nome fa Eden ti manda in paradiso e ti permette di vincere il tuo primo storico titolo è evidente che doveva andare così, che il copione perfetto è stato rispettato e che il sogno può diventare definitivamente realtà.

Abbiamo assistito a qualcosa di veramente incredibile l’altro ieri, anche se in verità sono mesi, dallo scorso agosto, che domenica dopo domenica, una partita dopo l’altra, vediamo una squadra di semi sconosciuti mandare tutti al tappeto e conquistare lentamente una Premier strameritata.

È stato il successo del gruppo, mai come in questa caso. Nessuna stella, tanti buoni giocatori che hanno vissuto una stagione di grazia e la capacità di un bravo allenatore, un gentiluomo navigato che da vagabondo delle panchine sa ancora insegnare qualcosa e ancor di più sa stare su un campo di calcio.

Ha vinto il Leicester e ha trionfato Ranieri, ma soprattutto la sua ex squadra, il Chelsea, quelli che lo avevamo mandato via perché volevano vincere, come disse Mourinho nell’estate del 2004, gli ha regalato la più grande soddisfazione della sua carriera. Stranezze del pallone e ironie del destino.

Vincere un campionato è sempre difficile, farlo nella lega più competitiva lo è ancora di più, e anche per questo motivo la storia del Leicester assume dei contorni davvero clamorosi.

Lo scorso anno ad inizio aprile la squadra navigava nei bassi fondi della classifica, a sette punti dalla salvezza, dodici mesi dopo, era in testa con sette punti di vantaggio sulla seconda, gli stessi che lunedì gli sono bastati per festeggiare addirittura con due turni d’anticipo. Meraviglie che solo uno sport come il calcio sa regalare.

Molte persone hanno provato a forzare paragoni come spesso capita, dal canto mio penso che questa magnifica avventura non abbia eguali. Non è il Verona del 1985, ne tanto meno la Sampdoria del 1991 che nel frattempo si era già affacciata in Europa con due finali di Coppa Coppe di fila nel biennio precedente. Il Leicester non è nemmeno la Danimarca del 1992: un conto è imbroccare 5 partite consecutive, un altro è viaggiare con una tale costanza per otto mesi affrontando 36 gare.

La storia dei Leicester di conseguenza è bella perché assoluta ed unica, anche se bisogna uscire dall’equivoco di Cenerentola disperata e povera. Non è così poiché il presidente del club è il signor Vichai Srivaddhanaprabhasecondo Forbes il nono uomo più ricco di Thailandia e a capo del gruppo King Power, azienda leader a livello internazionale nella gestione di negozi duty free aeroportuali e sponsor principale ovviamente dei neo campioni d’Inghilterra.

Questo significa che il Leicester ha dietro un personaggio di un certo livello economico e non necessariamente il giocattolo verrà smontato subito. Qualcuno partirà, ovvio, ma considerando la base finanziaria alle spalle, gli introiti della Champions che giocheranno oltretutto da teste di serie e quindi con un girone non proibitivo, oltre ai soldi degli sponsor dopo questo miracolo, c’è da stare sicuri che questa macchina perfetta non si dissolverà in poche ore.

Per una impresa del genere ci sono volute tante situazioni e diverse coincidenze, la stagione perfetta dei Foxes ma anche il simultaneo fallimento delle grandi squadre.

Il Chelsea si è autoeliminato per colpa del suo spirito sedotto e dilaniato da Mourinho, lo United ha fallito un’altra stagione come nessuno poteva immaginare, il City per la prima volta si stava giocando la Champions seriamente, mentre l’Arsenal, come al solito, si è afflosciata su se stessa. Non a caso, l’antagonista dei Leicester è stato il Tottenham, tutto tranne che un club abituato a successi e trionfi, soprattutto recentemente.

Il disastro contemporaneo che ha inghiottito tutti i principali avversari ha spianato la strada a Ranieri che ha saputo correre come non mai, non lasciando niente agli altri e non dando mai l’impressione del braccino, in un finale in cui quel rischio era più che normale e comprensibile.

Ha vinto chi ha meritato, probabilmente non i più bravi ma chi ci ha creduto maggiormente e desiderato un successo che ha indirizzato questa squadra verso la leggenda.

Una bella storia di calcio, una di quelle favole che fanno bene e non solo al mondo dello sport.

Meglio tardi che mai

Ci sono voluti oltre 9800 giorni, più di 27 anni, praticamente il tempo per un bambino di diventare uomo e per un adulto di andare quasi in pensione, eppure, dopo tutto questo tempo giustizia è stata fatta, o quanto meno il campo, finalmente, è stato sgombrato da ipotesi e falsità.

Il 15 aprile del 1989, allo stadio Hillsborough di Sheffield, la carneficina che si consumò non fu causata dai tifosi stessi ma da diversi errori della polizia nel gestire l’afflusso delle persone alla Leppings Lane, la curva designata ai supporters dei Reds.

Liverpool da martedì scorso è una città che si è tolta un peso, l’Inghilterra tutta un paese un po’ più giusto. Certo, gridare alla giustizia e celebrare è sempre fuori luogo perché nessuno potrà riportare indietro 96 persone ad altrettante famiglie. Niente e nessun verdetto potrà cambiare la storia, però, è indubbio che questa sentenza rimette le cose su un piano diverso. Anni di battaglie sono stati ripagate, quasi tre decenni in cui decine di famiglie hanno cercato in tutti i modi di raccontare quello che era effettivamente successo e ora, dopo la riapertura delle indagini nel 2012 voluta anche dal primo ministro Cameron, la verità è venuta a galla. Ovviamente, rimane ancora oggi inspiegabile come ci siano voluti tutti questi anni e come sia stato possibile e fattibile insabbiare la tragedia soprattutto nel primissimo dopo Hillsborough, resta il fatto che il fango gettato su Liverpool e sulla sua gente non si dimentica, ma da adesso nessuno può più dire qualcosa in quella direzione.

È stato un bel martedì quello scorso, una giornata che mi ha riportato indietro nel tempo, ai miei mesi finali di università, ad un pomeriggio di metà agosto del 2011 in cui mentre giocavo a basket da solo su un campo della parrocchia, mi ripetevo che sarebbe stata una grande tesi. Quel giorno infatti avevo iniziato a leggere “The Truth”, il libro di Phil Scraton, personaggio cardine nella ricostruzione di quello che avvenne a Sheffield.

Entrando sempre di più in quella vicenda che conoscevo bene, ma non così precisamente come al termine del mio lavoro, mi rendevo conto del dramma e delle angherie subite da queste famiglie, dello spaventoso e inspiegabile corso della giustizia.

Ancora oggi rimane la cosa di cui sono più fiero, nel senso del lavoro che mi ha dato più piacere e gusto nella mia vita, una tesi che è stata la mia in tutto e per tutto, dalla prima all’ultima pagina, per la passione messa e l’impegno profuso.

È indubbio che per me questa storia abbia un valore diverso, speciale. È il mio primo viaggio in solitaria nel 2008 a Liverpool, momento in cui entrai in contatto con questa storia, è la parte finale della mia magistrale, un contenitore di tanti bei momenti, indubbiamente gli attimi in cui sono stato più felice come persona in senso globale.

Ogni anno di conseguenza, il 15 aprile, giorno di quel disastro, tanti pensieri corrono ad Anfield e a tutto quello che ha rappresentato per me questa storia. Ricordo l’emozione nel maggio del 2013 quando da Dublino tornai a Liverpool per mettere sotto l’Hillsborough Memorial la mia tesi. Un gesto che chiuse un cerchio, una finale degno e meritato per quelle pagine scritte.

È stata toccante la scena delle famiglie abbracciate fuori dall’aula di giustizia a intonare “You will never walk alone”, assurdo in qualche modo, assurdo perché quella squadra in fondo, è stato il pretesto per la morte di alcuni dei loro cari. Ma forse, quel coro, che non è un inno qualunque, è stato anche il modo per sentirsi vicini come non mai a chi non c’è più, a chi quell’inno non ha più potuto cantarlo da 27 anni a questa parte.

Questo perché il Liverpool è una roba veramente diversa, e la sua gente è semplicemente encomiabile.

Essere “La Storia”

Ho sempre avuto una seria difficoltà nel capire chi non apprezza la storia o la reputa qualcosa di noioso e pesante, non comprendo come non ci si renda conta quanto la sua importanza sia spaventosamente essenziale al giorno d’oggi, ma soprattutto come sia fondamentale per capire le dinamiche del mondo e di fatto l’essenza dei popoli. Ognuno è figlio della propria storia, personale e nazionale, e tutti siamo il prodotto di ciò che c’è stato prima, ecco, questo a mio avviso è sufficiente per decretare la grandezza della Storia, quella con la S maiuscola.

Se poi mi chiedete chi è stato il mio personaggio storico preferito di sempre vi risponderò senza pensarci un attimo, l’ho detto in passato, in occasione del grande esame di storia contemporanea a cavallo del 2009 e lo ripeto oggi: Sir Winston Leonard Spencer Churchill.

E mentre ricorre il cinquantenario della sua morte, diventa impossibile non spendere qualche riga per uno dei personaggi più importanti e determinanti del 900, per uno dei padri della libertà nel senso più esteso del concetto ed indiscutibilmente uno dei vincitori della seconda guerra mondiale, l’unico in Europa.

Fu proprio quell’esame, quello cardine del nostro terzo anno a regalarmi un profilo migliore e più dettagliato di questo uomo, uno di quelli per cui mi sono sempre domandato: “Ma quando era bambino, se lo sarebbe mai immaginato che avrebbe cambiato la storia del mondo?”. Nella vita è stato ogni cosa: giornalista, pittore, politico, militare, vincitore del premio Nobel, ma prima di tutto un avventuriero. Uno che “catturato dai boeri, fuggì dal campo di prigionia e, dopo una marcia di 480 chilometri, arrivò nell’attuale Mozambico, allora colonia portoghese. Invece di ritornare in patria, dove sarebbe stato accolto da eroe, volle tornare in prima linea e fu tra i primi a entrare a Pretoria, appena conquistata dopo un lungo assedio”.

Ammiraglio, dentro e fuori dal Parlamento di continuo, sempre al limite e con il rischio di vedere la sua carriera di politico ridotta in polvere tante volte, condizionato da difetti di pronuncia ma oratore e comunicatore come pochi altri al mondo. Un carisma smisurato, un fine conoscitore del proprio popolo e l’unico in grado di sapere toccare le corde giuste del Paese nel momento più drammatico. Testardo e ossessionato dalla pulizia, personaggio di smisurata cultura ma con un senso della battuta e dell’ironia profondo, è stato il baluardo ultimo che ha resistito al nazismo, nel momento in cui il continente stava per soccombere alla Germania.

Arguto e abile stratega, leader incontrastato, Maurice Ashley ha detto di lui che era uno di quelli che preferiva fare la storia piuttosto che scriverla. Fu spodestato dal popolo che aveva condotto alla libertà e alla vittoria alle elezioni del 1945 e quando la moglie gli disse l’esito delle votazioni, mentre si faceva la barba, glissò dicendo che: “Abbiamo combattuto anche per questo, per questa libertà”. Ognuno ha le sue preferenze, ognuno si identifica in qualche personaggio storico in base ai propri gusti, io scelgo Winston Churchill, e lo sceglierei anche solo perché quando leggo questo passaggio, ogni maledetta volta, mi emoziono talmente tanto che mi commuovo per un milione di ragioni…

 

Anche se ampi territori d’Europa e molti antichi e famosi stati sono caduti o stanno per cadere nelle grinfie della Gestapo e sotto le odiose norme dell’apparato nazista, noi non demorderemo né verremo meno. Noi procederemo fino alla fine. Noi combatteremo in Francia, noi combatteremo sui mari e sugli oceani, noi combatteremo con crescente fiducia e crescente forza nell’aria. Noi difenderemo la nostra Isola, a qualunque costo. Noi combatteremo sulle spiagge, noi combatteremo nei luoghi di sbarco, noi combatteremo sui campi e sulle strade, noi combatteremo sulle colline; noi non ci arrenderemo mai; e anche se, cosa che io al momento non credo, quest’Isola o una gran parte di essa venisse sottomessa ed affamata, allora il nostro Impero d’oltremare, armato e difeso dalla Flotta Britannica, continuerà la battaglia finché, quando Dio vorrà, il Nuovo Mondo, con tutta la sua potenza e la sua forza, verrà a soccorrere ed a liberare il Vecchio.

 

(dal Discorso tenuto il 4 giugno 1940 al Parlamento britannico, dopo il rimpatrio della BEF dal porto e dalle spiagge di Dunkerque)

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