Ritornando

Ma sei tornato?

Sì, sì so tornato…

Molto diverso tornare a casa da turista o in pianta stabile. Diverso perché vivi tutto con un altro spirito e soprattutto imposti il cervello su una frequenza insolita che ti fa vedere la realtà circostante in modo totalmente differente.

Questa è stata una delle mie riflessioni più presenti in questi giorni, questi dieci giorni, dal secondo sbarco con provenienza Toronto.

Una settimana di vacanza che si è trasformata in tutt’altro con decine di cose da fare e sistemare anche rapidamente. La macchina con annesso passaggio di proprietà, l’assicurazione, le gomme, il meccanico, la revisione, le tappe obbligatorie per rimetterla in moto dopo quasi due anni.

Diversi giri e tanti soldi spesi, una enormità se aggiungiamo l’altra missione da completare, il vestito per il matrimonio, con la camicia, le scarpe e la cravatta. Ripianato il debito relativo al regalo per questo evento, mi sono domandato se tornare era stata proprio una grande idea considerando l’esborso iniziale. È come se mi avessero dato una cartella di Equitalia all’arrivo a Fiumicino, considerando poi quelle altre cosette, come il cavalletto, il telefono da far ripartire e altri ammennicoli vari.

Tutto molto bello però. Un ritorno in grande stile al quale ho voluto dare un tocco magico, fra il sentimentale e l’inatteso, comprando il biglietto per andare a Bogotà per far visita a chi di dovere.

Una bella cosa. Una di quelle che generano fomento al netto di soldi, fatiche, viaggi interminabili e intercontinentali a breve giro dall’ultimo. Chi se ne frega. Ci sta, e sarà un brivido capitale.

Poi? Poi è successo che questa settimana di vacanza è sfilata via senza che io ne abbia memoria, cercando di smaltire il fuso e provando a sistemare le varie commissioni. In compenso, non sono andato al mare, niente piscina, sono uscito appena due volte la sera, mi sono mangiato solo due pizze e 5 supplì complessivi, ho bevuto due limoncelli e sono ancora bianco cadaverico.

Il lavoro è ricominciato, e in un paio di giorni ho vissuto una quantità indefiniti di déjà-vu dell’estate del 2015: ricordi di fatica e corse, camicie sudate e microfoni a portata di mano, caldo isterico e la fermata Ottaviano.

Mi è tornata in mente anche l’antica sensazione di fastidio di quando devi fare tutto da solo, bello, per carità, stimolante, certamente, ma in giornate storte anche un filo logorante.

Ma tutto questo, e quando dico tutto intendo proprio tutto, era abbastanza in conto, i turni preliminare sono finiti, da domani sera iniziamo a fare sul serio e ci lasciamo trasportare dai grandi eventi che ci attendono con annesse emozioni.

 

L’ultima pedalata

Alla fine le cose migliori sono spesso frutto della spontaneità o del caso. Ci pensavo mentre pedalavo lungo lago mercoledì sera, nell’ultima – e forse unica – passeggiata ciclistica di questa stagione.

Dovevo andare al bar, ma a causa del tempo, tutto è saltato. Sono andato a portare un po’ di vestiti che ho scartato in un posto e poi, considerando che non sembrava esserci nessuna tempesta in arrivo, ho deciso di puntare verso sud e di allungare il tragitto con la bici. Da Parlament fino al lago e poi avanti, costeggiando la pista ciclabile che divide i grattacieli dall’acqua.

Proprio mentre pedalavo, e guardavo la città da un’altra prospettiva, ho pensato che fosse una immagine perfetta, molto cinematografica, per chiudere un racconto, prima che la voce del protagonista prenda il sopravvento ed arrivino i titoli di coda.

La pedalata mi ha portato davanti a diversi luoghi, angoli della città che mi hanno rispolverato ricordi divertenti, profondi o assurdi. Dalla pazza indigena con il cane, ai dolori del giovane Werther attualizzati nel weekend del Victoria’s Day di due anni fa, ai giri da turista nel luglio del 2015, o alle volte in cui ho preso il battello per andare nel mio posto preferito di Toronto, l’isola, così come la birra dopo la settimana infinita dalla GMG con la Ragazza di Richemont lo scorso luglio.

Ho pedalato tanto, assaporando questo momento imprevisto, ho pensato a quale colonna sonora poteva essere adatta ma non mi è venuto nulla in mente. Ho riflettuto ancora, come è successo spesso, su questi due anni e mezzo qui, su quante cose siano successe, su quanto sia cambiato, ma soprattutto migliorato come persona. Per me, almeno, è così. Vado via da qui in pace con me stesso sotto ogni aspetto e senza nessun rimpianto, l’unico è quello di non aver giocato mai a basket qui, considerando il numero esagerato di campetti e canestri.

Sono stati anni lunghi e complicati, e per questo preziosi. Senza le tante difficoltà in cui sono incappato, oggi, tutto questo non potrebbe avere lo stesso valore. È stato un crescendo di responsabilità, di lavoro e convinzioni, e indubbiamente sono stati gli anni che mi hanno traghettato da una fase, quella di ragazzo, ad un’altra, quella dell’età adulta.

Diventiamo adulti quando il numero delle responsabilità aumenta, quando ogni decisione spetta a noi e quando siamo autonomi. La maturità, mediamente è conseguenza di tutto questo e qui in Canada tali aspetti si sono compiuti un passo alla volta.

Tante volte ho detto di essere una persona fortunata e privilegiata, tornare a Roma con tutto quello che potevo in tasca è un grande successo ma è costato anche molto e so bene ogni sacrificio e ogni problema che mi sono dovuto sobbarcare. So benissimo la fatica che ho fatto.

Cinquanta minuti dopo, la pedalata era finita, la città iniziava ad illuminarsi sul serio e le nuvole lasciavano lo spazio alla notte.

Toronto mandava in archivio un normale mercoledì di mezza estate, per me invece era l’ultimo vero giro della città: amata, odiata, sottovalutata, spesso non compresa, ma sempre ringraziata.

L’ultima settimana

A cinque giorni dalla mia partenza e dal ritorno definitivo a Roma, so bene che avrebbe senso scrivere un post riepilogativo, una summa di tante cose, uno Zibaldone di sensazioni, un report zeppo di pensieri e annotazioni. L’ho pensato eppure l’idea non mi esalta, non ho il post in canna e non ho quella smania di condividere per forza qualcosa.
Allo stesso tempo, sono diverse le riflessioni che si ripropongono negli ultimi giorni, concetti su cui inciampo spesso, il primo, ovviamente è spiegare le sensazioni alla domanda ascoltata già 200 volte “Are you excited to go home?”
“No, I am not excited” di tornare a casa. Questo è il modo con cui inizia la mia risposta che prosegue subito dopo con una spiegazione.
Non sono excited perché non me ne rendo conto, non sono eccitato e nemmeno felice, semplicemente perché sono concentrato su tutto quello che devo fare.
Lasciare Toronto implica una quantità esagerata di cose da portare a termine prima di una scadenza inderogabile. Il problema è che alle cose lavorative si aggiungono quelle burocratiche, legali, un trasloco intercontinentale, un appartamento da svuotare, oggetti da vendere, vestiti da regalare, contratti da bloccare e altri da disdire.
Una ridda di operazioni, un continuo chiamare e girare, un sacco di “commissioni” come direbbe mia nonna, senza dimenticare che ci sono amici e colleghi da salutare, persone che non ragionano che la loro richiesta di vederci o uscire è la stessa fatta da altre dieci persone nella settimana meno adatta.
Questo però è quello che sta succedendo, e rimanere concentrati è molto più che determinante. Considerando che non esiste margine di errore e ogni cosa deve essere sistemata, non c’è troppo spazio per emozioni e ragionamenti filosofici, ma tempo solo ed esclusivamente per portare tutto a termine.
Non c’è ancora dello stress, non sono esaurito e nemmeno stanchissimo, potrei diventarlo più avanti ma ero pronto a questo finale concitato.
Pensando a tutto questo mi sono reso conto anche di come i tanti impegni si stiano rivelando particolarmente terapeutici. Mi distraggono molto e mi fanno avvertire non oltremodo l’assenza della Ragazza del Venezuela con la quale convivo ormai da due settimane.
Alla sensazione straniante della sua partenza, è venuta in soccorso la mia – di partenza intendo – e in questo calderone finale ho rintracciato anche un aspetto positivo.
Ci vuole un ordine mentale ben chiaro in queste situazioni e fortunatamente io ne ho uno di serie abbastanza affidabile, ma che potrebbe anche fallire in certi passaggi, per cui devo rimanere concentrato. Domenica pomeriggio quando mi ritroverò seduto sul pavimento, con solo le due valigie intorno, capirò che sto andando via ma in modo diverso.
Tornare a Roma, in questo periodo, ti dà l’idea della classica vacanza estiva, inizierò a capire tutto per bene quando non sentirò l’angoscia dei giorni che passano e del fatto che devo tornare. Lì, certamente, capirò che una nuova fase è cominciata.
Ora è tempo di chiudere questa settimana nel modo migliore, per emozioni e riflessioni ci sarà sicuramente l’occasione adatta, ma una cosa la so bene: tornare a casa meglio di così, era semplicemente impossibile.

L’Inter di oggi spiegata a un canadese

Ma quindi in quale competizione giocherete il prossimo anno? Champions League? Europa League?

No guarda, in nessuna delle due. Ancora una volta, per il terzo anno negli ultimi cinque, siamo fuori da tutto. Non siamo propria sulla mappa europea del calcio. Che tristezza eh? La Champions ormai è diventata un sogno irraggiungibile, una cosa quasi fuori portata, pensa che l’ultima volta che abbiamo giocato una partita in Coppa Campioni, avevo da poco compiuto 25 anni e mi ero appena laureato alla magistrale, era marzo 2012. Una vita fa.

E chi sono ora i proprietari?

Sono dei cinesi. Gente che ha fatto i soldi con una catena di elettrodomestici, Suning, do you know it? Hanno una enorme disponibilità economica, sono arrivati un anno fa ma la prima stagione è stata un disastro raro. Nonostante qualità della squadra e investimenti sul mercato – oltre 120 milioni di euro – siamo arrivati settimi, giocando il peggior campionato della nostra storia recente. Parlano un sacco questi cinesi, pensano che raggiungere grandi traguardi con una azienda di frigoriferi e lavatrici sia un po’ come nel calcio. Hanno cambiato dei dirigenti, fanno proclami in continuazione, volevano prendere due allenatori, il meglio in Europa, e ovviamente non ci sono riusciti.

Ma non erano indonesiani, avevo sentito così?

No, l’indonesiano è l’altro. Noi abbiamo due presidenti, un proprietario e tanti dirigenti a casaccio. L’indonesiano è Thohir, uno che ha preso la squadra nel 2013 e dopo meno di tre anni l’ha rivenduta, o meglio, ha dato via la maggioranza ai cinesi. Lui si è fatto la sua speculazione, una grande pubblicità ed è ancora presidente. Ha circa il 30% del pacchetto azionario ma soprattutto con un paio di scelte insensate ha mandato all’aria la scorsa stagione, cacciando l’otto di agosto Mancini e prendendo uno che solo lui poteva scegliere, uno condannato a finire male da subito. Sfortunatamente, questo Thohir è ancora in mezzo ai piedi. Con lui abbiamo avuto tre stagioni modeste, la CL non l’abbiamo vista nemmeno con il binocolo. Parlava spesso di marketing, brand, e poi niente, un giorno è sparito. Da un pezzo non si vede, e speriamo esca di scena del tutto al più presto.

E Zanetti?

Fa il vice presidente, una figura di rappresentanza e basta. Ma vedi, l’Inter non esiste più. e questo processo di totale disgregazione è iniziato nel 2013. La cessione di Moratti a Thohir, l’addio dei tanti grandi senatori, fra cui Zanetti stesso, la scelta di un allenatore detestato da tutti, uno che a fine anno, dopo un quinto posto, ha convocato una conferenza stampa per ripetere concetti banali espressi durante tutto l’anno, aggiungendo che però avevamo battuto più corner di tutti. Mica male no? Da lì in poi abbiamo giocato un anno senza la nostra maglietta, pensa te a che siamo arrivati, ma con un gessato, non ci siamo avvicinati a giocare una finale nemmeno per errore. La stagione che inizia è quella che potrebbe portare al settimo anno di digiuno dai successi. Se finiremo a zero significherà il più lungo periodo senza vincere nella nostra storia dal dopo guerra…

Un quadro abbastanza negativo direi…

Direi che siamo messi male. Certo, sempre meglio avere i soldi che le casse vuote, ma il problema è che nessuno in fondo, si rende conto del disastro economico, di appeal e blasone che ha avuto questa squadra negli ultimi anni. Perché un giocatore dovrebbe accettare magari 10 milioni dall’Inter quando può avere la stessa cifra da qualcun altro e giocare per obiettivi importanti come scudetto o Champions League? Perché venire da noi per lottare per il quarto posto (ringraziamo il Signore che ci sarà un piazzamento in più, l’unica cosa che aumenta le nostre limitate chance di Europa vera) e non giocare per nessun obiettivo stimolante? Ecco, i soldi sono importanti, ma non bastano quelli per ricostruire letteralmente una squadra. Davanti a noi ci sono anni di attesa ancora, di errori e pianificazioni.

È lunga amico mio. Ma sai, oltre a non vedere più dello spettacolo, a non esaltarmi per qualche momento cruciale, a non ammirare un campione con la nostra maglia e provare vergogna perché so che non solo non possiamo vincere, ma nemmeno possiamo essere competitivi, beh, io ho perso pure il senso di appartenenza verso questa squadra.

Perché sì, oltretutto ci hanno privato anno dopo anno della nostra identità.

Do you know what I mean?

Conversazione avuta recentemente con un amico qui, tifoso del Manchester United.