Le mie storie mondiali (Parte 1)

Da otto settimane, ogni sabato, Sky ci sta accompagnando per mano verso il grande appuntamento dei Mondiali con le storie raccontate da Federico Buffa per quello che è indubbiamente il programma più bello dell’anno. Attorno alle vicende sportive di una coppa del mondo del passato, vengono snocciolati racconti con una serie di spunti che vagano dalla letteratura, alla musica, passando per il cinema. Il calcio diventa pretesto e ossatura della puntata, la capacità aneddotica di Buffa e la sua proverbiale sapienza condita da infinità abilità lessicale, rendono il tutto semplicemente magnifico. Ripercorrendo queste storie e questi mondiali, molti dei quali non ho potuto vivere di persona per ovvi motivi anagrafici, mi sono fatto comunque trascinare in questo vortice e non posso esimermi dal raccontare un po’ le mie storie mondiali, soprattutto ora che mancano 13 giorni a Brasile 2014.

 

Ho due flash di Italia ’90: uno al mare al Torvajanica, la tv accesa con noi intorno al tavolo ed un altro relativo alla finale per il terzo posto giocata a Bari. Quella partita la guardammo a Roma, in veranda. Finestre aperte e urla da fuori. Il mondiale in casa, quello che mi avrebbe travolto del tutto ho avuto la sfortuna di viverlo così, due istantanee e il rimpianto di non essere nato dieci anni prima.

 

La mia prima vera coppa del mondo è quella del 1994 negli USA, sette anni e la prima elementare appena terminata, di quei 30 giorni ricordo tutto, veramente, come se avessero giocato ieri sera. Eravamo al mare sempre a Torvajanica, ricordo l’esordio e la gara contro la Norvegia viste sul mega schermo allo stabilimento “Da Gigi”, a un passo dalla spiaggia, io e mio papà. Contro il Messico tornammo a casa prima giocando di pomeriggio, erano venuti Zio Vincenzo e Zia Margherita. Con tanto di sabbia ancora sotto i piedi mi avvitai al divano per vivere la gara che valeva il passaggio agli ottavi. Ecco, gli ottavi appunto, credo sia la partita delle partite. Se penso alla sofferenza penso a quell’Italia – Nigeria, è stata la gara dell’angoscia della mia infanzia, come Italia – Olanda nel 2000 è stata la partita dell’ansia dell’adolescenza e Barcellona – Inter della mia giovinezza. La guardammo da mia nonna, anche Alessandro rimase lì dopo aver giocato in cortile nelle ore di attesa. Fu proprio lui a dirmi che gli africani erano passati in vantaggio mentre stavo recandomi al bagno. Ho ancora la piena sensazione della sofferenza, della fatica, e poi quel gol di Baggio a risollevarci quando era già finita. Miracolo, magia, non lo so, direi più che altro liberazione. Noi bambini scendemmo di sotto a festeggiare, fu lo stesso quando il Divin Codino la risolse dal dischetto. Impazzimmo letteralmente, e pensare che era solo l’inizio. Con la Spagna la vidi sul lettone dei miei, serrande giù per ripararci dal caldo, ventilatore accesso e remake in parte dei patimenti vissuti pochi giorni prima, ma poi, ancora lui, l’idolo per antonomasia, quello che veniva chiamato da Pizzul per nome (sento ancora nelle mie orecchie quel crescente “Roberto, Roberto, Roberto, sì!”) all’ultimo respiro, di nuovo, ci porta in semifinale. Andammo da zio Remo per la sfida con la Bulgaria, sempre con Baggio protagonista e finale in tasca. Ricordo il finestrino della nostra Regata tirato giù, Via Casilina per tornare da Frascati e io che tengo forte la bandiera fuori, accarezzata dal vento. Ovviamente, anche la finale, la vedemmo da zio Remo, la scaramanzia è tutto in certi casi, un obbligo morale da rispettare, un vincolo che dodici anni dopo mi avrebbe riportato a casa Falcone dopo la sfida vinta contro la Germania. Della partita di Pasadena ricordo la paura e il timore di finire ai rigori, una sofferenza in più, dopo un mondiale di agonia. A me, dopo 20 anni, fa ancora male ripensare a quella serata. Di certo quello è stato il primo grande shock della mia vita, ma un dramma sportivo del genere, per un bambino di sette anni, ha un peso enorme. Ho impiegato anni a riprendermi, solo il 2006 ha di fatto cancellato in parte quella personale tragedia, resta il fatto che da quel giorno ho iniziato a detestare il Brasile con tutto me stesso. Non tanto la nazione, i giocatori, ma coloro che nel momento in cui io piangevo stavano festeggiando. Crudeltà dello sport, il fascino della competizione. Il sale di ogni duello.

Ancora oggi che ho 27 anni non sopporto l’idea del Brasile. Per carità, nulla contro nessuno, anzi, il destino ha voluto che nella mia famiglia arrivassero anche due brasiliane a cui vogliamo ovviamente bene, però, però non lo so. Difendo ancora quel bimbo a cui hanno fatto del male, una specie di torto, e se sogno di vincere un mondiale sogno di batterli, e se esce l’Italia tifo contro di loro, per me il Brasile è come il Milan, la Roma e la Juventus messe insieme. Per me USA ’94 è la beffa dopo la cavalcata, la favola spezzata da undici uomini vestiti in giallo, l’eroe con il codino che sbaglia nel momento decisivo rovinando il copione perfetto…

(CONTINUA)

BAGGIO