150 vs 2770

“Da un lato ho capito na vorta de ppiù che noi romani, c’abbiamo sempre Roma in bocca, e spesso parliamo senza manco conosce. Non si possono confrontare le altre città con Roma, perché Roma è unica. E se prima lo pensi solo per arroganza, è quando vai via da Roma che te ne rendi davvero conto. E chi è nato a Roma, è condannato a ritrovarla ovunque e a rimpiangerla una volta lasciata. Roma ha resistito ai secoli, ai millenni, è caduta, si è rialzata, ha resistito alle guerre, ai barbari, alle invasioni, ai governi, ai sindaci, ar popolo. E resisterà ancora. E resisterà a me, resisterà alle buche per strada, ai frustrati esterofili, ai turisti che le preferiscono Parigi o Londra”.

Svevo – Ritals

Giorni fa, mentre in un production meeting venivamo nuovamente invitati a pensare a dei contenuti per alcuni video sui 150 anni del Canada, che vengono celebrati durante tutto questo 2017, ho ripensato a questo breve monologo di Svevo Moltrasio.

Avevo visto la puntata di Ritals giorni prima, e riguardata il 21 aprile per il compleanno di Roma, quando l’Urbe celebrava i suoi 2770 anni.

Mentre il meeting scivolava via fra le classiche chiacchiere sterili, ragionavo su questa differenza, 150 vs 2770, un divario numerico enorme, ma anche una semplice chiave per capire perché di fondo, io qui, non mi sono mai trovato bene.

Due mondi troppo diversi, due culture distanti anni luce, due realtà inconciliabili. “I do not fit here” pensavo, e a un punto volevo dirlo o citare questa differenza di storia e celebrazioni, ma sapevo che ovviamente non sarei stato capito, come tante altre volte.

Eppure, ripensando alle parole di Svevo, mi sono messo l’anima in pace, ho trovato in qualche modo conforto. Non che il monologo rispondesse a qualche mio quesito esistenziale, ma perché spiegava quel senso tutto romano che abbiamo noi quando espatriamo.

Questi anni fuori da casa, lontano dalla mia città, me l’hanno fatto apprezzare e rivalutare ogni giorno di più. Gli anni di Toronto mi hanno permesso di capire dove voglio vivere e dove invece non potrei farcela in nessun modo.

Ho capito perché ragiono in un modo, o perché arrivo puntualmente a fine aprile, quando l’inverno qui ancora non se ne è andato, e non ce la faccio più.

Mi sono reso conto che noi siamo avanti, e che non ho trovato nessuna cosa in cui il Canada spicca sull’Italia, senza citare nello specifico Roma o Toronto. Ho preso coscienza di innumerevoli aspetti ed è un regalo che questa città mi ha fatto, un dono dal valore preziosissimo.

Nonostante tutto però, non è il mio posto, non è la mia casa. Non è il posto in cui potrei essere felice, chissà, magari non sarà nemmeno l’Italia alla fine, ma qualche chances in più al Belpaese voglio dargliela.

Ha ragione Svevo, quando dice che noi, la nostra città, ce l’abbiamo sempre in bocca. Allo stesso tempo però penso sia impossibile il contrario, perché appartenere a questo posto mi ha reso una persona più ricca anche solo per puro riflesso. Per semplice provenienza.

E c’è poco da fare alla fine, perché mi sono presentato a centinaia di persone in questi anni, anche mentre ero in compagnia di altra gente proveniente dai posti più disparati del mondo, ebbene, quando dici Roma, che vieni da Roma, la faccia del tuo interlocutore ha una espressione che non si palesa per nessun altro posto del mondo.

E questo, qualcosa, vorrà pur dire.

La mia estate – “Allora, ho visto i treni per Burlington…”

Ad inizio 2016, parlando con la Bionda, le dissi che questo anno sarebbe dovuto essere, almeno così lo prevedevo, per forza di cose, assestante. Recentemente ho dovuto correggere il tiro e l’ho definito didascalico. Questa estate è stata infatti ricca di insegnamenti, importanti o banali, ma tante piccole cose mi hanno evidenziato in molte circostanze la realtà dei fatti. Un esempio è la “Ragazza di Richemont”.

C’è poco da fare, uno ci può mettere tutta la volontà del mondo, ma se le cose non devono andare non vanno. A volte infatti, penso che impegnarsi sia importante ma quando il tutto non dipende da noi, bisogna anche lasciar stare la situazione, sedersi un attimo e vedere il flow. Tutto qui, perché poi si sviluppano dinamiche su cui non abbiamo semplicemente voce in capitolo.

Prima di arrivare però a questa beffa, una delle tante targate estate 2016, il 10 giugno inizia l’Europeo che suscita in me qualcosa di nuovo e mai vissuto, ossia lo smisurato ed estremo senso di appartenenza, di vibrante patriottismo che si prova quando c’è la Nazionale ma si vive fuori.

Mi piacciono le cause perse, gli under-dog, le sfide in salita, per questo l’Italia di Conte mi attira e in breve tempo mi trascina, anzi, sono uno dei pochissimi che crede in questo gruppo.

Mi invento qualunque cosa per vedere la partite degli Azzurri che capitano sempre in mezzo alla settimana e per via del fuso in orari lavorativi. Passiamo agevolmente il girone e nel frattempo la colonna scelta da Sky, “Happy” di Luca Carboni diviene la mia sigla mattutina, la prima canzone che parte dal mio I-pod mentre cammino verso l’ufficio.

Nel frattempo l’appuntamento del venerdì al Crocodile inizia a raddoppiare. Infatti se il venerdì si può bere liberamente fino alle 22, il mercoledì non c’è questo limite ed il prezzo di 2,50 dollari vale fino alle 2. Il caldo, il patio, ma soprattutto il gruppo di persone che raggiungono me e il mio compare diventa intanto sempre più grande. Il livello di aggregazione raggiunge vette notevoli, viene creato un gruppo su Facebook che in breve tempo conta 28 persone, tutte quelle che puntualmente si radunano intorno i tavoli del Crocodile. Occupiamo larghi spazi generando una discreta caciara ed è decisamente bello e divertente.

Parte di questo gruppo è francese, molti sono amici diretti del “Ragazzo di Versailles” ed in alcuni momenti mi sento uno dei protagonisti di Ritals, una simpatica web serie sugli italiani a Parigi. La frequentazione diventa assidua e noi non saltiamo un appuntamento, ma a proposito di Francia, contatto la “Ragazza di Richemont” che non vive a Toronto, ma a Burlington e lavora a Hamilton. Un po’ come se io vivessi a Roma, lei a Fiuggi ma ogni giorno deve raggiungere Frosinone per andare in ufficio. Il problema non è certamente quello delle distanze, i due weekend successivi alla nostra conoscenza lei è impegnata: con un farewell party prima e poi con un music festival per il quale aveva preso i biglietti da tempo.

Il tempo passa e conoscendo come vanno storicamente per me queste cose, si insinua nella mia mente uno strano senso di beffa. Vecchi retaggi mentali tornano a galla seppur con meno vigore, quando decidiamo di vederci fissiamo l’incontro per sabato 18 giugno. Io decido di andare a Burlingotn, e già l’idea di andare in trasferta, con il treno da Union Station mi esalta forse tanto quanto l’uscita perché rimango fondamentalmente un esaltato che vive di metafore.

La mattina così mi sveglio, controllo per bene gli orari dei treni, mi segno i due più adatti e le scrivo. La risposta però, non è delle migliori, perché nel frattempo la ragazza ha deciso di andare in Portogallo una settimana per raggiungere i genitori che sono sbarcati in terra lusitana da poche ore. L’improvvisa voglia è incontenibile, e mentre si scusa in tutti i modi prepara la valigia. Qualche ora dopo mi comunica che sta andando all’aeroporto e che tornerà otto giorni dopo, promettendomi che rimedierà. Non posso fare altro che prendere atto del tutto, augurarle buon viaggio, imprecare per ore contro il destino cinico e baro e vivere il mio sabato in modo totalmente diverso.

La beffa non mi sorprende, ma mi irrita. Non sono infastidito per come sia andata, ma per come vadano puntualmente certe situazioni che a volte sfondano il muro del credibile. Mi metto l’anima in pace ma con un po’ di difficoltà. Intanto teniamo il ponte radio accesso malgrado le cinque ore di fuso ed il wi-fi che non può soccorerla costantemente.

In tutto questo, mentre la “Ragazza di Richemont” si aggira per Lisbona, io perdo anche la mia spalla, poiché il “Ragazzo di Versailles” torna in Europa per tre settimane di vacanza. L’attenzione si sposta così su Italia – Spagna ma soprattutto sulla Partita contro la Germania in scena sabato pomeriggio 1 luglio. Per la prima volta, grazie anche all’orario, decido di andarla a vedere a Little Italy, non tanto per condividere l’atmosfera con gli emigrati ma per trovare qualche italiano vero. Sono 120 minuti di noia e sofferenza, io sono invece sempre più infastidito dai finti italiani da cui sono circondato. Sì, i nipoti di chi è venuto qui nel secondo dopo guerra e che guardano la partita vestiti di azzurro ma gridano in inglese. Avverto uno strano sentimento, in primis quello di essere il tifoso con la T maiuscola ma anche come uno di quelli più coinvolti perché io so ad esempio cosa significhi la Nazionale in Italia e soprattutto la partita contro la Germania.

Al gol tedesco, la reazione rabbiosa si sfoga contro questi italoidi che sembrano disperarsi ed io inizio a mandare affanculo chiunque, issandomi sul gradino di colui che ha il diritto di essere più arrabbiato. Continuo a ripetere “Ma che cazzo ne sapete voi!?” e forse ho ragione, perché al pari di Bonucci la mia esultanza è ben altra roba rispetto alla loro. Mi tremano le costole per due minuti a forza di gridare e la cassa toracica mi fa male per quasi tutti i supplementari. Dietro di me intanto si è posizionato un giovanotto che sostiene la Germania pur non essendo teutonico.

È con la ragazza, ma da un commento a mezza bocca, oltre tutto sul fallo del rigore l’ho sgamato e penso: “Hai scelto il posto meno adatto, bello…” Dopo il gol del pari, capisce chi ha davanti e si allontana di qualche passo per salvaguardarsi. I rigori sono uno stillicidio raro, il finto tedesco accenna ad esultare, quando sbagliano loro e noi rimaniamo a galla io sono già da un pezzo in piedi su una ringhiera di un ristorante e mi tengo ad un palo di sostegno della copertura esterna, un palo che tento di sradicare diverse volte preda di una rara trance agonistica. Resta il fatto che la roulette gira sul bianco e non sull’azzurro. Vincono loro, il pupazzo dietro di me esulta, io mi giro per aggredirlo immediatamente, non tanto per la vittoria ma perché è un deficiente visto che in una città enorme e internazionale come Toronto ha deciso di vedere una partita del genere a Little Italy. Una pizza in faccia se la merita, se l’è guadagnata direi.

Scappa, faccio per corrergli dietro ma è andato ormai, realizzo che sto facendo una stupidaggine, anzi una cazzata vera e propria, cambio direzione e prendo la strada verso casa. L’amaro in bocca è enorme, abbiamo sognato un po’, ma ora c’è spazio solo per una cocente delusione.

Mi rintano in quella tanto familiare idea che tutto stia andando male e soprattutto allo stesso esatto momento. Fortunatamente però, la sensazione ed il tunnel mentale in cui sono entrato sono piuttosto brevi rispetto al solito, ma anche questo, in fondo, non è proprio un caso.

Siamo questo, niente di più.

Cresciamo da generazioni con i racconti drammatici dei terremoti che nell’ultimo secolo hanno straziato il nostro paese. Cresciamo con queste storie e quelle della Guerra, due cordoli che fortunatamente non si intersecano pur essendo disastri che hanno segnato la storia dell’Italia e la vita di molte persone.

Un evento potente e imprevedibile come un terremoto ci ricorda quasi subito che non siamo nulla, che di fondo, siamo costantemente appesi ad un filo e che tutto può essere spazzato via in un attimo: vite, case, pensieri che diventano già ricordi, spesso amari.

Ciclicamente ci ritroviamo a scavare fra le macerie, a piangere chi non c’è più e a sorridere per qualcuno che dopo ore, magari, è ancora vivo. C’è qualcosa che ritorna, la storia, il dramma, un filo rosso che ci unisce come popolo, quando serve. Mi commuove questo, non so perché, o semplicemente non me lo so spiegare. La solidarietà, la voglia di aiutarsi e di stare insieme che si vive in questi momenti è unica e sincera, per questo drammaticamente toccante.

Esistono ripetizioni che a volte ci portano a pensare che da certi incubi non ne usciremo mai. Penso alla gente dell’Aquila e a chi nel cuore della notte è stato svegliato ancora una volta, praticamente alla stessa ora, dal letto che si muoveva e dal lampadario che oscillava. La mente torna subito al passato, a sette anni fa, e alle 309 vittime che quel terremoto si è portato via. Quella scossa la avvertii anche io, a Roma, il letto si spostò per secondi interminabili, attimi in cui realizzi cosa sta succedendo ma non sai mai cosa fare. È tutto troppo improvviso e crudele che non esiste una reazione giusta o una azione opportuna da fare, aspetti solo che la terra si fermi e poi ti tocchi, ti guardi in giro per vedere se tutto è ancora al proprio posto.

Ricordo quella notte, come le giornate del settembre del 1997 con il terremoto in Umbria, la terra di tanti miei parenti e i luoghi delle mie estati abbattuti in un colpo solo.

È la storia dell’Italia, un tunnel dal quale sembra impossibile uscire e quando appare un po’ più lontano nella memoria, ritorna più rabbioso e forte che mai. Quattro anni fa, 27 morti in Emilia, oggi non si sa ancora, o meglio, il conto cresce drammaticamente ogni ora e la paura rimane per quello che potrebbe essere, per i corpi che mancano all’appello e per le decine di scosse di assestamento che arriveranno, sperando che siano solo conseguenze dello sciame sismico e niente di più grave.

Quando vivi lontano dall’Italia tutto è nostalgia. Anche una tragedia così ti tocca in modo diverso, forse in maniera più profonda,  so solo che è differente.

È stato un 2016 bagnato di sangue e lacrime come nessun anno precedente che io ricordi. Un 2016 macchiato dal terrorismo, da molteplici stragi, dalle giovani morti in Catalogna su un bus, dall’incidente ferroviario in Puglia, fino a questo ultimo terremoto, per non contare i drammi personali con il pensiero che corre ovviamente ad Alfredo.

È stato un anno che finora ci ha ricordato e sottolineato con un vigore di cui avremmo fatto volentieri a meno, quanto siamo impotenti di fronte a certe cose, in balia di un destino imprevedibile, palline che ruotano casualmente su una roulette sperando sempre di capitare sul colore giusto.

Siamo questo, niente di più.

Non chiedermi perché (Parte II)

Il senso di spaesamento che vivo dopo ogni eliminazione è sempre lo stesso. Difficile da spiegare ma uguale ogni volta. Un via di mezzo fra una specie di vuoto e di fastidio profondo, soprattutto per quello che implicano i giorni successivi. Un po’ come quando finisce un lungo viaggio e torni alla vita normale, o quando una bella vacanza volge al termine e rientri dentro casa tua e realizzi che tutto è già passato. All’improvviso.

Il mio primo europeo da espatriato mi ha legato ancor di più alla Nazionale, una conseguenza normale in fondo, e per quanto mi sia mancata quella ciclicità che regala l’estate con l’Italia in campo, mi sono sentito partecipe di questa atmosfera azzurra, di passione e desiderio, di legarsi a un gruppo così.

Il fastidio dell’eliminazione vissuta a Little Italy stavo per sfogarla con un tedesco, o meglio, con uno che tifava Germania e che era capitato dietro la persona sbagliata al momento meno adatto: dietro di me. È scappato dopo il rigore decisivo e prima che la mia rabbia sfociasse in altro, e forse, a mente fredda, è meglio così.

Domenica mattina era finito tutto, l’entusiasmo crescente di questo ultimo mese era svanito lasciando spazio solo a questa inquietudine vissuta nel 1996 dopo lo 0-0 con i tedeschi e dopo il rumore della traversa di Di Biagio e il boato conseguente di St Denis nel ‘98. Ma anche con le lacrime di Euro 2000 e quella coppa che ci scivolò dalle mani mentre ero a Colle Oppio con mio papà, o il senso di ingiustizia del 2002 con la rapina coreana perpetrata da Byron Moreno.

Il biscotto scandinavo del 2004, i rigori con la emergente Spagna nel 2008, il disastro del 2010 e quell’amaro pomeriggio a Vienna dopo l’eliminazione con la Slovacchia, il silenzio dopo il poker degli spagnoli rifilatoci nel 2012 in finale mentre ero al Circo Massimo, oppure la recente e cocente delusione del 2014.

Il dramma di Pasadena del 1994 l’ho omesso volutamente perché quello rimane qualcosa di unico e profondamente scioccante, forse non mi sono mai ripreso dal rigore di Baggio con il Brasile, nazione che da quel 17 luglio per me è come il demonio.

In tutto queste occasioni, subito dopo, ho sempre avuto la stessa percezione. Lo stesso senso di smarrimento pensando: “E ora bisogna aspettare altri due anni? O quattro per la stessa competizione? E come se fa?” Non si fa, mi rispondo così del giugno del 1996, mentre ero a Torvaianica e Zola ci mandò a casa anzitempo con un rigore fallito, non a caso, contro la Germania.

È una sensazione strana, che solo una persona riesce a capire e proprio ieri mi scriveva che voleva piangere. E capivo anche tutto quello che questa eliminazione gli aveva scatenato, proprio perché il problema è quello, ossia tutto ciò che di personale viene messo involontariamente nella Nazionale in queste competizioni.

Non so perché, o forse sì, ma è troppo lunga da spiegare, eppure oggi io vorrei essere con i miei genitori al mare, con loro in albergo in Salento. Se fossimo andati in semifinale nemmeno mi sarebbe venuto in mente, il fomento sarebbe ai massimi ma non è cosi, è proprio il contrario.

Come sempre, queste sconfitte di fatto a me aprono tutta una altra serie di voragini, di pensieri, riportano a galla cose che non c’entrano nulla con un torneo calcistico. Ma alla fine, certe paranoie sono dentro di noi, troppo radicate e impossibili da scalfire. Puoi crescere, girare il mondo, fare tutte le esperienze che vuoi, ma alcuni punti dentro di noi sono irremovibili. La Nazionale in fondo ci tocca dentro diversamente, ci fa tornare tutti un po’ bambini, motivo per cui siamo così coinvolti, ma questo vale tanto per chi sta a casa quanto per chi gioca. Sentire Barzagli dire “C’era voglia di stare insieme” in lacrime ti fa capire la potenza di certe emozioni, di quanto vadano effettivamente oltre. Di come anche un uomo di 34 anni, campione del mondo, fosse coinvolto con l’anima e il cuore. Soldi, fama, e tutte le cose materiali non esistono quando c’è un Europeo o un Mondiale, ci sono solo i sentimenti e una eliminazione ti tocca proprio lì, nella parte emotiva, quella più infantile però.

Dopo 31 giorni ieri non ho sentito l’inno per la prima volta, e stamattina camminando verso la redazione ho sentito “Happy” di Luca Carboni, ma con un morale ben diverso e mi ha fatto venire una specie di magone, a dimostrazione di come poi le canzoni assumano un valore in base al nostro spirito e a quello che ci leghiamo. Per me, oggi, questa canzone era già un ricordo, una memoria di giorni di entusiasmo e di credere in un qualcosa, magari di troppo grande ma che comunque era lì e oggettivamente possibile fino a prova contraria.

Ci vorrà un po’, ma l’amarezza rimarrà e me la ricorderò, soprattutto quando Euro 2016 sarà finito del tutto e la sua conclusione in generale mi metterà addosso tanta tristezza, come tutte le cose attese, che ti coinvolgono, ti accompagnano e una sera terminano.

In particolare quando nella tua vita una ventata di emozioni equivale al platino.