“Con i colori del cielo e della notte”

Non ricordo il giorno in cui ci siamo incrociati per la prima volta, non so nemmeno quando me ne sono innamorato, ricordo però esattamente la sera in cui decisi che non l’avrei mai più lasciata. Era il 24 agosto 1993, una calda e umida serata di fine estate, un martedì lavorativo per qualcuno, come per mio papà che insieme ad un suo collega decise di portarmi allo stadio Olimpico per una amichevole pre-campionato fra Lazio e Inter. Non assistevo per la prima volta ad una partita dal vivo, pochi giorni prima eravamo stati infatti al Curi per un Perugia-Cagliari finito 1-1, mentre eravamo in Umbria come tutti gli anni a cavallo di Ferragosto.

Andammo così all’Olimpico, ma prima ci fermammo alla stazione Tiburtina. Non so il motivo, ma ricordo che mio padre scese e io rimasi in macchina con il suo collega al quale spiegavo che poche settimane dopo avrei iniziato scuola, la prima elementare, ma già sapevo leggere, scrivere e fare addizioni e sottrazioni. Scherzando, entrambi arrivammo alla conclusione che ero in grado di fare le cose più importanti e che in fondo avrei anche potuto fare a meno di andare a scuola. Giunti allo stadio ricordo il rumore dei piedi sui gradini, sulle rampe d’accesso per raggiungere la tribuna Tevere ma soprattutto la meraviglia di vedere quel prato verde davanti ai miei occhi. Enorme e splendente. Un sogno. Quella sensazione inebriante che in fondo riprovo ogni volta, come se in tutte le circostanze tornassi un bambino di sei anni e mezzo per la prima volta alla stadio.

La cosa che mi stupì maggiormente era il fatto che non ci fosse la telecronaca, e quindi che il rumore del pallone calciato intervallava a volte il brusio del pubblico, il tifo e i boati, di gioia o disapprovazione. Trentacinque minuti dopo il fischio d’inizio Casiraghi segnò, al 63’ raddoppiò Winter che a me stava simpatico perché il suo nome significava W-Inter, una delle frasi che scrivevo più spesso, e al 67’ Gascoigne firmò il tris. Sul 2-0 iniziai a piangere, mio padre provava a rincuorarmi, il suo collega si intenerì per me. Ebbi un sussulto solo prima del 3-0, quando Zenga parò un rigore a Gazza e con la mano destra, in mezzo ai pantaloni, gli feci il dito medio, attento con l’altra a coprirmi bene per non farmi vedere da mio papà che era sulla sinistra. La mia attenzione fu rapita in seguito da un uomo davanti a me che insultava ripetutamente Schillaci, un po’ ridevo, un po’ non capivo, un po’ però avrei voluto poter dire quelle parolacce anche io, fin quando l’eroe di Italia ’90 si girò verso la Tevere e fece un gestaccio al pubblico colpevole di beccarlo. Finì malissimo, 3-0 per la Lazio, un’Inter inesistente e un trionfo per i biancoazzurri che festeggiarono.

È la serata in cui però scelgo per sempre. È la serata in cui incontro finalmente dal vivo l’Inter che non fa nulla per invogliarmi a essere un suo tifoso. Nel frattempo invece ho appena visto sotto i miei occhi un’altra squadra dominare, è della mia città, potrei andarla a vedere allo stadio ogni 14 giorni e poi potrei avere tanti amici a scuola con cui condividere questa passione. Invece no, quella sera decido che rimango interista e tiferò per quelli vestiti di nero e celeste, con la maglia a strisce. Scelgo quella squadra per cui a scuola non tifa nessuno, che non potrò mai vedere dal vivo se non due volte l’anno, che ha perso nettamente e che ha un giocatore maleducato e scorretto per come si è rivolto al pubblico.

Ho scelto quella sera afosa d’agosto e non ho mai più cambiato idea. Ma soprattutto, non me ne sono mai pentito.

Sono passati 107 anni da quel 9 marzo 1908, 107 anni di storia, bellezza e gloria. “Con i colori del cielo e della notte, infinito amore, eterna squadra mia.”