“Chiudete la valigie, si va a Berlino…Catto!”

L’unico antidoto per superare la puntuale malinconia che accompagna la fine del mondiale, e ancor di più l’atto conclusivo, è quello di aver qualcosa da fare il giorno dopo. Ma qualcosa di stimolante, un brivido, magari un viaggio.

In modo del tutto involontario, sarà proprio questa la soluzione che mitigherà in qualche modo la tristezza per la fine di questo splendido mondiale russo, un viaggio a poche ore dal fischio finale della gara di Mosca.

Ancora una volta, io e David, il nostro amato velocipede fiuggino, saremo in pista per un altro giro europeo che allunga la nostra tradizione.

Nell’anno del mondiale, torniamo in una città mondiale, quella che 12 anni fa aveva il cielo azzurro. Domani sarà la volta di Berlino.

In un certo senso, questo viaggio chiude un cerchio e vede compiersi la sublimazione della famosa frase “Chiudete le valigie si va a …” tormentone che dal 2007 utilizzo prima di ogni partenza e che poi è stato in qualche modo ripreso dai miei amici e conoscenti.

Ovviamente la frase nasce proprio in quel felice mondiale tedesco del 2006 e fu coniata dal telecronista di Sky, Fabio Caressa. Non tutti sanno però che questo marchio di fabbrica nasce per caso, poco prima di Italia – Repubblica Ceca.

È il 22 giugno quando gli Azzurri affrontano Nedved e compagni nella terza partita del girone. L’Italia deve vincere per essere al sicuro da eventuali sorprese, con un successo è prima nel girone, io invece ho appena consegnato la mia seconda prova di maturità. Azione oltretutto espletata anche con una certa fretta, proprio perché alle 16.30 ho appuntamento con Paolo e Chicco per raggiungere Piero a Casal Quintiliani. Quella è la location dove vedremo questa sfida decisiva.

A qualche migliaio di km intanto, e poco prima, Fabio Caressa sta preparando i bagagli per andare al FIFA WM-Stadion di Hannover. Mentre è in camera, lo chiama un suo collega di Sky che gli chiede se è pronto. Prima di chiudere la conversazione gli domanda: “Fabio hai chiuso la valigia? E allora dai, andiamo ad Amburgo”. Caressa si ferma qualche secondo e si annota mentalmente la frase, ma soprattutto si rende conto che da quella partita in poi, con le sfide ad eliminazione in arrivo, ogni volta si saprà la prossima città in cui si andrà a giocare.

La frase lo stuzzica e qualche ora dopo la tira fuori. L’Italia vince 2-0 con gol di Materazzi e Inzaghi, vola agli ottavi e Caressa chiude la telecronaca con un “Chiudete le valigie, si va  Kaiserslautern”.

E già, lì gli azzurri affronteranno l’Australia, prima tappa del lungo viaggio verso Berlino, destinazione che sarà raggiunta passando ancora per Amburgo e Dortmund, ma sempre con il buon Fabio a scandire il tormentone al termine di ogni successo e con lo sguardo rivolto alla prossima partita.

“Chiudete le valigie, andiamo a Berlino Beppe!” è semplicemente il punto esclamativo della storia. Arriva infatti al termine di una gara epica contro la Germania e nell’esaltazione totale di tutti noi Caressa si lascia andare. Quella frase diventerà ufficialmente un marchio della coppa del mondo vinta nel 2006.

Tutto questo per dirvi che finalmente c’è modo di prendere un nuovo aereo e di scoprire un altro posto, ma soprattutto una nuova esperienza con il Catto che come sempre vale il prezzo del biglietto ogni volta.

E quindi, oggi più che mai, dopo Atene, Madrid, Stoccolma, Sofia e Toronto, “Chiudete la valigie, si va a Berlino…Catto!”

Toronto, nove mesi dopo

So soltanto che ero partito per il visto, e poi mi sono ritrovato a camminare per Times Square, con 28 gradi e il rischio di non rientrare a Roma come stabilito il 7 maggio.

Certo, bisogna riannodare il filo per bene per spiegare tutto questo, e un’ora di pausa vale la pena impiegarla in questo modo.

Ritrovarsi a Toronto dopo nove mesi mi ha permesso di fare una serie di valide riflessioni, la prima, e la più immediata, è stata quella del profondo senso di familiarità che ho percepito subito. Tutto ho avvertito tranne che da 9 mesi ero fuori dal Canada. Camminare lungo Sherbourne o ritrovarmi a Dundas Square mi ha trasmesso quella sensazione di compiere una azione fatta per l’ultima volta poco prima, roba di settimane, non certamente di mesi.

È stato strano ritrovarmi davanti il palazzo in cui ho abitato per oltre un anno e mezzo e vedere la finestra del mio appartamento aperta, consapevole che non ero stato io a lasciarla così, per far cambiare un po’ l’aria mentre ero a fare la spesa da Metro.

È sempre particolare ritrovarsi in un luogo che ti è appartenuto così profondamente e non aver modo di poterci accedere, fortunatamente, e per ovvi motivi, questo è successo solo per ciò che riguardava la casa.

Per il resto Toronto è quella, esattamente come l’avevo lasciata, stesso discorso per le persone. La cosa che mi ha stupito è la velocità con cui hanno tirato su due grattacieli all’incrocio affianco al mio vecchio condominio. Quando sono partito stavano facendo gli scavi, oggi ci sono oltre 30 piani di una costruzione enorme, una roba che in Nord America capita senza troppe storie ma che a me, nonostante tutto, fa ancora effetto.

Toronto dicevo, l’ufficio, il ritorno al caro Crocodile, i profumi di sempre, la TTC, il fuso che ti dà sempre quella stranita nonostante l’abitudine e poi ovviamente i volti delle persone.

Tutto bello, perché la verità è che tornare in un posto così significativo è sempre un rischio, anche per poche settimane, non sai mai dove puoi finire.

Per il resto, ho ripreso la mia vita normale in ufficio, i tempi e le abitudini: la pasta portata da casa, le giacche lasciate in redazione per andare in onda, il panino comprato da Sobeys, insomma una routine alla quale mi sono immediatamente riabituato, come se avessi riacceso l’interruttore dopo alcuni minuti di black-out.

In tutto questo c’è stata ovviamente la gita a Niagara per il visto e proprio come tre anni fa, il primo tentativo è andato male, stavolta per un motivo ancora più sciocco: da alcuni mesi infatti non rilasciano più visti dal venerdì al lunedì. Fossimo andati il giorno prima tutto sarebbe andato liscio, invece no.

Invece, per l’ennesima volta in vita mia, l’intoppo ha bloccato tutto, ha complicato la situazione. Non avrei scommesso su una perfetta e immediata riuscita, ma non per pessimismo, è semplicemente perché è sempre andata così negli ultimi 31 anni. Qualunque cosa, anche la più banale, se ottenuta, è sempre stata agguantata dopo passaggi rocamboleschi, brividi inattesi, complicazioni di vario genere.

L’assalto fallito al primo tentativo ha generato una serie di conseguenze e prospettive, una delle quali era quella di rimanere lì dieci giorni in più per ottenere il visto, andando con il mio capo alla frontiera nuovamente. Alla fine mi sono ritrovato nella situazione ancora più surreale di prendere un volo per NYC alle 7 di mattina e rientrare con l’aereo delle 5. Nel mezzo, un giro inatteso per la mia città preferita, e tornarci dopo solo due anni mi ha agevolato poiché mi sono potuto muovere con destrezza insolita, considerando che avevo ben chiari nella mia mente tutti i punti di riferimento chiave.

Poche ore in giro per Manhattan e poi ancora un volo, la tosse che mi ha scortato fedelmente in questi giorni e una delle file più lunghe che io ricordi all’ufficio di immigrazione dell’aeroporto di Toronto. Tre ore in piedi per un visto, ovviamente strappato con ulteriori peripezie, visto che volevano darmi un solo anno anziché i tre richiesti.

Una giornata infinita, terminata con il risultato desiderato, il motivo che mi aveva appunto spinto a partire per un giorno, rientrando in Canada dalla frontiera aeroportuale.

Come in passato, Toronto non è stata però sinonimo di comodità o di cose facili, lo sapevo in fondo perché troppe volte l’ho sperimentato. Ho dormito sul mio vecchio materassino gonfiabile per otto notti, esperienza non meravigliosa soprattutto se devi recuperare da viaggio e jet-lag, mi è venuta la tosse quasi immediatamente, dopo 9 giorni ho traslocato altrove, tutto il caos per il visto, insomma, non una passeggiata, ma come detto, non mi stupisco di tutto ciò.

È stato bello tornare, è stato utile per capire anche quale risposta dare al grande quesito: ma ho fatto bene a tornare a Roma per lavoro? Sì, è stata l’idea giusta, ma se in Canada mi mancavano le persone dell’Italia, di Toronto mi mancano diverse cose da fare e soprattutto un certo status. È la vita alla fine, va sempre così.

See you soon.

Toronto Atto VII

Qualche ora e poi tornerò a Toronto. Non è certo la fine di ottobre 2015 quando con il Sinodo quasi all’epilogo ero pronto a imbarcarmi nuovamente senza biglietto di ritorno, ma al tempo stesso è pur sempre un qualcosa di importante.

Mi aspettano poco meno di tre settimane canadesi, e fra lavoro e motivi burocratici per sistemare un po’ di faccende, non ci sarà tantissimo tempo per svagarsi considerando le moltissime cose da fare e i tempi serrati.

Il tempo è peggio del solito, la neve sta andando oltre la metà di aprile, cosa piuttosto poco usuale anche a Toronto, arriverò con la neve lungo le strade, come tutte le volte a parte un paio di volte, ottobre 2015 appunto e maggio 2016.

Ci sono ovviamente sensazioni particolari in questo ritorno, molte più di quanto avrei immaginato. Tornare in un posto in cui hai passato due anni e mezzo ha sempre un sapore speciale, è un riappropriarsi di certi immagini che per lungo tempo sono state quotidianità, la normalità.

Fin dalla prima volta che rientrai a Dublino da Liverpool, dopo i primi mesi di Irlanda, rimasi sorpreso da quella sensazione di quando torni in un posto che non è il tuo ma ti senti a casa, perché quella, effettivamente è la tua casa, o almeno lo è diventata. Toronto è proprio questo.

Indubbiamente è il posto in cui ho vissuto più tempo escludendo Roma: la città degli ultimi anni con la quale ho avuto un rapporto altalenante, di profonda incomprensione reciproca, ma che col tempo si è evoluto e gradualmente migliorato, soprattutto negli ultimi 10 mesi.

Volo da Roma e Toronto per la settima volta, tornerò in un luogo che ha segnato veramente un prima e un dopo nella mia vita. Un posto in cui ritroverò facce amiche, colleghi, sguardi e profumi. Il Crocodile, la redazione, Dundas Square e forse anche un pizzico di malinconia, quella però che ti fa sorridere.

È tempo di andare, anzi, di tornare.

Colombia 2017 – Il ritorno

Quel posto che era stato teatro di un ricongiungimento tanto atteso, diventa otto giorni dopo il palco su cui si consuma il più classico degli arrivederci strappalacrime. La lunghissima fila per mollare la valigia ci toglie oltretutto del tempo prezioso da condividere insieme come scorcio finale. Il momento dell’abbraccio dura relativamente poco e porta in dote con se tutto un suo dolore molto particolare, che chiunque avrà vissuto almeno una volta nella vita in qualche modo. Il volo verso Miami viene riempito proprio con queste righe, queste pagine, cercando di sfruttare il tempo per ricollegare i pensieri e fare un po’ di ordine, ma anche per riassaporare quanto appena vissuto.

Arrivato a Fort Laurdale, l’altro aeroporto di Miami, condivido un taxi e vado in hotel. Miami è stata inondata, ci sono pozzanghere dappertutto ed è chiaro che il maltempo continui a seguirmi senza tregua. Il breve giro serale termina da “Sbarro” per un pezzo di pizza, e qualche rapida occhiata dalla quale traggo alcune sensazioni iniziali: troppa poca luce per strada, semafori che sembrano dimenticarsi dei pedoni, umidità altissima, tanti italiani, ma soprattutto tendenza da parte di chiunque a parlarti in spagnolo direttamente, come se l’inglese fosse un accessorio.

La seconda giornata in Florida è inaugurata da un check-in online complicato (l’ennesimo) ed un incontro con due italiani di Prato alla fermata del trolley blu, il mini-bus gratuito che copre alcune parti di Miami Beach. Mi suggeriscono di camminare per Ocean Drive e Collins Ave, seguo le loro direttive e abbandono l’idea di un salto anche downtown. Faccio una lunghissima passeggiata costeggiando il mare, fra palme, campi da beach volley e gente che sfreccia con bici e pattini. Arrivo fino alla quinta e poi risalgo mentre il sole esce sorprendentemente e quando lo fa picchia anche per bene. Mi infilo in Lincoln Road che decreto come la mia strada preferita e pranzo qui, in un pub irlandese. Mi prendo tutto il mio tempo, anche se vorrei che fossero già le 6 per dirigermi in hotel. La stanchezza c’è, lo scoglionamento non tarda e soprattutto Miami, senza mare è finita lì, in ciò che ho già visto, considerando anche che entrare nei negozi significa consegnarsi alla bronchite per una aria condizionata a livelli inumani. Un classico nordamericano a cui sono ormai abituato.

È proprio mentre mangio il mio panino che dal pub parte una canzone che mi riporta in un attimo a Dawson’s Creek – essendone parte della storica playlist del telefilm – e mi getta addosso un senso di malinconia inattesa e veramente profonda. Tre minuti in cui penso al viaggio che volge alla fine, a quando ci rivedremo, a tutto un subbuglio di emozioni e a quanto in questi anni “ho vissuto”, una frase e un concetto difficile da spiegare ma che so bene cosa significhi per me.

Questo alone mi accompagna per il resto della giornata prima di raggiungere agevolmente l’aeroporto e partire, in orario e con tanto di compagnia italiana al fianco e Jennifer Lopez come hostess. La pastiglia mi fa effetto intorno metà viaggio e di fatto mi fa dormire fino alla fine. Piove anche a Madrid e chiudo l’en plein in modo perfetto, incrocio le dita e spero che il clima di Roma non mi tradisca. Anche perché, quando avrò raggiunto Fiumicino, il viaggio sarà finito, veramente finito, ma non le emozioni e tutto quello che ho visto, sentito e annusato. Queste cose infatti, sono doni che non svaniscono quando i carelli dell’aereo toccano terra. 

CONTINUA