Colombia 2017 – Bogotà

Per la prima volta in vita mia, all’aeroporto di Bogotà scopro una cosa inattesa e mai vista prima. Al ritiro bagagli infatti c’è una vetrata che divide coloro che aspettano dalle persone appena arrivate e tutto questo fa sì che la gente si possa vedere ed iniziare a mandare baci seppure con una lastra in mezzo. La cosa mi stupisce al punto tale che non capisco se sia bella o meno. Vedo infatti la Ragazza del Venezuela che mi ha già localizzato, e quando mi avvicino al nastro per la mia valigia, ovviamente la ritrovo lì a mezzo metro, sorridente, bella e in trepida attesa, di certo anche più fresca di me. L’impatto e l’emozione del rivedersi svaniscono così in qualche modo, o meglio, vengono annacquate. Certo, la forza di un abbraccio o di un bacio rimane quella, però il contatto visivo che non è supportato da quello fisico mi fa pensare dopo un po’ che questa storia della vetrata sia una stronzata.

Ci infiliamo in un taxi uber, e scopro subito che anche nella capitale colombiana la lotta fra taxi è uber è viva e arde. Al punto tale che l’autista mi chiede di sedermi davanti per dare meno nell’occhio, operazione che ripeterò altre dieci volte dopo esser salito in macchina con quelli della uber band.

Piove e fa fresco, ma il clima non mi sorprende. Arriviamo nella zona Chapinero e l’Hotel Living 55 ci accoglie quando è passata già l’1.30 di notte. Bel posto, personale impeccabile e appartamento che mi soddisfa molto, infatti inizio a dire a ripetizione: “Ah, se c’avessi avuto una casa così a Toronto”, esclamazione che trova ovviamente approvazione e supporto.

I quattro giorni a Bogotà sono una sfida perenne con il tempo. Piove sempre e quando lo fa, l’acqua batte in maniera insistente. Passo alla cattedrale che accoglierà il Papa a breve, giriamo intorno la Candelaria, mi immergo nel cuore della città e mi rendo conto di essere veramente in Sudamerica. Che vuol dire? Tanta confusione, gente ovunque, caos, disperati di vario tipo, bus affollatissimi. Molto disordine insomma, ma un qualcosa di ben diverso dal nostro e che ancora oggi non riesco a spiegare bene, paradossalmente, il nostro è un disordine (e un caos) più ordinato.

Bogotà è un posto strano. L’altitudine, le montagne sempre lì su un lato, un clima mai clemente, una città che per forza di cose assume un colore cupo e che le toglie la facile associazione America Latina – caldo. Non mi fa impazzire, e la sensazione iniziale si protrae nei giorni a venire fino a diventare una certezza. A me, il tempo così, mi dà fastidio, sarà che pago ancora le scorie canadesi ed è un discorso che spesso viene fuori.

La domenica ci rechiamo a Montserrate, un cucuzzolo a oltre 3000 metri su cui c’è un santuario, quello de “El Señor Caído”. Piove, c’è il sole, poi ripiove, tira vento, ma soprattutto una fila incredibile. La chiesa non merita molta attenzione, la vista sulla città è invece davvero imperdibile. Rende infatti l’idea di quanto sia grande Bogotà. Enorme, distesa in questa specie di conca, qualche palazzone, le case di un barrio piuttosto che di quell’altro in lontananza ed il verde alle nostre spalle.

Fra i vari giri che facciamo arriviamo anche a Zipaquira. Un’ora abbondante fuori città e la sua famosa cattedrale di sale. Una vecchia miniera adibita al suo interno a Via Dolorosa, a chiesa e a vari intrattenimenti, fra cui quello del cammino del minatore, molto divertente anche grazie al piccone datoci ad un punto per martellare i muri e racimolare un po’ di sale.

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