Chiudete le valigie, si va a Lampedusa!

Tra le centinaia di cose che sapevo avrei dovuto fare tornato a Roma, l’ultimo appuntamento mentale che avevo era quello di Lampedusa ad inizio ottobre.

Poche ore e anche questo impegno inizierà caratterizzando la prima settimana del mese.

Il team di SL che giungerà nell’isola siciliana sarà composto dal sottoscritto, da Sebastian, team leader e vero artefice di questo progetto e documentario, supportato dai cameraman Jay e Peter.

Dopo dieci giorni nelle montagne del Kentucky si ritroveranno con un compagno di viaggio in più, nel bel mezzo del Mediterraneo. È una esperienza in più per me, e quindi un grande piacere far parte di questo documentario in uno dei posti più menzionati e citati negli ultimi anni, soprattutto dall’ottobre del 2013 quando 368 migranti morirono a poche miglia dal porto di Lampedusa.

Due settimane dopo quel disastro scrissi il mio primo articolo in Irlanda in inglese su quel fatto e andare in questo posto, esattamente quattro anni dopo, ha un suo senso di ciclicità, proprio perché martedì prossimo nell’isola si terrà una commemorazione di quel drammatico episodio.

Speranza, traffici, accoglienza e disperazione, a Lampedusa, nel primo ingresso per l’Europa, credo si possa ritrovare un po’ tutto questo, e alla fine credo che soltanto andando lì si possano capire meglio almeno certe dinamiche.

L’impatto visivo e le percezioni sono troppo importanti in questo mestiere, soprattutto in alcuni luoghi.

Mi mancava lavorare su un documentario. Ho contribuito nella pianificazione di questo viaggio, ma da domani, come dicono loro, saremo “on the ground” sperando di portare a casa il più possibile e magari qualche grande storia imprevista. Il Giornalismo è anche questo.

Il Cimitero Teutonico del Vaticano

Facciamo che io ve lo metto qui, poi magari non vi interessa, però secondo me vale la pena. Anche perché certe cose mica si sanno. Ma questo mestiere è fatto proprio per “let people know” e mi pagano per raccontare queste cose.

A pochi passi dal colonnato di sinistra di Piazza San Pietro, su Via Paolo VI, si entra in quell’area in cui spicca l’Aula Nervi prima di arrivare al secondo controllo di identificazione. “Cimitero teutonico” è la parola chiave per il lasciapassare e pochi passi più avanti si entra nel Campo Santo dei Teutonici e dei Fiamminghi, in tedesco Friedhof der Deutschen und der Flamen.

Pur essendo in una via che tecnicamente appartiene alla città di Roma (Via Sagrestia 17), il complesso rientra nell’area extraterritoriale a favore della Santa Sede. Nonostante questo cavillo, il cimitero è di fatto considerato l’unico campo santo all’interno del Vaticano, un luogo che ispira preghiera e devozione.

La storia tramanda che nell’antichità qui si trovava il circo di Nerone che fu teatro di numerosi martiri di cristiani. Fu però il Giubileo del 1450 e l’arrivo di molti pellegrini a dare una spinta fondamentale alle ricostruzioni del cimitero e della chiesa. Proprio in questo periodo il complesso venne inglobato all’interno della struttura del Collegio adiacente. Questo avvenne per mano dei membri tedeschi della Curia i quali si unirono nell’anno 1454 in una Confraternita dei poveri morti, la quale in maniera un po’ diversa esiste tuttora ed è titolare della fondazione.

“Teutones in pace” recita infatti la scritta sul cancello di ferro all’ingresso, dentro lo spazio è suddiviso in quattro aiuole secondo una caratteristica che risale al Seicento. Del secolo successivo sono invece le statue in marmo raffiguranti i padri della Chiesa: san Girolamo, sant’Ambrogio, san Gregorio e san’Agostino.

Il cimitero ha un assetto artistico monumentale di grande effetto, culminante nella Cappella della Flagellazione. Intorno tanto verde fra alberi, palme, cespugli e fiori, il portico e le mura rossastre. Lapidi ma anche splendidi dipinti su maiolica che avvolgono lo spazio. Qui hanno trovato la loro sepoltura personalità ecclesiastiche, politiche e artistiche, come i pittori Johann von Rohden nel 1868 e Joseph Anton Koch nel 1839, la regina madre di Danimarca Charlotte Friederike e la suora Pascalina Lehnert, autentica regolatrice della vita di Pio XII nel 1983.

L’accesso alla Chiesa di Santa Maria della Pietà dal cimitero è costituito da un portale di Elmar Hillebrand regalato nel 1957 dal Presidente della Repubblica di Germania Theodor Heuss. L’altare maggiore presenta tavole pittoriche di Macrino d’Alba: al centro la Pietà, ai lati figure di personaggi del Nuovo Testamento.

All’interno della chiesa si trova anche “La Cappella degli Svizzeri” che servì dopo il Sacco di Roma come sepoltura per le guardie cadute. Sulle pareti si trovano invece splendidi affreschi di Polidoro Caldara, pittore italiano del XVI secolo che proprio in occasione del Sacco, fuggì da Roma per rifugiarsi a Napoli.

Ci sono dei criteri necessari e richiesti per essere sepolti nel Cimitero Teutonico: essere di religione cattolica e di madrelingua tedesco o fiamminga indipendente dalla nazionalità, e risiedere a Roma. Nel febbraio del 2015 il clochard Willy Herteleer, fiammingo di nascita, da decenni senza fissa dimora che viveva di elemosine nell’adiacente quartiere di Borgo Pio è stato sepolto nel cimitero teutonico. Un fatto insolito ma che ha riportato il campo santo alla sua vecchia funzione: accogliere i pellegrini poveri provenienti dal nord Europa, prima ancora di dare spazio ai nobili, ai cavalieri e ai benefattori della Chiesa.

Due mesi dopo

Due mesi forse sono abbastanza per tracciare un primo bilancio e parlare di questo ritorno e di quella partenza. Era giusto aspettare un po’, raccogliere le idee dopo aver elaborato delle sensazioni ed aver rivisto persone e luoghi. Le vacanze sono alle spalle, il calendario corre verso il 21 settembre e quindi la fine ufficiale dell’estate, il lavoro ha ripreso a pieno regime e anche il programma settimanale è ripartito. La Colombia, il mare, Montalcino, le visite dei parenti e i matrimoni sono già in archivio, così come un normale periodo di adattamento che mi ha lasciato delle certezze.

Sapevo che tornare a Roma non sarebbe stato semplice, in primis perché sarei rientrato in una certa vita, in una vecchia vita, in antichi schemi e dinamiche rimaste lì. Sapevo che mi sarei ritrovato disorientato e temevo che una sensazione in particolare potesse inizialmente abbagliarmi per poi non svanire più.

È strano rendersi conto di come i propri occhi siano cambiati, il modo di vedere le cose, di viverle, di guardarsi attraverso gli altri e capire che molto è cambiato, forse più del previsto. Fa uno strano effetto tornare a casa e non sentirsi più a casa come un tempo, come prima di partire, quando il tuo posto era appunto Casa.

Sono uscito pochissimo, forse il minimo indispensabile, ci sono persone che ancora non ho rivisto ed in generale non ho tutta questa grande voglia.

L’aspetto più complicato è che molte cose non si possono dire. Non si può parlare liberamente a volte perché c’è sempre il rischio di ferire qualcuno, e ancor di più il pericolo che qualcuno possa darti del superbo o di quello cambiato in peggio.

Vedo però persone chiuse nel cortiletto, vittime dei loro modi di fare a mio avviso ottusi, persone che parlano con orizzonti che finiscono un metro più avanti. Gente che si lamenta, nessuno che prova a cambiare le proprie sorti. Critiche, e mai idee. Chiamiamolo “provincialismo”, una cosa del genere. Vedo queste persone e avverto un disagio io.

Difficile spiegare alcuni concetti e far passare delle ragioni, la verità è che la gente o ti dice che sei cambiato con accezione negativa, oppure forza nel continuarti a vedere in un modo. Quella figura cristallizzata fa comodo a chi non cambia o non l’ha fatto. Notare i tanti cambiamenti di qualcuno, che spesso sono miglioramenti o una crescita, è un colpo nella mente dell’altro, perché è un confronto diretto, dal quale non si può scappare e che ti fa pensare: lui è cambiato e io no.

Fa comodo pensarmi in un modo, toglie a qualcuno il rischio di confrontarsi e di capire magari di aver perso qualche treno o di non essersi mai messo in gioco.

Ritornare e mettersi a cercare casa è un’altra rincorsa, con le mille difficoltà che implica una tale ricerca. Rifare tutto a distanza di due anni, è un déjàvu, un montare di nuovo un puzzle.

La perenne instabilità di questi anni, dettata da viaggi, valigie, case, traslochi, un ciclo che sembra non finire mai, al massimo avere una pausa. C’è forse anche una stanchezza di questo tipo presumo, nel rimettersi in moto in una certa maniera.

Ho provato a fare alcune metafore ultimamente, la più azzeccata a mio avviso è che sono una scatola di cartone che non entra più bene in un vecchio cassetto. Si può sgualcire e piegare, alla fine entra pure, ma ovviamente non nel modo appropriato.

Qui, la mia città, la mia vita a queste latitudini, è un recipiente nel quale non entro più bene ed è in fondo la più normale delle conseguenze di tutto quello che c’è stato e ho vissuto negli ultimi anni.

Sono cambiato io e non è cambiato nulla intorno a me. Ne il posto, ne le persone, e nemmeno la maleducazione, l’atteggiamento, i modi di fare, di vivere e vedere le cose. Provare una profonda fase di rigetto presumo sia abbastanza naturale.

Dire tutto ciò espone a critiche, ovvio. Alla gente, a chi non si è mai mosso, certe considerazioni non si possono fare perché si rischia di non essere capiti e soprattutto etichettati come esterofili o persone che vogliono mettersi su un piano diverso. Sbagliato, completamente errato. È il diverso punto di vista di chi ha semplicemente vissuto e sperimentato altro e quindi ha mixato stili di vita, colori e architetture.

Ho scelto di tornare soprattutto per lavoro. L’ho detto e lo ripeto, sapevo che era la scelta sensata e come ho sempre fatto ho anteposto il giusto a ciò che era facile o mi faceva più comodo.

Roma, oggi, è il posto in cui devo stare per tanti motivi, un passaggio obbligatorio, di crescita e formazione ulteriore. Una esperienza. Così ho sempre visto il ritorno, una tappa, una parentesi a casa. In questi anni ho capito che lavoro desidero fare nella vita, più avanti mi piacerebbe capire dove voglio vivere, forse in nessuno dei posti in cui sono già stato.

E proprio da qui nasce una delle convinzioni maturate in questi due mesi, una amara riflessione che ti conduce alla condanna di non sentirti più casa: non poteva essere Toronto per ovvie ragioni, ma non lo è nemmeno più di tanto Roma. Strano, ma vero, con il rischio che un giorno diventeremo un po’ tutti apolidi, perché un conto sono i sentimenti e l’appartenenza, aspetti nobili e romantici, diversa però è la vita nel concreto.

Due mesi alle spalle e molti altri davanti: sfruttare quanto di buono sa offrire questo mondo qua e lavorare sodo, tanto il guado è stato attraversato e indietro, dopo anni così, non si torna più.

Ripenso a due anni fa, al viaggio a Reggio Emilia e al concerto di Ligabue, quando ero consapevole che sarebbe stata l’ultima recita di un qualcosa: la fine di una fase, l’inizio di altro.

Non mi sbagliavo.

“Fa tutto lui”

Ad un punto ho pensato che fosse quasi brutto. Ma brutto nel senso di assurdo o talmente strano da risultare appunto quasi ridicolo.

Mentre ero intento nello scrivere i titoli di coda mi sono ritrovato a mettere il mio nome sotto la voce “conduttore”, “montaggio” e “riprese”. Praticamente tutto.

Ho deciso così di sopprimere il merito per le riprese che in fondo sono la cosa che hanno portato via meno tempo e tenere il resto, qualcosa per cui preferisco prendere eventuali meriti.

Questo è quanto successo giovedì sera mentre finivo di montare “Pagine Vaticane”, la prima puntata della seconda stagione dalla meravigliosa terrazza della Residenza Paolo VI.

Mai come stavolta mi sono trasformato in one-man show. Era capitato già precedentemente per Prospettive, ma un conto è parlare di un breve notiziario di 5 minuti, altra storia è un programma che va a riempire uno slot da 30 minuti nel palinsesto. Lavoro, preparazione, e soprattutto tutto quello che implica la post produzione, come ad esempio i titoli di coda a scorrimento.

Ho fatto tutto, e nonostante una luce non ottimale, causa cielo non dei migliori, e l’audio ancora da calibrare, anche se non penso che potrà mai essere perfetto, mentre riguardavo il programma finito per la prima volta ero soddisfatto.

Mettere in piedi una cosa del genere porta via molto più tempo di quanto un normale osservatore esterno possa immaginare, semplicemente perché non gli è nota tutta una serie di aspetti tecnici.

Tuttavia, la prima puntata è andata e direi anche bene, ma soprattutto è bene avere già una base del genere da cui ripartire, venerdì infatti sarà un’altra storia, e così in avanti, da qui fino a giugno 2018.