Un mondo in una redazione

Tra le tante cose buone, intese proprio come conformi a ciò che è ritenuto il bene morale, che sto vivendo in questo lato di mondo, una mi affascina terribilmente, ossia il fatto di lavorare in un posto estremamente internazionale. Delle trenta persone che popolano la redazione nessuno ha una storia genealogica simile, figuriamoci se identica.

Questo aspetto, per quanto sia magari normale da queste parti, per un europeotto italico rimane non proprio un dettaglio. Come dicevo nell’intervista, soprattutto all’inizio, è stato spassoso vedere questo mix totale di nazionalità, culture e mondi, una di quelle cose che in Italia sono impensabili, difficili invece nel resto d’Europa se escludiamo un paio di posti come Londra e Parigi.

Nessuno ha genitori e nonni provenienti dallo stesso paese. Nessuno. Dopo quasi quattro mesi ho avuto modo e tempo di parlare un po’ con tutti e questo è il dato che è emerso. Partendo dall’assunto che il canadese non esiste, così come lo statunitense per motivi storici, qui dentro ognuno è un piccolo mappamondo che cammina.

Provando a fare ordine posso dire che ci sono diversi canadesi, non tanti, ma tutti i nativi di questo paese non hanno genitori altrettanto canadesi. In redazione si trova ogni provenienza: italo-canadesi, portoghesi, cinesi (i quali però sottolineano puntualmente la loro provenienza da Hong Kong), coreani, filippini, statunitensi con origini messicane e italiane, canadesi con origini slovacche-irlandesi, africane; canadesi con origini olandesi, argentine, maltesi, indiane, scozzesi e di Panama. Francesi, franco-canadesi, peruviani, cechi e qualche aggiunta araba e da El Salvador.

Mi pare di aver detto tutto, il punto è che ognuno di loro meriterebbe un post per raccontare l’incasinato albero genealogico che ha. Se da una parte non adoro troppo il sangue misto (sicuramente perché non lo sono e perché nel mio paese è un concetto ancora molto esotico) dall’altra parte invidio loro il fatto che ognuno parli una lingua in più perfettamente senza aver fatto nulla e anche la bellezza di avere diversi legami che escono dalla propria patria.

Ovviamente, gli unici che hanno tutta la discendenza da un solo posto qui dentro sono gli europei puri. Io, il portoghese e il francese. Un fatto che è tutt’altro che strano. La storia in fondo ci spiega tante cose, quasi tutte, basta leggerla e magari studiarla e ci si stupisce di poco.

Ogni giorno quindi c’è una moltitudine di mondi che si incrociano, nel modo di pensare, di vivere e di mangiare. Un continuo scambio di idee e punti di vista, un perenne stimolo, soprattutto per chi è curioso e desideroso di entrare in contatto con altre realtà come il sottoscritto.

In una nazione del genere questo scenario non è nulla di strabiliante, per me invece lo è, ma senza dubbio è anche una delle cose che più mi intriga di questo universo ricco di sfumature e inevitabilmente carico di insegnamenti.

Quelle domeniche un po’ così, a St Clair (Parte II)

Faccio esattamente così, mentre la coda dell’occhio la appoggio sulla diagonale per decifrare la spaventosa somiglianza. Parlano, dicono che devono andare a Mississauga, e visto che sono scemo mi dico: “Questa però è la suocera, quindi la madre del top player, chissà, magari è venuto a fare il chirurgo qua”.

Il panino è buono, sbriciolo ovunque perché è fresco e friabile, però non me lo godo. In mezz’ora si sono riaffacciate una serie di cose che mi hanno ricordato perché all’estero in fondo sto bene. Teoricamente.

Pago, esco, mi fermo da Seven e mi prendo una Canada Dry d’ordinanza che non so per quale motivo pare corretta con la grappa e salgo al volo sul tram. Il viaggio di ritorno verso St Clair West Station è una specie di monologo in cui riprendo la frase iniziale del post.

Mi piace stare lontano, mi piace perché mi tiene in disparte. Partire, tornare e poi ripartire mi fa bene. Questo status forzato, questo esilio, questa distanza in realtà mi sollevano, perché a Roma ci sono ancora troppe cose, ovviamente, che mi riportano indietro e a volte mi trasmettono un malumore, un dolore persistente. Ecco, starmene qua attutisce tutto. Mi isola. Per quanto poi stare così da solo e avere spesso larghi momenti di vuoto mi porta a pensare, rielaborare, riflettere. Questa perenne solitudine non mi pesa, ci sono abituato, anche se per qualcuno è assurdo pensare che io stamattina sia uscito da casa per andare a pranzo fuori da solo. Per me è normale, è solo che poi certi momenti ti conducono a ritornare indietro e a pensare.

Stare altrove ti elimina un serie di riferimenti, dettagli, colpi bassi che a casa, nel tuo ambiente, sono costanti, il dazio da pagare è appunto uno, quello che quando non sei impegnato, la testa se ne va.

Penso tutto questo mentre prendo la metro per Bathurst, e mi dico che nessuno mi obbliga a tornare. È vero, però è altrettanto vero il contrario, ossia che prima o poi mi dovrò riappropriare di certe cose e di certi spazi. Di ricordi o momenti, perché così non è che sia una gran cosa. Poi penso ad una frase detta da David a colazione quando eravamo a Sofia, e so che una parte di me, piccola, ma pur sempre esistente, vorrebbe starsene in eterno qua proprio per evitare quella cosa detta dall’unico vero ciociario. Quella eventualità, che tanto prima o poi accadrà, a me terrorizza letteralmente, motivo per cui, mentre bevevo un succo di frutta guardai David e gli risposi: “Be, non penso proprio, il solo pensiero mi angoscia”

All’estero non ci sto male, anche per questo. Perché giro per strada e sto in pace. Al sicuro. Poi certo, capitano anche mattinate come queste, fra riviste e sosia.

Ma vabbé, scherzi del destino e ironie della sorte che capitano ogni tanto.

Spero.

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Quelle domeniche un po’ così, a St Clair (Parte I)

“Che poi io all’estero, mica ci vivo male, anzi.” Penso questo mentre il tram 512 mi trasporta dalla metropolitana a St Clair West Avenue, è una domenica di fine aprile ma non è primavera ancora. Sfodero la giacca leggera, ben abbottonata, ma quando le nuvole coprono il sole e si alza l’aria, un po’ di fresco lo accuso. Taglio un pezzo di città, Toronto non dorme più ma non si è nemmeno svegliata del tutto, o meglio, ancora non è fuori a riempire vie e negozi.

Ho deciso di andare alla scoperta di una Italian Bakery, un forno all’italiana piuttosto noto, in una zona che un tempo era la prima vecchia Little Italy della città. Scendo un po’ prima della mia destinazione per farmi due passi a piedi, per guardarmi la zona meglio e respirare questo posto. Mi fermo a St Clair Church dove c’è la messa domenicale, entro, mi guardo attorno e aspetto la fine dell’omelia. Uscendo mi imbatto poco dopo in un signore di colore che mi ferma e mi mostra una rivista di taglia medio-piccola, leggo solo “Tower”, ma ho capito immediatamente. Lo saluto, lo ringrazio garbatamente ma gli dico che non sono interessato e proseguo.

Sì, proseguo.

Proseguo e dò sfogo ad una serie di improperi a voce alta, tanto sono da solo e non ho nessuno nelle vicinanze. Il turpiloquio non è rivolto a nessuno, men che meno al signore appena incrociato, impreco semplicemente contro il mondo e i sentieri della mia esistenza che si annodano e si stringono sempre più forti, inveisco contro un filo rosso che evidentemente si snoda da tempo.

Mi riviene in mente la chiamata di Antonio del sabato che prima di finire si è chiusa con un suo racconto il quale mi ha occupato testa e immaginazione per il resto della giornata.

Metto in icona un attimo la faccenda, controllo i numeri civici e capisco di essere nei pressi del forno. Vedo davanti ad un bar tre facce da italiani che parlano amorevolmente e mi fermo, li interrompo e gli chiedo informazioni sul forno. Mi dicono che è cento metri più avanti sulla sinistra, mentre l’uomo che mi sta dando le indicazioni, a un punto, rivolgendosi ai suoi due compari esclama: “Ah, abbiamo un toscano qui!” Me lo guardo e gli dico: “No guardi, non sono toscano.”

Il secondo incalza e mi dice, con la classica espressione del romano che la sa lunga (non sapevo fosse romano, l’ho scoperto 30 secondi dopo, ma l’espressione era inconfondibile) “Ma questo è ciociaro!”

A quel punto, mi trovo costretto a intervenire perché ci stanno andando giù pesanti con buona pace del mio vero amico ciociaro. Ribadisco così che non sono ciociario con un triplo no. Un secondo prima che sveli la mia identità, il primo riprende e dice: “Ma no, è napoletano!”

In maniera davvero involontaria, del tutto incontrollata, faccio due passi all’indietro, alzo le mani tirandole un po’ in avanti e mi esce un inappropriato: “Per l’amor di Dio, non scherziamo. Sono romano. Vengo da Roma. Io.” Esce tutto il mio campanilismo che scoppia come un petardo. Mi scappa così e non posso più tornare dietro.

Il punto è che il terzo che non ha ancora parlato, dopo poco capisco che è un figlio di Parthenope. Non l’ha presa bene, presumo. Ma tant’è. Il romano mi chiede la mia zona d’origine che ovviamente strappa l’ironico e immancabile “Bella zona…” con tanto di sorriso. Mi domanda perché non si percepisca il mio accento ed io rispondo che tendenzialmente parlo in italiano ma anche che per motivi professionali ho calibrato mira e dizione. La mia attenzione viene a un punto catturata da un altro tizio, davvero orrendo, che esce dal bar. Non a caso sfodera una giacca falsa del Milan, è molto comico e il vestito gli calza a pennello.

Saluto la combriccola e riprendo la mia passeggiata. Attraverso i binari del tram ed entro nella bakery. Giro di perlustrazione e poi decido che voglio il salame. Assolutamente. Chiedo in italiano alla signora se è possibile avere un panino, lei acconsente, me lo prepara e me lo serve.

A quel punto mi guardo intorno e vedo solo un tavolino libero attaccato a due signore che stanno facendo in realtà colazione. Mi avvicino e poi mi blocco. Guardo la giovane delle due donne, la fisso con sto cazzo de vassoio fra le mani, sto panino tagliato a metà e rimango cinque secondi immobile. Il cervello mi dice semplicemente: “Mattè, sì, è uguale Elena. Ma di una somiglianza spaventosa. Lascia stare, oggi è andata così. Mettiti là e mangiate sto panino, su.”

CONTINUA

Dammi retta Dà

Tre cose bizzarre ed in qualche modo legate si sono combinate casualmente giorni fa. La prima è stata un mio pensiero, una mia riflessione intima, una di quelle che faccio fra me e me perché sostanzialmente mi vergogno ma allo stesso modo ho grande rispetto verso la mia coscienza. Mentre camminavo dentro St James’s Park per andare a prendermi il mio quotidiano pranzo da Metro, alla 43esima volta in cui mi è venuto da ripetermi lo striscione del derby, mi sono detto: “Sono giorni che vado avanti con questa litania, io mi devo far vedere da qualcuno, ma da qualcuno veramente bravo, perché non è possibile così”. È evidente che “Le radici di chi da sempre governa la città troverete, o voi bramosi che con invidia osservate, fra le merlature della torre del Filarete” mi è piaciuto in modo esagerato e sono entrato in fissa con la frase, come quando ti canticchi ogni dieci minuti una canzone che ti ha preso.

A questo fatto, si è aggiunta la considerazione dell’altro ieri che è scaturita dopo la mia chiamata con David, al quale ho volutamente ricordare che dobbiamo andare a Lisbona, a scanso di equivoci, ogni tanto al velocipede fiuggino è bene rinfrescare la memoria, un po’ perché si sta inesorabilmente invecchiando (oltretutto male) e poi anche perché, tanto per usare una citazione, è una banderuola e quindi non bisogna mai fidarsi troppo di lui.

La considerazione è stata però un’altra e anche questa si lega in qualche modo ad una mail che ho mandato sempre al Catto qualche settimana fa, e che lui stesso ha definito la più divertente che io gli abbia mai mandato. Arrivo al punto che è il seguente: finché non si fidanza lui non lo voglio fare nemmeno io. Appurato il fatto che il rischio sembra piuttosto lontano ed è un discorso che non ci riguarda nemmeno di striscio, onestamente penso sia la cosa migliore. Sì perché dobbiamo fare ancora troppe cose insieme, e persone in mezzo sarebbero un intralcio, una maledizione, un dramma. Il Gallo è poi uno di quelli che una volta fidanzato si ricorderebbe degli amici intimi solo a Natale per un sms seriale e preimpostato di auguri, quindi bisogna evitare sta disgrazia in tutti i modi. Delle “intruse” ci limiterebbero, già una sarebbe un problema, due sarebbero un ecatombe. Non deve succedere perché ci aspetta Lisbona, dobbiamo andare a Mosca, tornare a vedere il Palio, tornare entrambi a Dublino insieme, la maratona, fare quel famoso giro in coppia del sud Italia. Troppi impegni che impongono chiaramente uno status di singletudine ad oltranza.

Per quanto mi riguarda il rischio non c’è. Finché sto qua, sono al sicuro. Quando tornerò avrò troppe cose da fare e poi, come diceva sabato scorso Gabriele, Roma non è la piazza per me per diversi motivi. Oltre a sostenere che magari dovranno passare ancora un paio d’anni (Gallo, sarebbe perfetto, speriamo proprio) ha firmato la sua previsione con la sua innata sapienza, un prossimo futuro che mi mette al riparo da brutti scherzi. Meraviglioso.

A tutto questo va aggiunto che l’altro ieri mi sono imbattuto in un articolo sul Corriere della Sera in cui veniva raccontata la storia di un signore di Padova che al momento del matrimonio ha fatto firmare alla moglie una specie di contratto in cui lei si impegnava a lasciarlo libero ogni domenica per vedere la sua squadra. Una roba fantastica, un fenomeno lui, una donna ammirevole lei.

Pensavo che potrebbe essere una buona idea da tenere a mente, qualora appunto dovesse consumarsi il fattaccio. Mi sentirei liberato dall’angoscia che mi attanaglia maggiormente da sempre, quella di dover discutere ogni domenica con qualcuno che pensa che a me possa piacere di più fare altro, in concomitanza con quei 90 minuti. No, non c’è altro che io preferisca.

È stato scientificamente già testato, ci ha sperato mia madre per anni, da tempo s’è arresa anche lei. Sì perché io preferisco vedermi un avvincente Inter – Carpi fino all’ultimo istante piuttosto che uscire a fare i regali di Natale al centro commerciale. Non posso perdermi un secondo ed il motivo l’ho capito anni fa, una sera di gennaio del 2010, ma questa è una lunga storia e presto magari la racconterò.

Quindi, ricapitolando, Gallo dobbiamo restare così, so che penserai che il problema non si pone, ma io te lo dico uguale. So anche che tu Duomo non potrai condividere e partirai al contrattacco, ma fidati. Meglio così, dammi retta Gallo, abbiamo da fare, io mi posso avvitare ad esempio al divano, insomma dai, non sono cose che fanno per noi. Come hai concluso tempo fa sontuosamente, “Mi piace, ma non sono molto interessato”.

Ah, quanta saggezza si annida nelle strade di paese…

 

Frase della settimana

Avrei voluto conoscere il Catto da piccolo per dirgli: “Bambino, se vuoi possiamo diventare amici…”