E pure febbraio…

Hai capito il Catto…e insomma Davidì, la settimana l’abbiamo archiviata ma soprattutto anche febbraio ce lo siamo tolti dalle scatole per parafrasare in maniera più educata Garrone in Vacanze di Natale.

Certo Gallo, la domanda del giorno è la seguente: ma se tre anni fa, mentre mi accingevo ad assaporare l’ultima ondata di brividi universitari con la laurea magistrale, m’avessero detto che tre anni dopo sarei andato tagliere i capelli da una parrucchiera nella Chinatown di Toronto, ma io c’avrei creduto? Beh, penso proprio di no.

Alla fine da oggi posso dire di vivere qui, o meglio di abitare in questa città seguendo la mia bizzarra teoria secondo la quale per dire che hai vissuto in un posto devi aver avuto la necessità di tagliarti i capelli lì. Elaborai questa opinione quando ero a Dublino, e dopo un mese dal mio arrivo andai a Balally dal barbiere del Manchester United che con 10 euro faceva il dry-cut. La seconda volta, a dicembre, invece andai da un mezzo indiano che aveva un buco davanti Deals affianco la fermata della Luas di Dundrum. E quindi, da stasera sono uno di loro, certo, se mi avesse sfumato un po’ dietro la mia acconciatura sarebbe migliore, ma nel giro di dieci giorni il problema sarà del tutto risolto.

Domani è marzo quindi, martedì abbiamo la cena tutti insieme al ristorante messicano per il compleanno del nostro CEO, venerdì svolto a 28 e mi intristirò un po’ forse per la prima volta, non tanto per il compleanno ma quanto per il fatto di non poterlo festeggiare con la mia famiglia o miei amici, insomma, con qualche caro. Il prossimo week-end invece ci sarà il passaggio all’ora legale e quindi guadagniamo questa ora di sole che può far solo comodo e poi accorciamo a meno 5 su di voi, magari vinciamo pure lo scontro diretto e vi abbiamo ripreso. Sta frase mi sembra molto familiare, peccato che non succeda mai, o almeno nemmeno quest’anno mi sa che avrà senso. Strano.

Poi Galluccio che altro? Sì, il sabato Pasqua tutti all’Air Canada Centre per vedere il basket vero, quello della NBA, il top del mondo, per Toronto Raptors-Boston Celtics, con un entusiasmo personale già a livelli sensazionali dopo aver comprato il biglietto ieri sera. Per il resto ti saluto calorosamente con le tre dita alzate, ci sentiamo presto Gaucho, stammi bene e riguardati.

P.S. Ah dimenticavo, ma è vera la storia che per mangiarti un pacchetto di Pavesini hai perso la paperella al lago di Canterno mandando all’aria la tua giornata di pesca?

 

Differenze

Dai su, lasciatemelo scrivere un post così, uno di quelli fastidiosi, o meglio infastiditi, di condanna, di disapprovazione, quei post normalizzatori che richiamano un po’ tutti all’ordine e alla calma, ma soprattutto al non esagerare, al non parlare sempre con superlativi e a non lamentarsi in continuazione.

Dai dai, ormai ho cominciato e lo scrivo, sì dai, perché ci tengo subito a spiegare una cosa, magari banale, forse per me, ma non per tutti, o comunque per tanti. Studiare all’estero è una cosa, fare uno stage è un’altra, lavorare un altro livello ancora. Personalmente ho avuto la fortuna, il privilegio e il merito di poter sperimentare tutti e tre questi step e di conseguenza posso parlare con piena consapevolezza delle esperienze, ma ancor di più mi rendo conto di quanto siano lontane fra loro.

Studiare, amici miei, è uno spettacolo. Una passeggiata di salute, un piacere, un divertimento. Se poi è all’interno di un contesto Erasmus, be, allora è la fine dei giochi. Anzi, è un parco giochi. Tuttavia, lo studio e il suo contesto permettono una vita magnifica, conoscenze illimitate, spasso, pause, giri e spensieratezza. Se poi non si ha un minimo di buon senso e si sperperano tutti i denari di mamma e papà, diventa festa grande. Delirio. Per quanto difficile e impegnativo, stiamo pur sempre parlando di libri, magari di voti e di esercizi. Insomma, ci siamo capiti. Diverso ovviamente è quando lasci l’aspetto didattico e sali al livello successivo, in quel limbo in cui non sei un lavoratore ma nemmeno uno studente, sei un apprendista, un pendolo che oscilla in cerca di stabilità.

Uno stage è un altro discorso, non si avranno decine di responsabilità, ma si sta in un ufficio, in un posto di lavoro. Si sta nel mondo degli adulti, non in una scuola e nemmeno in una facoltà. Cambiano gli orari, le mansioni, magari cominciano a esserci obblighi veri e soldi in ballo. La fatica è diversa, l’impegno aumenta. Quando tornai a Dublino per la seconda volta fu la prima cosa che capii, e l’effetto fu maggiore perché nello stesso posto pochi mesi prima avevo vissuto il magnifico status di studente. Cambiando quell’etichetta anche il modo di vivere la città si diversificò, meno Gardaland e più luogo di vita reale. Mentre lo capivo e cercavo di spiegarlo, oltre a non essere compreso del tutto, speravo di poter vivere presto il terzo e ultimo step, quello di lavoratore, di dipendente, pagato e autosufficiente.

Tredici mesi dopo sono stato accontentato, ho cambiato città e ho iniziato questa attuale avventura. Ho cercato di trovare dei punti di contatto con esperienze di altri conoscenti ma non le ho trovate. Nemmeno Gabriele che va in Cina nel marzo del 2011 è paragonabile, anche perché ad attenderlo c’erano due amici non qualunque, come se qui a Toronto avessi ritrovato Antonio e Ilaria. Insomma essere dall’altra parte del mondo, da solo, e per solo dico veramente da solo, a lavorare in un clima atmosferico tutt’altro che amichevole non è una passeggiata di salute.

Eppure, malgrado tutto, mi sto calando sempre più in questa storia. E più lo faccio e meno noto problemi, più tutto mi sembra ormai abbastanza normale e più mi dico che oggettivamente non lo è. Poi penso a quelli che si lamentano per il “troppo lavoro”, che fanno tutto loro, che sono iper-stressati, che sembra lavorino in miniera, sì quelli là insomma, quelli che però la sera tornano a casa e trovano tutto pronto. Spesa, cucinare, lavare, pulire, lavatrici, stirare, no-problem, ci pensa qualcun altro, loro devono solo lavorare per dire poi che sono indaffarati.

Quelli mi stanno sui coglioni. Non sono bravo io, sono una persona normale che si rimbocca le maniche ed è felice di farlo perché sa il valore di tutto questo, sono ridicoli loro, quelli che ingigantiscono tutto, quelli che quando escono dall’ufficio possono staccare completamente mentre per altri finita la giornata lavorativa inizia quella domestica con le numerose cose da fare, a meno che non si voglia campare nello sporco, comprarsi le magliette piuttosto che lavare quelle usate e mangiare panini.

Ecco allora, venite qui, uscite la mattina con -19 e la neve ovunque per andare a lavoro e trovate il tempo per far tutto uguale, invece che esagerare sempre e comunque per essere compatiti o per beccarvi qualche complimento gratuito.

Siate cortesi, fate i bravi su.

L’odio retorico per il lunedì

Uni Alfredo BR: “Matte’, mi fai un bel post contro la retorica dell’odio sul lunedì? Una bella presa di posizione in favore del lunedì contro st’accozzaglia di gente che su internet non fa altro che insultà il lunedì, anche se poi non hanno una mazza da fare.”

L’invito di Alfredo a scrivere un bel post a favore del lunedì, ma soprattutto in forte opposizione al partito di coloro che odiano il primo giorno della settimana, non potevo rifiutarlo, e allora, come promesso al mio amico paulista, con il quale condivido l’idea di base, mi schiero al fianco del lunedì.

Ho vissuto fasi diverse nel mio rapporto con questo giorno, certo, la domenica sera quando mi facevo il bagno e in sottofondo sentivo i secondi tempi delle partite di basket, magari d’inverno, con i compiti finiti e il pensiero della campanella di scuola non è che lo amassi particolarmente, più che altro per il fatto di dovermi svegliare presto. Io per 19 anni mi sono svegliato alle 6.15, quando andava benissimo alle 6.30. Insomma, per un bambino non era il massimo, e questo un po’ mi mandava per traverso il lunedì. Crescendo il rapporto è lievemente cambiato, fino al 2006, quando sono diventato grande amico di questo giorno ai tempi dell’università. Un altro mondo si è aperto davanti a me, una qualità di vita insospettata fino a poco tempo prima. Più sonno, ma anche più entusiasmo e una voglia reale che iniziasse la settimana per andarmi a divertire intorno alla piazza con la stella, consapevole che qualche brivido non sarebbe mancato.

A me tendenzialmente il lunedì non dispiace, anzi, dopo un week-end in cui ci si è distratti dovrebbe essere il giorno migliore, quello più produttivo. Due giorni di pausa non ti rammolliscono e nemmeno ti spezzano il ritmo, insomma non si torna da 15 giorni di ferie, per cui il contributo dato il lunedì per forza di cose dovrebbe essere di alto livello. Molto ruota intorno a ciò che si fa, inevitabilmente, alla vita che si conduce, però, se si ha la fortuna di fare un qualcosa di gradevole e coinvolgente, il primo giorno della settimana non capisco perché debba essere così nero.

Nel mio essere fatto male, non ho mai avuto una predilezione per il venerdì, o “venerdrink” come qualcuno lo ha ribattezzato, e in parte mi infastidisce il sabato sera e l’obbligo del dover fare, uscire, organizzare, dell’affannarsi in qualcosa pur di non rimanere a casa e “sciupare” una serata così. Viviamo circondati da obblighi, figuriamoci se mi faccio incastrare anche da certe cose, dal “dover fare”, dal dover necessariamente uscire, per me, il sabato sta a posto così, anzi, così come viene.

E poi sì ci sono loro, i nemici del lunedì, gli oltranzisti, i lamentosi, quelli che lo spavento del varcare la porta dell’ufficio il giorno seguente al weekend li deprime, oppure non vedono l’ora di lagnarsi per il lavoro da sbrigare e le scadenze da rispettare. Insomma, per molti è così, per qualche esagerato/mitomane è quasi uno status-symbol.

A me infastidisce molto più il sette gennaio o il primo settembre, che sono nell’immaginario collettivo il lunedì formato XXL, ossia quel nuovo inizio che ti inquieta perché ti lasci alle spalle un periodo speciale e una pausa tendenzialmente lunga. Però, lunedì 2 marzo ad esempio, perché non lo dobbiamo sopportare a prescindere? Che poi oggigiorno (era un sacco di tempo che volevo usare questa espressione) di lunedì magari gioca la tua squadra e finisce che lo aspetti quasi con entusiasmo (è appena successo), male che va in seconda serata ti guardi Tiki Taka, un paio di scosciate della Satta e s’è fatto martedì.

C’è di peggio dai, coraggio.

Un ragazzo di periferia. Ovunque.

Non ho mai avuto complessi, ma se devo trovarne uno per forza, il primo che mi viene in mente è il fatto di essere un ragazzo di borgata, ma non inteso come borgataro, tutt’altro, nessuno potrebbe sostenere questa tesi, ma il fatto di vivere proprio in periferia, lontano dal centro, mal collegato con i mezzi e in un quartiere della cintura romana.

Per anni questa condizione l’ho vissuta a metà, crescere sostanzialmente a casa di mia nonna mi faceva sentire meno periferico: la Stazione Tiburtina sullo sfondo, l’omonima via a 500 metri e tre metropolitane intorno mi trasmettevano un senso di centralità diverso. Certo, scendere a Quintiliani, la fermata metro meno usata e più nascosta fra le fratte di quel che resta della campagna romana, mi respingeva a distanze siderali dal centro, però era un qualcosa che mi scuciva un po’ la veste di ragazzo di borgata.

Tralasciando il valore a volte romanzato del nascere in zone difficili e disagiate, quando andavo alle elementari un po’ mi vergognavo di dire il mio quartiere, alle medie uguale, diverso invece era il discorso alle superiori. Crescendo infatti cambiano le percezioni e la stupidità aumenta, per cui dire che venivi da una zona malfamata accresceva la tua posizione. All’università invece, dire che vivevo a 4 km dalla facoltà era un piacere che ostentavo, per sottolineare la mia fortuna di questa vicinanza alla faccia dei paesani, dei burini e di chi doveva fare decine di chilometri.

Dentro di me però, fin da quando ero bambino ho sempre desiderato vivere in centro. Non nel centro storico, ma in zona molto più dentro la città. Se per raggiungere piazza di Spagna con i mezzi impiego un’ora abbondante (con la macchina nemmeno me lo pongo il problema), vorrei sperimentare il gusto di metterci la metà del tempo, di girare in qualche zona più storica della città, di vivere Roma diversamente, in modo privilegiato.

Sono uno di quelli che vivrebbe a Trastevere, senza dubbio, magari non proprio su piazza Trilussa per il caos e la movida, ma vivrei in tante altre zone, la mia preferita rimane quella intorno Castro Pretorio. Lì ho trascorso gli anni del liceo e un appartamento a Via Montebello, Via Goito o anche Via Alessandria, l’ho sempre sognato. A due passi da Piazza Indipendenza, vicino Termini, con la Nomentana che ti scorre affianco. Il fatto di essere mal collegato con i mezzi è sempre stata una croce, per cui, per me, avere bus e metro a portata di mano e vivere vicino a luoghi nevralgici è un aspetto che vale sopra ogni cosa.

L’etichetta di periferico e di ragazzo di borgata me la sono portata appresso anche nelle altre città in cui ho vissuto. A Dublino ero l’italiano di Stillorgan, poi quando sono tornato mi sono diviso fra Crumlin e Ballaly. A Toronto quando aggiorno il meteo e mi risulta York come località mi infastidisco mortalmente. Forse, anche per questo, non vedo l’ora di traslocare nell’alloggio in centro che dovrebbe essermi consegnato nel giro di un mesetto. Giorni fa guardavo la mappa e sognavo. Poter andare in redazione a piedi senza usare la metro, girare il centro di Toronto comodamente, andare a vedere il concerto di maggio con una semplice passeggiata, un lusso che mi pare impossibile.

Fra un po’ quindi coronerò anche questa fantasia, quella di essere per una volta in vita mia un cittadino del centro, immerso nel cuore pulsante del posto in cui vive, e pazienza se intorno a me avrò grattacieli, Starbuck e McDonbald’s e non monumenti o pizzerie a taglio.